Pasolini giornalista raccontato dall'interno del «Corriere della Sera»: la sua forza era di far diventare pasoliniana la pagina del giornale in cui scriveva.
- Città Pasolini
- 16 giu
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Fino a qualche anno fa, per quasi quindici anni, mi è capitato di trattare, diciamo così, con gli scrittori, con gli «intellettuali», ora come curatore della parte culturale e letteraria, ora come vicedirettore del Corriere. Siccome si parla sempre bene dei morti, sembrerà un tantino falso, ma è nelle cose, è nel ricordo di molti come un rapporto stilisticamente così rigoroso, quale quello avuto dal Corriere con Pasolini, sia raro. La storia dei rapporti fra un giornale e gli scrittori, se non la raccogliete nei pettegolezzi di corridoio, potete andarla talvolta a rivedere negli archivi, quegli archivi che, per esempio, abbiamo rivisitato in occasione del centenario del Corriere: è una storia fatta di tante storie anche meschine. Si ritrovano tante lettere, piene di cose non pesanti, di cose che non restano nella storia ma che sono lì come piccole accuse allo stile dei giornali ed allo stile degli scrittori. Lettere sul prezzo della collaborazione, lamentazioni sul fatto che un articolo di elzeviro o no, si stato pubblicato domenica o in un altro giorno, o guai di lunedí, che chissà perché è sempre stato considerato dagli scrittori come sgradevole.

Pasolini nella scrivania del suo studio, via Eufrate 9, 23 aprile 1971 © Vittoriano Rastelli/Corbis/Getty Images/Tutti i diritti riservati
La storia del rapporto breve fra Pier Paolo Pasolini e il mio giornale è tutta contenuta nelle ragioni profonde, per cui a un certo punto questo poeta ha ritenuto che i mezzi di comunicazione di massa si rivelassero con chiarezza strumento privilegiato, attraverso il quale far passare la sua poesia, o meglio l'intuizione poetica che la sosteneva. Pasolini intuiva una verità anche per lui nuova, non perché non avesse scritto in precedenza sui giornali, ma perché mai aveva scritto con ritmi così frequenti, e con un'attenzione così tesa all'attualità: questa intuizione fa tutt'uno con i suoi contenuti. Dai suoi contenuti, dai contenuti che ha proposto attraverso le pagine del Corriere, risulta chiara la consapevolezza sottesa anche nella sua opera, diciamo così maggiore, dell'accelerazione, della mutazione nel nostro Paese e della necessità di riproporsi, in termini profondamente diversi, come poeta civile del Paese.
Pasolini non ha mai perso di vista l'importanza di quel che faceva. Ne era profondamente consapevole, e in questo senso è riuscito a evitare la trappola nella quale finisce spesso per cadere l'intellettuale quando vuole fasi giornalista. Il pericolo per un intellettuale, nel passaggio da strumenti suoi propri, com'è il romanzo, com'è la poesia, com'è il cinema, a un mezzo che non nasce per lui, e che non è nato con lui, il pericolo è di diventare giornale. La forza di Pasolini era di far diventare pasoliniana la pagina del giornale, piuttosto che far retrocedere la sua pagina alla pagina giornalistica. E paradossalmente ha fatto questo dipanando un discorso che era giornalistico, nel semplice senso di un discorso che si offriva con chiarezza e forza di impatto a tutti i lettori.
È l'operazione ardua di spezzare il ghetto delle pagine specialistiche per proporsi in mezzo alle notizie, in mezzo ai titoli, in mezzo a cose e ad affermazioni tanto diverse da lui e da quel che scriveva. Si può ben dire che Pasolini non si sia fatto mai strumentalizzare. Qui non interessa se lo volessimo o no strumentalizzare. Non interessa l'affermazione di principio che si fosse creata, in un certo momento della storia del giornalismo italiano, una affinità elettiva tra noi e lui. Non mi interessa né affermarlo né negarlo.
Obiettivamente ciò che che conta è ciò che quanto egli scrisse non era strumentalizzabile e non è stato strumentalizzato. E questo Pasolini è riuscito a farlo senza nessuna di quelle cautele che l'intellettuale diffidente e sospettoso usa quando si affaccia alle prime pagine dei giornali. Non contrattava le lunghezze, non contrattava le collocazioni, non discuteva neppure sullo strumento principe della manipolazione di un articolo, cioè la confezione del titolo, cui di solito è delegato il redattore del giornale. Era talmente, tranquillamente convinto della forza delle sue parole, della rispondenza del testo a ciò che pensava e a ciò che diceva, che assolutamente non si preoccupava della possibilità che queste parole fossero manipolate, nell'intuizione esatta che non potevano essere manipolate.
Questo modo di tenere un rapporto con il giornale era un fatto stilistico.
Tutto il suo stile era dentro il suo rapporto col Corriere.È un fattore abbastanza singolare, singolare era il modo con cui sceglieva gli argomenti, ancora una volta in termini che dimostravano la sua forza, una forza senza arroganza. Spesso annunziava il prossimo articolo al telefono, riassumendone il tema in modo veloce, sereno. Altre volte, nella conversazione, sia pur rapida, usciva fuori un altro tema, e allora egli raccoglieva i suggerimenti con l'attenzione del regista che visita i luoghi e decide la modificazione di alcune scene da girare.
Lo stile suo era quello di rispettare l'altro da sñe anche in termini formali, di comprendere che la trasformazione è anche operazione stilisticamente fine. Un giorno Pasolini aveva scritto un articolo che riguardava il carattere veramente offensivo dello stile, anzi del non-stile di certa classe politica. Erano pagine tutte tese e legate, come spesso le sue, a quel gioco di parole che amava talvolta fare e che sapeva di poter fare senza e esserne preso. Lo scritto finiva con una parolaccia.
Io stavo passando un tipografia l'articolo quando lui mi chiamò. Io gli dissi che ero rimasto colpito dalla bellezza del pezzo; aggiunsi però che la parola finale danneggiava stilisticamente tutto l'articolo. E in qualche modo contraddiceva quanto aveva scritto nelle righe precedenti. L'autore di romanzi dove i gergo e la libertà delle parole hanno offerto alcuni critici, in anni lontani, tante occasioni per dire che la sua era una letteratura volgare, questo autore parlò mezz'ora con me di quella parola senza volerla mai nominare. A un certo punto io gli dissi: «Senta Pasolini, se lei pensa che io faccia tutto questo discorso, perché credo che la parola "stronzo" non debba comunque uscire sul Corriere della Sera, allora mi offende e lasciamola là». Lui rispose che non aveva mai pensato ciò e aggiunse: «Senta, tolga quella parola».
Ecco, credo che quella fosse una lezione di stile. Era la stessa lezione che offriva nelle rarissime volte che abbiamo avuto incontri faccia a faccia. Le due o tre volte che passò dal Corriere, Pasolini aveva un modo di parlare e un modo di vestirsi, di mettere la cravatta, che era il suo modo di essere dentro il Corriere della Sera. Forse non riesco a dire un modo più chiaro e meno marginale che la sua potenzialità innovatrice dentro questo giornale borghese e tradizionale era nella forza delle cose che scrivono gli altri con la cravatta o senza. Ho incontrato molta gente che si è tolta la cravatta e camicia per sostenere sempre le stesse cose.
Pasolini non ha mai avuto una riga censurata sul Corriere: però due articoli suoi non sono mai usciti. Due articoli, uno sulla da lui presunta (e per me assurda) omosessualità di San Paolo, e un altro che era in ritratto (di una durezza e di una ironia distruttive) di un altro collaboratore del Corriere che lui non nominava, ma che tutti avrebbero potuto identificare. Non sono stati pubblicati per decisione di Pasolini.
Quando mi arrivò il testo su San Paolo, ne parlai a lungo assai più che perplesso con lui, lui mi rivelò il progetto di fare un film sull'apostolo e si convinse che non era il caso di pubblicare l'articolo. Per quello che riguarda il ritratto del collaboratore, ritratto rimasto negli archivi del Corriere credo mai letto da nessuno, Pasolini mi disse: «Guardi, quello mi è talmente odioso». Ma poi aggiunse parole di cui è capace (mi si passi l'espressione banale) un uomo buono, Resosi conto, dalle mie osservazioni, che se l'uomo del ritratto avesse letto il suo articolo, sarebbe potuto rimanere veramente distrutto, decise di rinunciare a divertirsi.
Ogni volta che arrivava un articolo di Pasolini ricevevamo una segnalazione di fatti che giornalisticamente sarebbero avvenuti molto dopo, ma che la sua capacità rabdomantica coglieva già come fatti in quel momento. Quando Pasolini sceglieva un tema avevamo indicazioni precise che quello sarebbe stato il tema delle prossime settimane o dei prossimi anni.
Non c'è più stata la possibilità di ricreare una situazione del genere: non si è più trovata una personalità così intuitiva, così forte, accompagnata a una capacità di esposizione e di persuasione della sofferenza.
Offesa è stata fatta all'opera giornalistica di Pier Paolo Pasolini da tanti piccoli Pasolini che sono seguiti a Pasolini. Pasolini scrisse un articolo sul Palazzo, ma certamente avrebbe scritto un articolo sul Palazzo, se avesse intuito lo scempio che di questa metafora viene compiuto dalla penna di giornalisti via via più qualunquisti.
Vorrei segnalare agli studiosi di Pasolini l'importanza della metafora in questo scrittore e della metafore in genere, nell'incontro fra letteratura e giornalismo in Italia. La metafora è spia essenziale della originalità p della sciatteria, della forza o della debolezza dell'incontro tra giornalismo e letteratura.
Le metafore di Pasolini erano veramente metafore: erano cioè rinvii a immagini, a luoghi che facevano parte della sua poetica. Quando diceva Palazzo, intendeva dire Palazzo, se no avrebbe detto Castello. E quando la parola Palazzo, forse diventata un rinvio a un'altra metafora di qualunquismo, di sciatteria,di nulla, non l'avrebbe usata. Chi andasse a rileggersi quella pagina famosa, scritta per il Corriere, sulla scomparsa delle lucciole, ritroverebbe il suo mondo. Lui le lucciole le aveva viste, non le aveva soltanto sentite raccontare, e le voleva rivedere. Il rapporto di Pasolini con questo mondo di fantasticherie e di carta, che in parte è il nostro mondo della comunicazione di massa, non abdicava alla rappresentazione della realtà, non rinnegava le radici. Era il rapporto di un intellettuale che voleva usare gli strumenti della comunicazione di massa senza farsene usare, senza staccarsi dalle radici che gli davano la forza di vivere e di morire.
G.BARBIELLINI AMIDEI, Pasolini giornalista fu anche uno stile, nel «Corriere della Sera», venerdì 5 ottobre 1984, p.3.
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