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  • Immagine del redattoreCittà Pasolini

Pier Paolo Pasolini. Fui antimoderno, sognai Platone. Intervista del 1970.

Aggiornamento: 23 gen


FUI ANTIMODERNO, SOGNAI PLATONE

NOTE DI UN ANTICO INCONTRO CON PIER PAOLO PASOLINI

di Giacomo Carioti


Questa intervista risale a parecchio tempo fa; alcuni anni, durante i quali è passata più volte dal cassetto al tavolo di redazione della rivista cui l’autore collaborava. Tante volte esumata, altrettante volte accantonata, pochè alternativamente venivano giudicati “al momento inopportuni” l’intervista stessa e il personaggio che ne era protagonista.


Adesso, viene infine pubblicata, pur con tutto il suo carico temporale, per due precisi motivi: anzitutto perché ora se ne ha la libera possibilità, in secondo luogo perché il suo contenuto - pur datato in alcuna connotazioni marginali - appare tuttora meritevole di attenzione e di esame.



Pier Paolo Pasolini, anni settanta. Nico Pellicciotta © MARKA archives/Tutti i diritti riservati

Pasolini: La condizione del cinema italiano è una cosa che non mi interessa affatto. Mi interessa semmai la condizione del cinema nel mondo. Sono inserito nella vita cinematografica italiana per modo di dire: si trova forse qualche legame molto stretto fra me ed essa? Agisco in Italia per puro caso, perché ci sono nato e vissuto, e la realtà mi si presenta sotto la fattispecie della realtà italiana.


Siamo nel giardino di casa Pasolini, su una panchina riparata, mentre intorno piove. Egli è cordiale, ma sembra costantemente proteso alla istintiva correzione critica di ogni concezione, altrui e propria.


Giacomo Carioti: Come crede che sia guardato questo suo volere eternamente sfuggire ad ogni comune classificazione, ad ogni inserimento?


PPP: Io credo che venga interpretato ontologicamente, come del resto lo interpreto io. Credo che l’opinione pubblica lo dipenda con dei fatti preesistenti del mio carattere, della mia psicologia, della mia formazione, soggettivamente; e oggettivamente dal modo di essere della società italiana. La comunione delle due cose non può che fare di me un estraneo.


GC: Le appare giusto, socialmente, che un individuo possa estraniarsi grazie alla propria condizione culturale, mentre altri (forse la stragrande maggioranza di coloro che vorrebbero farlo) non ne hanno la possibilità per ragioni contingenti, perché sono nella massa?


PPP: Se è per questo, io le posso dire che conosco migliaia di persone che sono estraniate come me: ad esempio, tutti i poveri sono completamente estraniati.


GC: Forse inconsapevolmente...

 

PPP: Sì, ma è già molto. E in fondo adesso la consapevolezza è più diffusa: ogni volta che io parlo per Roma, con i poveri, dei problemi politici italiani, mi sento rispondere: ma che me ne frega. Hanno una forma di coscienza intuitiva, leggera nel migliore dei casi, grossolana nel peggiore, ma sanno di essere estraniati. Ho molto contatto con questo tipo di persone: io a Roma frequento pochi amici intellettuali, Moravia, la Morante, Bertolucci e due o tre altri; ma il “mondo” che io continuo a frequentare è quello dei poveri, quelle delle borgate romane.


GC: Quindi nessuna dipendenza da quel che ci circonda, dall’apparato societario.


PPP: Mah, forse è l’antitesi, il mostro con cui lottare, il dragone. Mi rendo conto che l’apparato avrebbe la possibilità di opprimerci in un modo ben più pesante di quanto non faccia, ma so che è un gioco reciproco. Non opprime oltre un certo limite perchè è nel suo interesse farlo, per non creare casi estremi; si limita a tormentare continuamente, con piccole dosi. Chi è fuori della mia vita non se ne accorge, ma me ne accorgo io che ci sono dentro: ogni due mesi circa mi arriva un diabolico foglietto intestato ai tribunali vari, e non è una cosa piacevole, glielo assicuro.


GC: Cerca in qualche modo di difendersi?


PPP: Non mi difendo, non c’è modo di difendersi. Cerco di continuare ad agire come mi sembra giusto, cercando di arrivare al compromesso il meno possibile.


GC: Pur arrivandoci, talvolta?


PPP: Talvolta capita, per forza. Dal momento che io accetto di scrivere su certe riviste, su certi giornali -per esempio -, questa è già una forma di compromesso; leale tuttavia. È una specie di braccio di ferro che noi facciamo cinicamente: essi strumentalizzano me, avendomi preso come curiosità, come nome, e non come persona; io strumentalizzo loro, e poi vediamo a chi conviene più.


GC: Come vede l’opinione della gente nei suoi riguardi, la interessa?


PPP: Vivendo all’interno di una vita, certe cose arrivano sempre deformate; oppure, uno, di fronte alla verità che crede di avere su sé stesso, sente come sfuocate le verità altrui, gli arrivano così, generiche. Non dò peso a questo fatto. Per me sono cose da non prendere in considerazione, perché io mi considero unitario, e non diviso in due.

 

GC: Per un intellettuale è più semplice fare a meno del giudizio della gente, perché egli vive proprio nel mondo, di intelletto e di fantasia, e, in definitiva non ha bisogno di molto contatti con chi magari lo critica. Perché l’uomo qualunque è costretto a cedere a questi legami, pur avendo - e su questo si dovrebbe essere d’accordo -  una pari dignità umana?


PPP: Se una persona è davvero ugualmente degna, avrà delle capacità sue di liberarsi da questi condizionamenti. Ci son dei poveri che lo fanno, pur essendo chiaro che la condizione di povero non permette tali isolamenti: ma allora il problema non è più psicologico, singolo; diventa un  problema sociale, a monte dei casi singoli. Allora è chiaro che non per niente io sono sempre stato dalla parte di chi vorrebbe la rivoluzione: quando prima mi parlava di certi miei privilegi in quanto persona cosciente di se stessa, ecc., bene, so benissimo che questi sono privilegi che sarebbe giusto che non ci fossero; ma questa è una cosa inutile da dire, ovvia, implicita, banale, retorica.




Correzioni fatte da Pasolini. "Pasolini ritenne particolarmente originale ed importante il nostro colloquio. Per questo, all'indomani mi telefonò per chiedermi di portargli il mio dattiloscritto, per rivederlo, poiché voleva che ogni sua parola esprimesse dettagliatamente e compiutamente il suo pensiero. Il giorno successivo mi chiamò per chiedermi di tornare da lui a ritirare il testo approvato. Con mia sorpresa, le annotazioni non furono moltissime, ma estremamente precise, e comunque rispettose dell'integrità del mio resoconto, di cui riconobbe l'assoluta correttezza."


GC: Si arriva ancora a capire i poveri, a parlare e a scrivere di loro, dopo che si à arrivati ad essere ricchi, a vivere con agio e senza rinunce?


PPP: Questo è un dilemma moralistico: perché data la situazione sociale ingiusta in cui viviamo, bisogna pur vivere. Certi giovani studenti mi hanno accusato per la definizione che io ho dato di Bob Kennedy, in una poesia alla sua morte: lo chiamavo “l’eroe del meno peggio”. Quest’uomo ha lottato per il meno peggio, e va bene, ma con ciò come si fa a condannarlo? Gli americani dovrebbero vivere orrendamente aspettando che noi, signorini intellettuali con crisi di coscienza, facciamo la rivoluzione? Voglio dire che c’è una necessità biologica, esistenziale nel vivere, che è fatto ineluttabile, ontologico, di fronte al quale bisogna essere realisti, pratici, onesti. Tutti i poveri, adesso, in Italia, vorrebbero stare un po’ meglio - cosa che è successa anche a me -. Se sono riuscito a guadagnare  dei soldi in questi ultimi dieci anni, non vedo proprio perché dovrei farmene uno scrupolo. I soldi che ho fatto mi danno l’agio minimo che si possa tenere, che mi aiuta a lavorare bene; ed è quello che qualunque  povero in Italia, al livello esistenziale, vorrebbe raggiungere.


GC: Come considera il pubblico dei suoi film?


PPP: Vede, questo del pubblico è un problema come quello dei giudizi che taluni danno sulla vita di scrittore, sulla mia vita privata. Son di quelle cose che non entrano nella mia realtà. Il pubblico che io amo è quello che è andato a vedere “Uccellacci e uccellini”, è sempre a quello che io mi rivolgo. Certo, pur essendo questa una affermazione retorica, vorrei che il pubblico dei miei film si ampliasse, ma per merito del livello culturale generale del paese in cui opero. Non credo nella tecnica dell’abbassarsi per elevare: la considero una grande ipocrisia; chi la usa è un ipocrita. L’idea dell’elevare il prossimo è una idea moralista sbagliata: nessuno di noi ha il diritto di elevare gli altri. Si potrebbe dire educare ma anche questo vocabolo indica una pedagogia superata oramai anche negli asili. Ormai anche il più misero maestro si scuola sa che ogni educazione è una autoeducazione: si educa a livello pari, e non dall’alto. Il mio fine non è mai quindi quello di educare, ma quello di instaurare un dialogo.


GC: D’accordo. Ma quando si rinuncia ad una azione in qualche modo pedagogica, non sarebbe bene essere anche un po’ più comprensivi nei confronti del prossimo? Più indulgenti rispetto a certe condizioni sociali, spesso non volute dall’individuo, ma determinate o favorite dall’ambiente (ad esempio: la borghesia)?


PPP: Se io descrivo un borghese singolo non riesco mai a rappresentarlo come cattivo: non mi riesce di rappresentare la malvagità, la cattiveria, la negatività individuali. Anche in “Porcile”, quando descrivo  quegli orrendi mostri che sono il vecchio capitalista ed il neocapitalista, non sono riuscito a renderli antipatici. Presi Tognazzi facendone un personaggio tutto sommato quasi simpatico; una forza della natura, - aberrante quanto si vuole, ma in qualche modo innocente-. Perciò, quando parlo dei singoli ne parlo sempre con una certa simpatia, o pietà: è contro la classe sociale che io mi rivolgo, ed è questa una lotta ideologica che costituisce l’argomento del mio dialogo con gli altri.


GC: Crede che la lotta ideologica abbia la possibilità di cambiare qualcosa in concreto?


PPP: Sì, ma non certo come uno presuppone (cioè schematicamente), Esempio, quello che è successo in Italia negli ultimi quindici o venti anni. Questo cambiamento è dovuto ad una infinità di rapporti, di apporti di scrittori singoli e di movimenti letterari o cinematografici; anche se non esclusivamente, è naturale.


GC: Quali sono le sue esperienze letterarie in corso?


PPP: In questo periodo sto scrivendo una gran quantità di versi, e li raccoglierò in un libro. Poi, il romanzo in versi di cui parlavamo alcuni anni fa, “Bestemmia”, al quale lavoro una settimana e poi lo lascio in sospeso per mesi e mesi; ho scritto molto teatro, sei tragedie, che non sono ancora ultimate, ma lo saranno entro quest’anno, e verranno pubblicate in volume.


GC: Fra i mezzi che lei adopera per comunicare al mondo, quale considera maggiormente efficace?

 

PPP: L’efficacia è anch’esso un canone moralistico che vorrei evitare, così come l’educare e l’elevare. Forse il cinema, quantitativamente, e qualitativamente la poesia. Ma sono abulico nel rispondere: il considerare le cose utilitaristicamente è un errore “categoriale” di noi borghesi...


GC: Il teatro l’ha tanto interessato; ne vuole parlare? Come considera l’attuale momento, e le innovazioni?


PPP: Sul teatro posso dirle che ebbi una amarissima esperienza, facendo la regia di “Orgia”, che è la prima cosa che ho scritto; prima di tutto una delusione personale, perché ho capito che chi vuol fare del teatro deve dedicarvi tutta la sua vita - come, ad esempio, ha fatto Brecht-: il  teatro conserva un carattere di sacralità anche rituale, anche pratica, quindi è una vocazione, come quella, mettiamo, dei preti o dei santi. Se dovessi decidermi di fare il teatro veramente dovrei abbandonare tutto il resto, e non mi sento di farlo. E poi una delusione pratica, perché ho visto che il mondo teatrale è un mondo abbastanza spiacevole, che non trova spazio per degli idealismi, per entusiasmi e disinteressi; il quale viene invece conservato dal mondo letterario e addirittura anche da quello cinematografico. Il teatro è un mondo privo di interessi, senza amore per l’attualità e senza amore per il proprio lavoro. Mi da l’impressione di un orchestrale che tratta con distacco il proprio divino strumento - come spesso mi è capitato di osservare, nelle registrazioni alla RCA o altrove-.


In Italia sono difficilissimi i rapporti con gli attori, perchè essi parlano un italiano inaudito, ed è una impresa irrealizzabile cercare di far loro parlare un italiano umano.

Scriverò un saggio dal titolo “Teatro e terrore”. In esso spiegherò che da una parte c’è il vecchio terrorismo del tran-tran tradizionalistico: che però non da più fastidio a nessuno, ormai, è un mondo morto che continua per inerzia in provincia. Dall’altra, c’è il terrorismo della moda teatrale recentemente codificata, per cui se uno non concepisce, mettiamo, lo spazio teatrale come spazio antiaccademico dove l’attore deve andare in platea e lo spettatore sul palcoscenico, si trova di fronte ad una barriera. Tutto ciò è stato anche sublime agli inizi (penso al Living Theatre o a Carmelo Bene). Ma adesso è diventata una moda orrenda e terrificante.


Il teatro per vincere la lotta contro il cinema e la televisione deve essere sè stesso nel modo più totale e assoluto, come era presso i greci. Io non vidi l’Orlando furioso di Ronconi: sono sicuro che sia stata una cosa vitale e bella: ma non è quella la strada del teatro, il teatro non può porsi in linea competitiva con il cinema, ecc, perché non ha possibilità, in tal senso, di successo. Questi concetti nessuno sembra volerli capire, perché si inseriscono come novità dentro la novità.


Intorno è finito di piovere, ricompare un sole freddo. Ci alziamo dalla panchina e, con le ultime parole, ci avviamo ad uscire da casa.


Pasolini: La modernità e la tecnologia di questo mondo le rifiuto istintivamente. Non amo questo mondo; lo considero non soltanto brutto, ma addirittura orrendo e mostruoso. Un mondo dove non c’è spazio per me. Ci sono stati tempi migliori? Forse no, ma certo nella polis greca, all’epoca di Platone, con la libertà appena scoperta e la democrazia diretta (mai più realizzata), la condizione dell’uomo poteva essere meglio accetta.


Pier Paolo Pasolini. Fui antimoderno, sognai Platone. Note di un antico incontro con Pasolini. Intervista di Giacomo Carioti (direttore responsabile) sulla Rivista Machina, Spettacolo e comunicazione, anno primo-numero, primo-aprile 1977, pp.14-17.


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