Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Ninetto Davoli, Elda Tattoli e Alberto Moravia © Carlo Bavagnoli (1969) Close-up.LIFE. Tutti i diritti riservati
Caro Bellocchio,
non le farò un discorso particolare, sul suo film, tanto più che non c’è il modo, ora, di condurre un esame, come a me piace, filologico-stilistico sul testo. Le farò, però, e spero che questo le interessi, un discorso in generale, che ho già iniziato altrove. Cioè io vorrei inquadrare il film in una situazione culturale che in qualche modo lo supera, lo trascende, lo include, lo implica – e mi riallaccerò quindi a certi miei discorsi, a certi miei ragionamenti teorici fatti a più riprese e che hanno come centro l’individuazione della nascita del cosiddetto cinema di poesia. Lo riassumo proprio in due parole, proprio per intenderci: alle origini il cinema è stato una ‘lingua poetica’ – si sa che in letteratura c’è contemporaneamente una lingua della poesia e una lingua della prosa; la lingua della poesia, mettiamo, in un dato momento storico usava le parole ‘fé’ o ‘speme’, che in prosa non si usavano. Il cinema, alle sue origini, si presenta essenzialmente come cinema di poesia, a causa soprattutto, probabilmente, delle restrizioni prosodiche del muto.
Però, piano piano, le ragioni commerciali hanno fatto sì che il cinema prendesse una strada che in fondo è contraddittoria e cioè diventasse praticamente un cinema scritto nella lingua della prosa, diventasse un cinema di prosa. E si sono avuti dei capolavori di prosa – veri e propri romanzi – mettiamo da Ford a Bergman. In questi ultimi tempi si è presentata all’orizzonte europeo e mondiale la figura di una internazionale stilistica di cinema di poesia. Qual è la differenza fondamentale tra questi due tipi di cinema, il cinema di prosa e il cinema di poesia? Il cinema di prosa è un cinema in cui lo stile ha un valore non primario, non appariscente, non clamoroso: mentre lo stile del cinema di poesia è l’elemento centrale, fondamentale. In parole molto povere, nel cinema di prosa, non si sente la macchina da presa e non si sente il montaggio, cioè non si sente la lingua – la lingua traspare sul contenuto e ciò che conta è quello che viene narrato. Nel cinema di poesia invece si sente fortemente la macchina da presa, si sente fortemente il montaggio.
Come esempio limite, vi faccio pensare ai film di Godard, in cui si sente continuamente la presenza della macchina da presa che lavora sui personaggi e si sentono continuamente gli strappi del montaggio che non sono mai una funzione di una narrazione quieta, piana, tranquilla, ecc. Pensate per esempio anche al film di un altro giovane, Bertolucci, Prima della rivoluzione. Il suo film, Bellocchio, a quali di questi due filoni appartiene? Il cinema di prosa o il cinema di poesia? Prevale il racconto, il contenuto, il personaggio, la psicologia, la rivolta antiborghese, o prevale lo stile?
Direi che il suo film appartiene al cinema di prosa. Ma questo è il punto che mi sembra importante. È una prosa molto particolare, è una prosa che spesse volte sbava e sfuma quasi nella poesia – ricordo per esempio un recente libro di Roberto Roversi, in cui il tessuto narrativo ogni tanto sfociava in pezzi di vera e propria poesia, cioè la prosa si trasformava in frammenti di versi. Così, un po’, in lei. La sua è una prosa sì, ma una prosa che sfuma continuamente verso forme di espressione di tipo stilisticamente poetico, e cioè una prosa profondamente espressionistica. E questo è rivelazione e spia di un fatto estremamente importante nella sua ispirazione. Infatti – naturalmente, sto facendo uno schema – se volessimo riassumere in una formula che cosa è questo film, non saremmo soccorsi da nessuna delle formule che ci sono state care finora. Potremmo parlare di neorealismo per il suo film, potremmo dire che c’è del neorealismo, che in qualche modo il suo film è neorealistico? No: le situazioni umane, stilistiche, del suo film non sono neorealistiche. Non si tratta nemmeno di un film che appartenga in qualche modo al realismo socialista, cioè non è nemmeno un film di denuncia sociale fatto da un punto di vista marxista; e non è nemmeno un film, per intenderci, fatto all’Antonioni, cioè un film di problematica neocapitalistica che si ponga quasi contemplativamente i problemi del mondo più strettamente contemporaneo, del mondo degli anni Sessanta.
Lei è al di fuori di queste formule. Il nocciolo del suo film è una specie di esaltazione della abnormità e della anormalità contro la norma del vivere borghese, contro le istituzioni e contro il livello medio della vita borghese, familiare. È una rabbiosa rivolta dall’interno del mondo borghese. Per esprimermi vivacemente, potrei dire che il suo film è il film di un beat, di un capellone. Mi ricorda in qualche modo la poesia di Ginsberg – cioè è estremamente al di fuori di tutte le scuole, le correnti poetiche, ideologiche ecc. ecc., che hanno caratterizzato il cinema italiano finora. È insieme, credo, con il film di Bertolucci, il primo caso di un film italiano che sia andato al di là del neorealismo, come sono andati al di là del neorealismo certi film francesi o certi film inglesi.
La rivolta irrazionalistica de I pugni in tasca solo superficialmente può sembrare in qualche modo un regresso – premetto che l’idea del regresso non può balenare nella testa sua o di altri giovani come lei e viene in testa a me perché io già lavoravo dieci anni fa. Dieci, quindici anni fa, il tema più profondo, credo, per quanto detto schematicamente, della cultura italiana, era la lotta contro l’irrazionalismo borghese di tipo novecentesco. Ora questa lotta fatta da me e dai miei amici e compagni contro questa forma irrazionalistica si rivela in questo momento parziale e errata, perché la caratteristica del mondo borghese, come dice con grande chiarezza Goldmann sulla strada di Lukács, non era l’irrazionalismo, come noi credevamo, ma il razionalismo. È il razionalismo la caratteristica principale del mondo borghese, l’irrazionalismo era una forma di lotta antiborghese, di quelli che Lukács, e nella sua scia Goldmann, chiama gli individui problematici, gli scrittori, i poeti.
Ora, perché questa sua forma irrazionalistica di rivolta, di anormalità da capellone, non si presenta assolutamente come un regresso? Perché è chiaro che è passata attraverso tutte le esperienze culturali dei dieci-quindici anni che l’hanno preceduta.
È vero, il suo film non è un film realistico, però c’è l’esperienza neorealistica che non è affatto lasciata da parte, dimenticata; è assimilata; c’è un certo modo di vedere l’Appennino, un certo modo di vedere mettiamo la scena del ballo – i ragazzi che ballano in quel piccolo night-club di provincia – certe corse in macchina, la breve scena in cui i due fratelli, fratello e sorella, stanno a osservare delle prostitute ecc. ecc., sono echi stilistici della esperienza neorealistica. E così c’è anche, evidentemente, un tipo di denuncia critica di tipo marxista alla società. È chiaro che è presente, lei non la ignora; e c’è anche la problematica di tipo neocapitalistico all’Antonioni – questo mondo del benessere che arriva anche nella piccola frazione della provincia di Reggio, di Parma, di Piacenza. Dunque questi temi ci sono tutti.
L’irrazionalismo, la sua rivolta, passa attraverso tutte queste fasi, quasi come una specie di lavacro attraverso cui si purifica delle sue origini oscuramente novecentesche. Sicché la rivolta dell’epilettico contro la società, del mostro contro le persone normali, non ha niente di quei vizi irrazionalistici dei poeti ‘borghesi’ contro cui noi abbiamo lottato per dieci anni.
Il suo film, infine, mi sembra inserirsi in un momento della “rotazione dei bisogni e delle forme” (Barthes), in cui una storia ricomincia a contare per la violenza del suo contenuto.
P.P. Pasolini
Lettera di Pier Paolo Pasolini a Marco Bellocchio. I pugni in tasca. Un film di Marco Bellocchio, Film e discussioni, Garzanti (1967). Ora, Uno scambio epistolare Pasolini-Bellocchio, [1967], in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, vol II., Milano 1999 pp.2800-2815.
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