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  • Immagine del redattoreCittà Pasolini

Pasolini, la provocazione. Programma RAI, 8 novembre 1975. A dibattito la morte del poeta.

Aggiornamento: 7 nov 2020





- Giacovazzo: Pier Paolo Pasolini doveva essere qui con noi, in questo studio, questa sera. Aveva accettato volentieri l'invito di venire qui a Controcampo, come del resto altre volte. L'argomento doveva essere una delle sue ultime provocazioni apparse sul Corriere della sera "Abolire la TV". Oggi dovevamo parlare con lui invece, questa sera, parliamo di lui. L'anno scorso a Controcampo gli feci una domanda un po' sfrontata, e quasi me pentì di averla fatta, pur sapendo che Pasolini era un uomo vulnerabile. Ne rimasse infatti un po' ferito, se non del tutto irritato. Gli avevo chiesto: Senta, Pasolini. La sua faccia e una faccia di uomo triste, a volte c'è l'impressione che la sua faccia sia quella di un uomo senza speranza, di uno che non crede nel progresso, che si rifugia nella mitizzazione del passato. È vero questo?


Pasolini rispose: Mah, è tutto sbagliato. Prima di tutto io sono di natura molto allegra, molto gaia. Divento serio in certe occasioni, come questa, semiufficiali, perché mi imbarazzo un po'. Poi, non è un fatto vero che io non credo nel progresso. Credo nel progresso, non credo nello sviluppo. e nella fattispecie in questo sviluppo. E di questo sviluppo semmai che da alla mia natura gaia una svolta tremendamente triste quasi tragica. Perché appunto non sono un sociologo, un professore, ma faccio un mestiere molto strano, che è quello dello scrittore. Sono direttamente interessato a quelli che sono i cambiamenti storici, cioè io tutte le sere, tutte le notti, la mia vita consiste nell'avere rapporti diretti, immediati, con tutta questa gente che io vedo sta cambiando. Quindi questo fa parte della mia vita intima, della mia vita provata, della mia vita quotidiana, è un problema mio.


Temevo una risposta quasi sgarbata, ma non mi aspettavo davvero una confessione così amara. Aveva gridato nei suoi ultimi scritti La fine della pietà. La pietà è morta - diceva - ed egli è morto senza pietà.





Ad Alberto Moravia, che gli è stato amico vero, cioè amico nella verità e lucidamente, pongo questa sera questa domanda. La morte spietata di Pier Paolo Pasolini è la conferma della sua vita privata o è anche la conferma della sua analisi di un mondo senza pietà?


- Moravia: Non è ne l'una nell'altra, in certo senso. Sì è la conferma di un accidente della sua vita privata. La vita dello scrittore non è privata, ma neanche pubblica. Però devo dire la verità, per quanto riguarda l'analisi Pasolini non aveva idee diverse, sentimenti diversi da quelli di moltissimi intellettuali italiani e europei. Cioè egli partiva da una certa diffidenza verso la ragione e verso la nazionalità. È un'approccio irrazionale, qualche volta anche religioso addirittura mistico verso la realtà. Perciò il suo approccio non era diverso da quello di un grande poeta come Eliot, oppure dello stesso Montale, o di poeti molti diversi che non hanno fatto la fine che ha fatto Pasolini. In lui la diversità era dovuta principalmente al suo carattere personale, cioè all'intensità, alla qualità, il carattere della sua ispirazione. Ma il fondo egli partecipava del generale decadentismo europeo e questo è anche giusto. Cioè lui non era un illuminista, non credeva nella ragione operante, non credeva in fondo che la filosofia può cambiare il mondo...


- Giacovazzo: Quindi, molte cose vi univano. ma in questo momento al di là di queste cose che vi univano, al di là dei singoli episodi delle polemiche, che cosa veramente vi divideva?


- Moravia: Quattordici anni. Io ho quattordici anni in più di Pasolini, sono nato nel 1907. Lui è nato quattordici anni più tardi. E sono vissuto quando ero giovane al tempo del fascismo e dello stalinismo. Il problema della mia giovinezza è stato quello dell'azione, cioè un problema che ossessionava, anche negli altri agiva, perciò l'idea di Pasolini che si potessero fare delle metafore, che si potesse insomma parlar di un Processo per esempio, senza farlo mi è estranea. Io per esempio ho rifiutato di far parte della Tribunale di Stoccolma, perché pensavo che un tribunale doveva poi far eseguire le condanne, avere i mezzi per farle seguire, allora senno diventa una metafora, cioè una rappresentazione. E allora ci sono tante rappresentazioni. In lui c'era una certa inclinazione così, a considerare che l'azione poteva essere mediata. Per questo lui era più estremista di me in questo senso. Perché io so cos'è l'azione e penso che bisogna essere molto prudente, perché una volta che uno si è sbilanciato deve agire, e deve agire con la massima energia. Invece io per esempio sulla faccenda della scuola e della televisione, io penso veramente che si poteva abolire la suola media e che la televisione doveva essere unicamente educativa. Ma questo io la farei subito, invece lui parlò di metafora. Questa è la differenza, quattordici anni di differenza però vissuti in un'epoca storica diversa.


- Giacovazzo: La Valle, quando ti ho telefonato l'altro giorno per chiederti di venire qui a Controcampo, ti ho pure chiesto cosa pensavi di Pasolini. E mi ha colpito la tua risposta immediata. Mi hai detto: Noi lo'amavamo, lui non si amava. Cosa significa questo?


- Raniero La Valle: Volevo dire questo, noi l'amavamo perché era l'espressione della nostra coscienza inquieta. Lui dava espressione e dava voce a molti problemi, a molti drammi della nostra società. Quindi noi riconoscevamo in lui qualcuno che parlava in nome di tutti. Però mi pare che non ci amasse nel senso che non amava il suo tempo. Mi ha molto colpito quello che ha detto Ninetto Davoli, la sera in cui lui è morto, andando in ristorante ha detto: la gente mi è odiosa, sono venuto al ristorante con la faccia china senza guardare nessuno, non volevo vedere nessuno. E poi più volte parlando della degradazione piccolo borghese di Roma, ha espresso delle parole di rifiuto totale, assoluto di questa città: questa città non la voglio più capire, non la voglio più comprendere, mi è estranea. e anche in certe descrizioni che lui faceva, del mondo delle borgate che gli era così caro, aveva nutrito negli ultimi tempi questa avversione profonda. Sembrava che non avesse la capacità di riscattare l'amore nel giudizio che lui dava.


- Giacovazzo: È d'accordo su questo giudizio?


- Moravia: No, in parte insomma. Penso che l'epoca moderna è odiosa a molti, non soltanto a Pasolini. È odiosa una certa parte dell'umanità che si comporta in un certo modo, questo lo condividevo anch'io sebbene Pasolini fosse più pessimista di me, ecco tutto.


- Giacovazzo: Noi l'amavamo. Quel noi non l'ho capito bene. Si riferisce anche al cattolicesimo così conclamato di Pasolini. Conclamato anche da Moravia che spesso l'ha accusato di essere un cattolico?


- La Valle: Io credo che in Pasolini come in ogni uomo c'era una forte misura di ambiguità, c'era il bene e il male come c'è in tutti. ed è difficile adesso rispondere a questa domanda, così come tu la poni. Perché allora bisogna dire molte cose. e secondo me il primo problema di fronte a cui noi ci troviamo, per un obbligo di verità credo, e proprio per una fedeltà essenziale, a quella lezione di verità che Pasolini ha voluto darci, il primo problema di fronte a cui noi ci troviamo è di fare i conti con la sua morte.


- Giacovazzo: Che significa fare i conti con la sua morte?


- La Valle: A me sembra che in questi giorni, intorno a Pasolini si sia fatta quella unanimità che lui non si era riuscita a fare in vita. Nessuno l'ha condannato, tutti hanno esaltato la sua funzione, il suo ruolo nella vita italiana, la sua qualità di scrittore, di poeta, di uomo. E si è messo un po' tra parentesi, l'incidente della sua morte, allora io credo che la sua morte non si può mettere tra parentesi. Non è stato un'incidente anzitutto perché la morte è la cosa più importante della vita. E poi perché lui stesso ci ha detto che per centinaio di volte, centinaia di sere, ha rischiato di fare quella stessa morte. Allora io credo che in questa unanimità, che ha passato sopra la sua morte, ci sia una certa dosi di conformismo. Un conformismo che è tanto più grave, perché per legittimarsi ha avuto bisogno di crearsi un mostro, sui cui rovesciare per così dire tutto l'orrore e la negatività della sua morte. E questo mostro l'ha facilmente trovato nel ragazzo diciassettenne che l'ha ucciso. Ora però io credo che così facendo, noi non rispettiamo la sua lezione che è stata una lezione di resistenza e di ribellione al conformismo. E dobbiamo fare i conti con la sua morte. Ora, secondo me ci sono due modi per fare i conti con la sua morte, il primo è di rifiutarla e di dire che non è possibile che non sia morto così, e non credo neanche una parola di ciò che è stato detto nel modo in cui lui è morto. E questa è la strada seguita da molti, che chiedono nuovi indagini. Ma se le cose sono veramente andate com'è stato detto, allora bisogna dire con estremo dolore, con estrema pietà ma anche con estrema verità, credo, che Pasolini non è morto perché è stato ucciso dal mostro delle borgate. Ma che in lui, in quel momento, stava forse consumando una violenza nei riguardi del mondo della borgata. Aveva stabilito un rapporto di corruzione con un ragazzo di borgata, prostituendolo, stabilendo un rapporto ineguale. Perché tra lui e il ragazzo il più forte non era il ragazzo, ma era il regista di grido, e credo, non solo per i soldi, per la macchina argentata, ma credo per la sua fama, anche forse per il miraggio che poteva far intravvedere di una carriera, di una scrittura.


- Giacovazzo: Dobbiamo fermarci qui, mi scusi. Poi riprendiamo questo discorso, ma credo che abbia diritto di una replica Moravia.


- Moravia: Ecco, io vorrei dire una cosa. Vorrei distinguere due cose, da una parte vorrei dire che la morte è stata atroce in sé, nel senso che è stato un delitto. C'è stato del sangue, c'è stata una persona uccisa. Ma dall'altra, vorrei sottolineare che non si può capire questa morte se non si fa una buona volta su che cosa sia la differenza o l'uguaglianza o la similitudine tra omosessualità ed eterosessualità. Se non si fa questo non si capisce nulla di questa morte. Mio parere è che bisogna ammettere una buona volta che eterosessualità e omosessualità sono identiche e che la morte di Pasolini è stata dovuta a qualche cosa di atroce che non ha niente a che fare con l'omosessualità.


- Giacovazzo: Ecco allora io volevo presentare, ma La Valle voleva replicare brevemente però


- La Valle: No, più che una replica mi sembra che quando o parlo di un rapporto di corruzione, che si era stabilito, non faccio riferimento alla questione dell'omosessualità perché se invece di un ragazzo fosse stata una ragazzina sarebbe stata la stessa cosa. Cioè, mi sembra che qui si tatti di fare un'analisi di questo rapporto. Cosa vuol dire un rapporto di corruzione? Cioè un rapporto in cui un uomo è ridotto a una cosa, a un oggetto che si compra e che si vende. E mi pare che lo stato di subalternità delle classi oppresse dipenda proprio da questa corruzione che continua. Pasolini ci aveva insegnato a combattere contro questo...


- Giacovazzo: Grazie La Valle. Devo presentarvi, abbiamo qui in studio Paolo Volponi, Walter Pedullà, il Senatore Salvatore Valitutti, Alberto Ronchey e l'onorevole Adolfo Sarti. A Volponi vorrei subito chiedere, lei ha scritto subito dopo la morte di Pasolini che questo tragico sperpero di una vita scopre anche tutte le colpe della nostra società, e anche quelle celate in ciascuno di noi. Lei ha un senso di colpa di fronte a questa morte di Pasolini?


- Volponi: Io no, però riprendo immediatamente, non tanto quello che ho scritto io, ma quello che hanno detto Moravia e La Valle, per osservare che, Pasolini aveva trovato questo ragazzo in vendita sul marciapiede della stazione. Questo ragazzo era in vendita, sul marciapiede. E dietro a questo marciapiede io vedo la stazione, e se volete dietro la stazione vedo la società, ecco. La società italiana che è fatta in modo tale per cui ci siano maschi o femmine delle persone che dai quindici anni ai tanti anni in sopra, sono in vendita, nel nostro paese. E poi, c'è un'altra cosa da dire, le colpe nostre, le colpe della nostra cultura nei confronti appunto della diversità di coloro che provano amore per altri del nostro stesso sesso, ecco. Questo è un punto oscuro nell'anima di ciascuno di noi che bisognerebbe chiarire. Sul quale per esempio la televisione potrebbe dire qualcosa. L'omosessualità non è corruzione, non è deviazione, vizio, deformazione. È se si vuole, una costrizione patologica. Costrizione patologica rispetto a una certa norma, che un'altra volta è una norma attuale di questa società.


- La Valle: La corruzione è quando si compra qualche cosa per denaro.


- Volponi: Questo non è corruzione.


- La Valle: Qualcosa che non è dovuta.


- Volponi: La corruzione è prima, quando si è stabilito un mercato, quando si sono stabilite determinate strutture per cui a un certo momento c'è bisogno che qualcuno venda e c'è bisogno che qualcuno compri. e non c'è la libertà neanche nell'esercizio sessuale che dovrebbe esserci in una società anche religiosa, pulita.


- Giacovazzo: Sì, ma credo che La Valle si riferisca al fatto che queste strutture non sono qualcosa così che nascono da se, le creano gli uomini.


- Volponi: Per questo dico anche la nostra cultura, il nostro tipo di cultura che ha ancora questi problemi è ansiosa, non ha risolto nulla, è in una condizione di paura no? Come se questa parola non fosse da pronunciare.


- La Valle: Il circuito della corruzione va rotto insomma. C'è il corrotto e il corruttore...


- Volponi: Va rotto liberandoci di certi tabù. Cioè non dobbiamo avere paura dal fatto che ci siano in giro degli omosessuiali, che sono i nostri fratelli come quelli che hanno altre qualità o vizi.


-Giacovazzo: Senatore Salvatore Valitutti, l'immagine di questa Italia tollerante, liberale di una volta, quell'immagine per cui Croce poteva ancora dire che il fascismo e la dittatura era solo una parentesi, una malattia, quest'idea dell'Italia secondo lei è mortificata da questa morte, da questo tipo di morte spietata, da questo evento terribile della nostra società.


- Valttutti: È un evento terribile, che un uomo che creda in certi valori non può non disapprovare, non può non atterrirsene. Io vorrei dire a proposito di quello che ha detto La Valle, c'è un detto di Seneca di cui mi sono ricordato mentre egli parlava, che dice che gli uomini bisogna giudicarli non soltanto per come vivono ma anche per come muoiono. Ora io ritengo che Pasolini non lo possiamo giudicare per come è morto, anzi dobbiamo rigorosamente astenerci dal giudicarlo per come è morto. Non è morto Pasolini, è stato ucciso. Barbaramente e misteriosamente ucciso. Dunque possiamo giudicarlo e dobbiamo giudicarlo solo per il come è vissuto, non per come è morto. Ci sono tanti uomini che muoiono, ma perché sono uccisi. Non possiamo dire che muoiono nel senso che dice Seneca. Quindi di Pasolini non abbiamo che la testimonianza della vita, la testimonianza dell'opera, la testimonianza dei suoi scritti, dei suoi ideali, delle sue ansie. Ora, ecco quella Italia liberale a cui lei si è riferito, si è arricchita di questi scritti di Pasolini, di queste testimonianze di Pasolini. Nel suo più recente scritto, che Moravia conosce bene perché ne ha polemizzato, Pasolini dice che gli intellettuali italiani sono stati sempre cortigiani, e sono perciò vissuto sempre nel palazzo, intendendo per palazzo la dimora degli uomini che governano su gli altri uomini. Lui ha sempre rifiutato di entrare nel palazzo che lo ha sempre aborrito e sospettato, ed ha scelto di vivere in mezzo alla gente per farsene interprete. Ora, proprio nell'interpretare la vita della gente, che vive fuori del palazzo, secondo me, Pasolini ha detto delle verità. Delle verità provocatrici, ma anche illuminatrici e stimolatici, sulle quali dobbiamo riflettere. Ecco questo è il mio convincimento.


- Giacovazzo: Walter Pedullà, lei non è precisamente qui a rappresentare la cultura accademica, anche se è professore universitario e letterato. Gli chiedo, Pasolini era anche un'emarginato della cultura ufficiale o il suo scandalo era accettato e quasi riverito?


- Pedullà: Non so cosa veramente dire su cosa sia la cultura ufficiale, forse ci sono vari modi di essere per una cultura essere ufficiale. Può darsi che si intenda per cultura ufficiale quella delle istituzioni, allora escluderei assolutamente Pasolini fosse un emarginato. Se si pensa mettiamo, al rapporto che poteva avere con delle istituzioni della cultura italiana come l'università, le case editrici, tutti questi che possono essere dei canali di uno scrittore direi che aveva tutto a disposizione.


- Giacovazzo: Per questa morte invece, per riprendere il discorso all'inizio di Controcampo, che cosa ci dice lei?


- Pedullà: Su questa morte si potrebbero dire molte cose, tra l'altro resta di approfittare in questa occasione che c'è qualche lato oscuro e per continuare a fare come ha fatto Moravia, a stimolare l'opinione pubblica, a interrogarsi sino in fondo per sapere che cosa è veramente successo quella notte e quindi, potremmo anche dire che è opportuno si ritorni ancora su questo argomento. Sulla sua morte si potrebbe dire anche un'altra cosa, però pensando allo scrittore Pasolini. Si potrebbe pensare che il personaggio che l'ha ucciso è un personaggio che è nato in una famiglia di cui lui ha forse rappresentato per la prima volta i comportamenti. Cioè quelli potrebbero essere, questo personaggio potrebbe essere un figlio dei Ragazzi di vita o di un protagonista di Una vita violenta. Lì c'era forse la cosa più importante che ha, secondo me, individuato Pasolini, ed è quella di avere individuato che stava emergendo un tipo di umanità che era priva di lingua, priva di razionalità, priva di sintassi, e cioè era un'umanità che non aveva le possibilità personali del progresso. Cioè quasi aveva una forte limitazione di entrare nella città, nella lingua, nella cultura. Pare che a un certo senso lui si sia compiaciuto del fatto di questa impossibilità, di questa immobilità di questi personaggi, e anche dal fatto che fossero dei personaggi vuoti di una serie di motivazioni culturali. C'è il rischio cioè che l'assenza di quelle motivazioni culturali che allora venivano respinte, a un certo punto abbiano creato un personaggio che non avendo quelle motivazioni di tipo storico-politico, a un certo punto abbia agito in un modo gratuito, un personaggio gratuito probabilmente non esiste come non è neppure il personaggio che ha ucciso in questa occasione. Bisogna domandarsi anche se in alcuna, se nel gesto di questo personaggio non ci sia qualche cosa che noi non risuciamo a capire e che Pasolini cercava, come in tante occasioni, di indagare, come narratore o come intellettuale.


- Giacovazzo: Ronchey, dicono al Corriere che un articolo di Pasolini faceva addirittura aumentare le vendite, è vero questo? Cioè questa sua provocazione di cui parliamo, si intrinsecava anche a una forma di giornalismo diverso in questo momento?


- Ronchey: Mah, io non sono informato su questo, so che faceva molto discutere, in fondo il compito di un giornale è anche quello di far discutere. Personalmente all'interno di cose molto discutibili che Pasolini scriveva, devo dire che ci trovavo sempre un fondo di verità. C'era sempre qualche cosa di giusto. Per esempio, questa cosa che ripeteva dell'aggressività diffusa, della volontà di sopraffazione che fa paura, di alterazione violenta della società è una cosa vera, che sentiamo tutti. In certi giorni ne abbiamo paura. Ovviamente Pasolini indicava delle cause che si possono non condividere, secondo me esistono delle ragioni storiche per cui questo clima oggi esiste in Italia. Questo paese ha fatto in dieci, quindici anni, quello che altri paesi hanno fatto in cinquanta, settant'anni. Qui si apre il divario a cui Pasolini accennava tra progresso e sviluppo. C'è stata una violenza, una accelerazione selvaggia, che ha modificato tutto, città, campagna, rapporti fra città e campagna, la struttura della famiglia, siamo passati da un tipo di famiglia a un'altra famiglia, ma non per gradi come altre società. Poi ci siamo stati aperti a tutte le influenze, questo è un paese di frontiera tra Occidente e Oriente, fra l'Europa e il terzo Mondo, abbiamo avuto una miscela di culture che è diventata esplosiva perché abbiamo avuto i consumi, gli alti consumi, la permissività di tipo americano, con tutt'altra storia, delle dottrine sociali dell'est europeo. E tutto questo ha creato una miscela pericolosa. Non credo che Pasolini, come ha accennato giustamente Moravia, io non credo che si potesse considerare marxista nel senso attento alla teoria dello sviluppo, perché più che altro aveva assorbito dal marxismo un certo fondo di messaggio ebraico-cristiano, che molti ci avevano. Teoria dello sviluppo, analisi di come si sviluppa una società non ce n'era anzi mi ricordo, se mi ricordo bene, nel suo film Il Vangelo secondo Matteo mi colpì molto che Pasolini facesse parlare solo Ponzio Pilato un dialetto settentrionale. Insomma questo era, credo che anticipasse la famosa polemica tra Nord e Sud nel mondo, mondo industriale, mondo povero e mondo ricco, città e campagne ecc. Cioè la contraddizione fondamentale insomma. Ma lo vedeva, era insomma, un comunismo diciamo il suo, biblico di sfondo religioso, per certi aspetti strano. Guardi che persino ci sono dei punti di contatto altrove, io vedo dei punti do contatto.


- Giacovazzo: Adolfo Sarti


- Sarti: Io starò nel quesito iniziale che ci ha posto il nostro moderatore, se ci sia cioè un nesso tra quello che Pasolini è stato in vita e come è morto. Voglio fare una premessa anch'io per chiarire fino in fondo, prima di tutto a me stesso, quella che è la mia posizione di cattolico, di fronte a questo problema e a quello più generale che è stato qui proposto incidentalmente da Moravia. C'è stato un alto momento nella storia della cultura cattolica in cui di fronte alle coscienze cattoliche si è posto un problema come questo, fortunatamente senza gli risvolti cruenti. Ed è stato lo scandalo Gide davanti ai cattolici francesi, per chiarire quello che è il mio personale atteggiamento dirò che tra la polemica Gide-Claudel e Gide-Mauriac, io sceglierei la seconda, per quanto riguarda l'atteggiamento, la posizione tollerante, comprensiva pur nella fermezza dei principi che è stata scelta da Mauriac. E poi venendo al tema mi pongo questo quesito, tra gli altri numerosi che sono stati avanzati in questi giorni, direi anche dalla gente comune, quella che non è tuta espressa dalle posizione della cultura ufficiale e dei giornali. Come mai questo uomo che poteva consumare queste esperienze nella comodità di una garçonnière borghese, le ha voluto invece realizzare in una borgata, in un contesto così sordido, e come è stato rilevato mi pare da Moravia anche oggettivamente violento. Io credo che nella risposta a questo quesito ci sia anche un giudizio sulla posizione culturale di Pier Paolo Pasolini, la scelta di Pasolini è stata sempre una scelta sempre anti-intellettualistica. Starei anche per dire una scelta soprattutto manieristica secondo una linea che è comune alla storia letteraria in tutto il nostro continente, si può dire da Dostoevskij in poi. E la sua morte è in certo modo, non vorrei essere frainteso, manieristica così come è stata la sua vita. E il quesito che noi ci dobbiamo porre è ancora questo, che cosa ha cercato in questo epilogo, per me aberrante, Pasolini, di che cosa ha voluto essere testimone? Io credo che disperatamente della ricerca di una vita autentica tanto più autentica di quanto si realizzava e si manifestava in un contesto che era stato volutamente deformato, e che era volutamente deformante.


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“Controcampo – Pasolini, la provocazione”, in onda il 08/11/1975, una analisi delle vita e delle opere dell’intellettuale, a pochi giorni dalla sua scomparsa. Regia Giuseppe Giacovazzo. Partecipano: Moravia, La Valle, Volponi, Pedullà, Valitutti, Ronchey e Sarti. RAI TECHE/Tutti i diritti riservati
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