Il 16.09.2020 ci lasciava Enrique Irazoqui, questo articolo vuole essere una condivisione di esperienze, sentimenti, emozioni, di alcune delle persone che abbiamo avuto l'immensa fortuna di frequentarlo in diversi momenti della sua vita. Parliamo della persona che c'era dietro al protagonista del Vangelo pasoliniano, un essere umano eccezionale che non lasciò mai indifferente nessuno.
Enrique Irazoqui durante una pausa nella 25ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (1964) per la prensetazione del film di Pier Paolo Pasolini "Il Vangelo secondo Matteo" © Graziano Arici/Tutti i diritti riservati
I. Mario Colleoni
Hace dos años, mientras preparaba un especial en Ajoblanco sobre la vida y la obra de Pier Paolo —así lo llamaba él cuando nombraba a Pasolini—, tuve la feliz ocurrencia de teclear su nombre en varias redes sociales y así fue como di con Enrique casi sin creerlo, con una enorme sorpresa. Yo estaba recolectando testimonios, vivencias, pequeños recuerdos, anécdotas, voces, en suma, que hubieran conocido al poeta friulano. Perseguía el rastro humano del hombre, la huella, el surco de sus zapatos, no la grandilocuencia de su figura mediática. Por esa razón creo que llegué hasta él, porque Enrique era todo lo que yo buscaba. Al principio temí que mi excesiva alegría, mezclada con sus setenta y tantos, pudiera desembocar en una situación incómoda, pero Enrique no sólo fue simpático, sino también atento, amable y de una delicadeza exquisita. No es una forma de hablar. Yo, por mi parte, siendo cauto, intenté enmascarar la intensa emoción de haberlo encontrado para que nada pudiera desbaratar aquel momento. Después de varios mensajes escritos, me invitó a charlar por teléfono.
Desde ese día y hasta el último en que hablamos, mantuvimos una esporádica relación telefónica, hermosísima, en la que intercalamos indistintamente el comentario de un libro, diversas apostillas políticas, noticias de actualidad…, y siempre, siempre de fondo, el amor en presente por Pasolini.
De aquella relación tan escueta como hermosa no quedan desgraciadamente ni los mensajes de Facebook que nos intercambiamos, pero yo reconocí en él a un amigo —nunca tuve la sensación de estar hablando con un desconocido cuando en realidad lo éramos— y él, por su parte, creo, supo adivinar en mí la necesidad imperiosa que tenía de comunicarme con él, el intenso rechazo que sentía por el afán publicitario de la cultura y, sobre todo (algo que guardo con gran emoción), el «entusiasmo noble» —así lo llamó una vez— con el que yo daba ese paso. Siempre tuve presente con quién estaba hablando y, aunque por supuesto Enrique no fuera para mí la encarnación de Jesús de Galilea, sí fue de algún modo la sombra del Mesías de Pasolini lo que me condujo hasta él.
Vuelvo a escuchar la voz de Enrique y sé que sigo estando en deuda con él. Le debo, en primer lugar, una fase breve pero crucial de mi vida en la que no sólo hallé a un amigo, sino también a un cómplice. Y en segundo que, mientras varias y afamadas personalidades declinaban mis preguntas como el que se sacude una mota de polvo de la chaqueta, Enrique fue generoso conmigo y me tendió la mano, y me regaló su voz y, con ella, el recuerdo humano de un poeta asesinado sin piedad. Me contó muchas anécdotas y bonitos detalles bonitos; también otras escandalosas que dinamitarían esa falsa máquina comercial que existe en torno a Pasolini. Quizás algún día nos atrevamos a revelar la verdad. «Me irritan profundamente los charlatanes que viven de su muerte apropiándose de unos valores que ellos no encarnan. Laura Betti fue la única persona que estuvo dispuesta a arriesgar su vida por hacer justicia y vengar la muerte de Pier Paolo», me decía, y esto fue lo que nos unió, porque el último artículo del especial de Ajoblanco (y otros por desgracia más recientes) tenía ese propósito: luchar contra el silencio y la cobardía criminal de algunas de esas personas que dijeron ser sus amigos y que después no sólo callaron vilmente ante un atropello atroz e intolerable, sino que han seguido haciendo caja sin pudor gracias a un sacrificio que en realidad siempre les fue ajeno. Quizás algún día se haga justicia.
En Enrique encontré el consuelo de no sentirme solo en la lucha, en el suicidio de algo que parece estar perdido, en la esperanza de compartir un sentimiento. Si su figura pasase a la historia por ser el Jesús de Galilea de Il Vangelo secondo Matteo, creo que no habría nada más justo ni más hermoso. Ojalá todos los hombres buenos pudieran dejar al futuro la herencia feliz de haber pasado por la vida sólo para contribuir al bien en el mundo. Descansa en paz, Enrique. Ya eres eterno.
II. Lucia Dell'Aia
Ricordo con grande emozione le molte volte che ho visto Enrique chiedere a giovani (e meno giovani) italiani se conoscessero Elsa Morante o Pier Paolo Pasolini. Spesso succedeva al Bar Maritim di Cadaqués, ma anche in Italia, durante le sue numerose visite degli ultimi anni. Ad una risposta negativa, quasi sempre la chiacchierata si interrompeva e rimaneva molto dispiaciuto. Più di dieci anni fa la mia amicizia con Enrique è nata proprio sotto il segno del mio interesse per Morante e Pasolini. Un giorno ho ricevuto una mail nella quale si faceva riferimento a qualche mio scritto su Elsa Morante, ma la firma di Enrique Irazoqui non mi ha fatto subito ricondurre quel nome al protagonista del film pasoliniano. A quella data avevo certo già visto e amato quella pellicola, ma non avevo ben a mente il nome dell’attore. Enrique aveva trovato delle informazioni sui miei studi morantiani e mi aveva scritto, ma non si era subito presentato come l’attore del Vangelo. Tempo dopo, mi ha detto di essere stato molto contento del fatto che io non abbia subito ricondotto il suo nome al film pasoliniano.
Nei mesi in cui abbiamo iniziato la nostra corrispondenza, stavo ultimando la scrittura di un libro sul Mondo salvato dai ragazzini di Morante e decisi di aggiungere una appendice nella quale raccogliere la bella storia di Enrique, del suo Cristo e della sua amicizia con Elsa Morante. Alcuni mesi dopo, andai a trovarlo per la prima volta nella meravigliosa Cadaqués. All’ombra dei ricordi di Elsa, fra me ed Enrique è nata una amicizia intensa, profondissima, fatta di ascolto, di dialogo, di leggerezza, di musica, di poesia. Si divertiva molto a dire, citando Jacques Brel, che il nous fallut bien du talent pour être vieux sans être adultes. Proprio perché Enrique era rimasto un fanciullo, la differenza di età non ha avuto nessun peso nella nostra amicizia. Ricorderò sempre come un enorme privilegio il fatto che lui mi considerasse più saggia di lui, che facesse riferimento a me per confrontarsi su temi letterari, musicali, politici, filosofici.
Io ho amato moltissimo il suo essere sempre così intransigente, radicale, mai conciliante, profondamente antiborghese. Mi piace definirlo un aristocratico, non certo nell’accezione sociale ed economica di questo termine, ma per riferirmi a chi era depositario di una cultura antica e raffinata dell’otium o dell’essere scioperato e vagabondo: una cultura non massificata, lontana da ogni senso di appartenenza, che non fosse quello ampio e variegato della critica di ogni forma di potere. Scherzavamo spesso sulla potenza evocativa e poetica dei pistoleri anarchici, forza pura di protesta e, sempre per gioco, gli ho regalato una incisione che raffigurava dei briganti, per ricordare la nostra idea di chi si oppone a ogni obbedienza servile. Amava molto il passo dell’Isola di Arturo, della nostra amata Morante, in cui il personaggio di Romeo l’Amalfitano affermava che «vivere senza nessun mestiere è la miglior cosa: magari accontentarsi di mangiare pane solo, purché non sia guadagnato».
Era facile litigare con Enrique, eppure mai una volta io e lui abbiamo avuto un malinteso, uno screzio, una incomprensione. A unirci era la consapevolezza di condividere i valori più profondi dell’esistenza, quelli per noi più importanti e imprescindibili. Quando lui ha deciso che dovessi essere io a custodire la sua memoria morantiana, fatta di oggetti “di nessun valore”, ho appreso dalla mia esperienza quanto è bello piangere per un gesto unico ed eccezionale di generosità e di affetto.
Abbiamo sempre comunicato in italiano, la lingua di sua madre, originaria di Salò, ebrea antifascista il cui cognome, Levi, secondo la consuetudine spagnola, era il secondo cognome di Enrique. Anche lui si sentiva partecipe, non per sangue o per fede, di quella comunità sterminata e spazzata via dalla violenza nazifascista che è stata il suo costante oggetto di riflessione politica per una vita intera. Del mio italiano lui ha sempre amato le vocali lunghe, poetiche e armoniose come lo erano nel pronunciare il nome Leopardi, di cui spesso gli parlavo. Le metteva a confronto con la rapidità della pronuncia del suo italiano, che risentiva dello spagnolo, e che lui, come amava dire, parlava sempre “come se avesse una patata in bocca”.
Mi piaceva molto sentirlo parlare in spagnolo: si rifiutava di usare il catalano, perché Enrique era contrario ad ogni rivendicazione di appartenenza. Dicevamo spesso di sentirci solo parte della cultura millenaria del Mediterraneo, la cultura di un mare proiettato verso l’Africa e verso l’Oriente. Una delle tante volte in cui è venuto in Puglia con il volo per Brindisi, mi ha raccontato di essere rimasto a lungo a guardare quel mare. Aveva voglia di immaginare l’Oriente, qui così vicino, del Mediterraneo, che lui guardava sempre invece dalla sua Costa Brava, più aperta e proiettata verso l’Africa, lì più lontana.
La regione spagnola di confine con la Francia in cui è nato e in cui è vissuto a lungo era portatrice anche di un destino poetico: diceva che per lui era importante trovarsi a non moltissimi chilometri dal luogo in cui si era suicidato Benjamin e in cui era morto Machado, per il quale in fin di vita era stato chiesto un urgente consulto medico ed era accorso da Barcellona suo padre, che è stato uno psicanalista di scuola adleriana. Era il 1939, la guerra civile spagnola volgeva al termine e spettò proprio a suo padre dire ai parenti di Machado che al grande poeta antifranchista restava poco da vivere. Enrique ha adorato la poesia di Machado e soprattutto quella delicata per la sua giovane moglie Leonor. Anche lui ha amato di un tenero e tenace amore sua moglie Ans. Dal loro stare insieme, dalla loro fedeltà, dalla forza della loro unione ho imparato a riconoscere l’amore e di questo sarò grata ad entrambi.
Mi accompagnerà sempre il ricordo della nostra amicizia unica e straordinaria e per colmare l’assenza mi affiderò ai suoni, tentando di rievocare nella mente la sua voce e la fragorosa risata, e ascoltando i dischi mozartiani dove alla memoria di Morante si aggiungerà que
lla di Enrique. E sarà bello anche guardare le parole scritte da Elsa per lui nei libri donatigli e ripensare alla bella emozione di quando uno di questi volumi è apparso avvolto in un piccolo scialle dell’amata Ans. Penserò ora ad Enrique, come lui stesso mi ha suggerito nel 2012, con questi indimenticabili versi di Quevedo:
Alma, a quien todo un Dios prisión ha sido, Venas, que humor a tanto fuego han dado, Médulas, que han gloriosamente ardido,
Su cuerpo dejará, no su cuidado;
Serán ceniza, mas tendrá sentido;
Polvo serán, mas polvo enamorado.
Lucia Dell'Aia Studiosa di Italianistica
III. Fabio Fodaro
"É strano come a volte gli eventi si interconnettano.
La notte tra il 15 e il 16 settembre scorso stavo leggendo un'intervista a Manfred Paul, un fotografo tedesco nato nel 1946 nella Germania dell'est. Verso la fine dell'intervista gli viene chiesto “Could you share your doubts with anybody? What about your family?”, cioè se nel periodo della cortina di ferro, durante la guerra fredda poteva condividere dubbi con qualcuno o con la sua famiglia, e lui rispondendo ricordò cosa una volta il nonno comunista gli disse, e cioè “after the war all the fascists became members of the communist party” (dopo la guerra tutti i fascisti divennero membri del partito comunista). Ecco questa frase, questo ricordo di Manfred Paul, mi fece pensare ad Enrique.
Ho incontrato Enrique la prima volta a Llançà, in Catalogna. Era un pomeriggio del luglio 2018, poi avrei continuato il mio viaggio in Portogallo. Mi ero fermato in Catalogna per incontrare Enrique, fino a quel momento ci conoscevamo solo “online”, virtualmente.
Naturalmente, quello è stato per me un incontro importante, pieno di significati, legato alla passione per le opere di Pier Paolo Pasolini, e il fatto che Enrique lo avesse conosciuto e lavorato con lui, ecco questo era per me un avvenimento incredibile. Ma oltre a questo, conoscere Enrique è stato un arricchimento personale a prescindere. Un uomo profondo, sempre disponibile e gentile, prima di tutto. Quel pomeriggio mi raccontò tante cose di Pier Paolo Pasolini, di Elsa Morante e del circolo di persone che s'incontravano insieme a Pasolini a Roma. E tra le altre cose mi raccontò cosa Pasolini diceva a riguardo dei giornalisti de l'Unità, e cioè: “quelli, prima erano tutti fascisti”. Ed ecco come il ricordo di quella notte, la coincidenza delle parole e dei momenti storici si sovrappone.
La lettura dell'ntervista di manfred Paul tra il 15> 16 settembre mi fece venire in mente il ricordo che Enrique condivisse con me al nostro primo incontro, ma ancora non sapevo che Enrique era morto.
Pietro Fabio Fodaro, regista del cortometraggio Se l'andava cercando (2014)
IV. Francesca Giorgi
"Ricordare Enrique mi provoca una grandissima emozione.
Conoscevo di lui solo il volto del suo Gesù, che mi aveva ricordato i dipinti di Cimabue, al liceo. Non immaginavo minimamente chi fosse l’uomo, avevo una sorta di timore reverenziale per quello sguardo antico che ridava precisamente alla modernità il ritratto di uno dei personaggi più celebri della storia. Anche in questo Pasolini era stato profetico. Aveva offerto, lui laico, il valore autentico della sacralità attraverso lo sguardo antico di un attore spagnolo.
Il Vangelo secondo Matteo è sempre stato il mio film sul Nazareno prediletto, e nel corso degli anni lo rividi più e più volte. Quel film ebbe il merito di appassionarmi a Pasolini, alla musica classica e all’arte.
Quando conobbi Silvia, che da contatto virtuale divenne più tardi amicizia in carne ed ossa, fu bello confrontarmi su questo tema. Sulla sua bacheca vedevo spesso i commenti di un anziano signore pieno di ironia, colto e sornione in un modo che mi incuriosiva. Era Enrique Irazoqui. Parlando con lei scoprii che era proprio lui, il Gesù di Pasolini. E, con un po’ di timore, chiesi a Silvia se secondo lei io potessi chiedergli l’amicizia. Lei mi spinse con entusiasmo a farlo.
Intimidita, iniziai a scrivergli, a intervenire nei suoi post. E scoprii che avevamo una cosa in comune, e ne fui molto felice. Amavamo entrambi la musica classica. All’epoca io affiancavo il mio lavoro teatrale e di doppiaggio a quello di corista lirico sinfonica, e trovai in lui un interlocutore attento e preparato. Gli dissi poi del mio amore per la letteratura italiana del ‘900, e lui mi rispondeva sempre in un modo che mi lasciava più ricca.
Mi parlava moltissimo di Elsa Morante, che lo iniziò all’ascolto della musica di Mozart e Schubert. Non potevo credere che quello che per me era un’icona fosse un uomo così pieno di sfumature così variegate, così piene, così vicine anche a una persona comune come me. Ascoltavo incantata.
Quando Silvia ed io ci conoscemmo di persona, lui le chiese di riferirgli se fossi “simpatica come appare nel Facebook”. Ricordo che gli mandammo una foto di noi due sorridenti.
Ero felice. Conoscevo Silvia, e di riflesso anche per lui io non sarei più stata una foto profilo, pensavo. E credo fu proprio così.
Parlare con lui, dai discorsi sul cinema all’amore per i cani, era come essere a lezione, come aprire un libro importante e perdercisi.
Ricordo quando disse che il mio volto gli ricordava quello di Giulietta Masina, aggiungendo che avevo sbagliato epoca per fare il mio mestiere. Gli dedicavo spesso la musica che preferiva: lo sentivo sorridere, quando lo facevo. E non era per lusinga: era gioia di condividere.
Mi chiedeva di mio marito, che trovava simpaticissimo, e ci aveva anche invitati a trovarlo, a Cadaqués.
Purtroppo non ci sono mai riuscita, ad incontrarlo di persona.
E quando ascolto il quintetto D 956 di Schubert, composto poco prima della sua morte, in quelle note io vedo Enrique. E penso che stia ascoltando con me. Penso che lui sia diventato la musica che amava. Enrique, tu per me sei nella musica. E non sei andato via."
Francesca Giorgi, cantattrice
V. Silvia Martín
“¡Don Enrique Irazoqui!” - ti dicevo sempre - “¡Doña Silvia Martín Gutiérrez!” - rispondevi allegramente. Adesso che non ci sei (fisicamente) tra di noi, ricordo sempre queste tue parole nel rispondere al telefono. Da quando ci siamo conosciuti il nostro rapporto è ben presto diventato quello tra una padre e una figlia - Silvia, sono tuo padre adottivo e con me non ti puoi arrabiare mai - spesso mi dicevi. E avevi perfettamente ragione, “Solo l’amare, solo il conoscere conta”. Abbiamo anche inventato delle parole nuove per poter comunicarci, ti ricordi? “Muacchissimo”, “Muaccone”, così ci siamo salutati nelle nostre conversazioni virtuali. Non ci siamo mai sentiti in italiano, credo che il nostro rapporto avesse le radici nella tradizione culturale spagnola. La Spagna degli sconfitti della Guerra Civile, delle Brigate Internazionali - "Questi sono i miei compagni" - dicevi- , la Spagna di Antonio Machado, della Reppublica. Irazoqui, è la tua Spagna. Quella che hai cercato di diffendere e che ti ha portato in Italia per opporti alla brutezza del franchismo. Lì ci siamo veramente incontrati:
"Fu in Spagna dove la mia generazione imparò che uno può avere ragione ed essere sconfitto, che la forza può distruggere l'anima, e che molte volte il coraggio non ottiene ricompensa" Albert Camus.
La tua generosità nei mie confronti è stata tra le cose più belle della mia vita, credo non sbagliare se dico che hai lasciato in tutti noi, che ti abbiamo conosciuto di persona, il segno della tua personalità, del tuo modo di vedere e di capire il mondo. Volevi essere il contadino di nome Miguel Sánchez, e respingevi senza esitazioni le regole imposte dalla società. Tante volte abbiamo parlato della vita dei contadini, forse anche tu, come Pier Paolo, ne avevi quell’immagine simbolica. Un mondo nato dei versi di “Los campos de Castilla” de Machado, quella Castilla in cui io nacqui e di cui condividevamo la poetica dove “La tierra no revive, el campo sueña”. Quando ti penso, mi viene in mente ininterrottamentela tua immagine nel bar Maritim a Cadaqués, con un bel caffè e la tua inseparabile macchina fotografica (e anche il bellissimo cappello panama). Quanto ti piaceva ricordare il periodo in cui lavorasti nel Vangelo pasoliniano! Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, tante persone ed esperienze che, come dicevi tu, avevano cambiato per sempre la tua vita. I tuoi ricordi preziosi hanno servito tutti noi di arcadia sotto la quale ripararci. Quanto sei stato fortunato di aver vissuto quel momento storico e culturale, e quanto lo siamo stati anche noi di averlo condiviso con te! Non parlavamo molto di Pasolini, ti ricordi? Anche se delle volte ne avevamo discusso a lungo. Ti ricordi della polemica del ’68? E di Salò? Non sempre eravamo d’accordo, ma due caratteri così forti come i nostri erano destinati a confrontarsi. Mio Dio ma quante volte abbiamo litigato! Sia per motivi politici che personali, avevamo quel modo di essere diretto, sincero e onesto che ci impediva di non parlare con franchezza. E no, non sto pensando al calcio, “Su questo argomento siamo nemici mortali” - dicevi costantemente - “Non puoi tifare quella squadra, per carità!”.
Nel mio ricordo sarai sempre il bambino Werfel, quello nello scatto di Gerald Waller, momento in cui egli ha appena ricevuto delle nuove scarpe dalla Croce Rossa nel 1946. Un giorni mi raccontasti come tuo figlio da piccolo quando ricevette un paio di scarpe nuove, appena le indossò, cominciò a ballare felicemente - “Era questa l’immagine della felicità piena, io ho sempre voluto essere così felice”-. Come un bambino hai sempre goduto dei momenti felici come faceva Werfel, ma anche quando qualcosa non ti piaceva la tua reazione era quella dei bimbi, sempre diretta e sincera. Adesso mi viene in mente il biopic di Abel Ferrara su Pasolini - “Dafoe ha fatto con Pasolini quello che i tedeschi hanno fatto con la Polonia” dicesti ai critici che ti chiedevano la tua opinione. Se dovessi scegliere alcune delle tue frasi che mi stanno più a cuore, senza dubbio prenderei quella che mi hai ripetuto tante volte, “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Ci ho messo più di quanto pensassi, ma adesso so che essa dev’essere la mia guida per non sprecare tempo nelle cose che non mi offrono nulla. Irazoqui, ci siamo incontrati troppo tardi nelle nostre vite. Di questo ne sono convinta, ma non non scambierei quest'amicizia per nulla al mondo. Anche nei momenti più difficili che abbiamo vissuto insieme, sei sempre stato un raggio di luce che squarcia il buio della banale società attuale.
“Io me ne starò là, come colui che suo dannaggio sogna sulle rive del mare in cui ricomincia la vita.”.
Silvia Martín Gutiérrez, curatrice di Città Pasolini
VI. Hilari M. Pellicé
"Debió ser después del verano del 14. Fue a raíz de la exposición “PASOLINI ROMA” que se exhibió en el CCCB de Barcelona un año antes. Esto suscitó que un conjunto de personas organizase unas tertulias sobre la obra de Pier Paolo Pasolini. Algún colega me avisó y tratándose de P.P.P, no dudé en acudir. Era un grupo de mitómanos, atípico y singular puesto que la gran mayoría no nos conocíamos de nada. Recuerdo que en uno de estos primeros coloquios me encontré con el escritor Javier Pérez Andújar, que como buen pasoliniano andaba también por allí. Pronto se generó la intención de llevar a cabo durante un año, actos de homenaje a Pasolini clausurando los eventos, en la fecha del 1 de noviembre de 2015 que se cumplirían los 40 años de su asesinato. Cada uno ofreció ideas y responsabilidades. Teatro, recitales de poesía, música, conferencias… etc. Yo propuse hacer un pequeño documental sobre las estancias y los vínculos del director boloñés en Barcelona y su interés por la literatura catalana y española. Pronto me di cuenta que la tarea no iba a ser sencilla y que ningún cineasta había tratado el tema hasta entonces. A partir de ahí todo fue un continuo descubrir, una sorpresa detrás de otra. Es decir, un documental apasionante. Pero el personaje clave era uno: Enrique Irazoqui. Sin él, yo no tenía proyecto porque era la columna vertebral. Desde muy joven, yo había visto Il Vangelo secondo Mateo, pero ignoraba que el Cristo actor, era español y además que residía en Cadaqués. Xavier Perarnau, entonces “alma mater” del Projecte Pasolini Barcelona me facilitó el número de teléfono móvil y le llamé. El asunto era complicado puesto que todas las actividades que se realizaron eran por pura filantropía de los comparecientes, con intervenciones desinteresadas y altruistas. Ahí radicaba el mérito. Le pedí que me concediera una entrevista filmada, donde le apeteciera. Enrique en principio aceptó, pero luego al ser yo un desconocido, dudó. Esa misma semana conseguí filmar otra entrevista importante con la viuda del poeta José Agustín Goytisolo, Asunción (Ton) Carandell y su hija Júlia Goytisolo; y esa fue mi suerte. Julia llamó a Enrique y acabó convenciéndole. A mediados de noviembre nos vimos por primera vez en el Maritím Bar; Júlia, Enrique Irazoqui, Johanna Vloedgraven (Ans) -la esposa de Enrique- J.M. García Ferrer y algunos otros que nos acompañaban. Allí en la orilla del mar pude hacer una magnífica entrevista. Enrique amable desde el inicio, se encontraba cómodo con nosotros y después del trabajo, fuimos a comer al restaurante Can Rafa donde él había reservado mesa. Fue una excursión que siempre recordaré; transcurrió divertida, entre bromas y risas. Irazoqui se explayó en su relato profusamente, más de lo que yo esperaba. Se mostró colaborador en extremo, incluso me proporcionó el contacto con la actriz Serena Vergano para una interviú que era de mi interés. Ese día regresé a Barcelona muchísimo más sabio sobre PPP, el Vangelo y la Barcelona de aquella época. Mucho más de lo que jamás hube imaginado en el comienzo. Tanto, que a modo de anécdota diré que, ante mi sorpresa, apareció por allí el arquitecto Ricardo Bofill y su compañera Marta Vilallonga. Irazoqui nos presentó a todos diciéndonos, “este es mi primo Ricardo”.
A partir de esa fecha hubo una empatía entre Irazoqui y yo. Solíamos de tanto en tanto enviarnos mensajes por WhatsApp o por Messenger, hablando del documental o por preguntar acerca de nuestra respectiva salud. En la primavera del siguiente año volví a pasar un día con Ans y con Enrique y vino también Laura, mi mujer; Enrique nos llevó al afamado restaurante Compartir, donde el chef Mateu Casañas y dos compañeros que trabajaban en El Bulli de Ferran Adrià, se habían establecido en un agradable local de la Riera de Sant Vicenç. Por supuesto a Irazoqui le conocían todos.
El 1 de noviembre de 2015 finalmente se estrenó “Pasolini en Barcelona” en la Filmoteca de Catalunya con las entradas agotadas. En días previos hablé con Enrique invitándole a que acudiera al estreno, - sin esperanzas eso sí- puesto que normalmente rehusaba asistir a acontecimientos de este tipo. Efectivamente declinó venir y yo no insistí porque sabía que hacía poco había sufrido una crisis cardiaca. Le hice llegar a posteriori un DVD del documental a su domicilio. A Irazoqui le gustó el documental. – “Sobre todo me gusto yo”- me dijo riendo con sorna.
Hubo otro encuentro en Cadaqués, por el invierno de 2017 con Laura, Ans y Enrique. Nuestras conversaciones cibernéticas fueron repitiéndose. La última ocasión que le vi fue en enero de 2019 ya en el pueblo costero de Llançà dónde se había trasladado, porque le era más cómodo asistir en ferrocarril, a sus controles médicos en el Hospital de Figueras, no sólo por la vigilancia de sus coronarias sino por una serie de ictus que fueron apareciendo y que le causaron una transitoria afasia.
Aquel sábado dimos un breve paseo por el frio y ventoso Paseo Marítimo, con Ans Vloedgraven y acompañados por amigos comunes: Luís Carceller, Jaume Grau y su esposa Joana; seguidamente nos refugiamos en el restaurante El Vaixell. En febrero de este año 2020, charlamos para vernos en primavera, pero el tema del confinamiento lo retrasó todo. Ya no le volví a ver más.
En mi opinión, Irazoqui fue un hombre asequible con la gente que le amaba. Simpático, con bromas inteligentes y mordaces. No le caían los anillos en retirar la amistad a quién le parecía miserable. Tenía en cuenta los pequeños detalles y adivinaba quién se acercaba por interés o quién podía engañarle. Poseía un carácter recio, peros sumamente franco y sincero. Honesto. Algunos han despotricado de él por su temperamento, pero yo sólo dispongo de palabras de agradecimiento y la suerte de haber contado con su aprecio y su cariño. Y digo cariño, porque en abril de 2016 tuve un percance de salud y sin decirle nada, consiguió mi teléfono fijo de casa, y llamó expresamente para preguntar cómo me encontraba. No sólo esto. En mi viaje a Matera, él me suministró sin pedírselo, contactos de sus amigos italianos para que me guiaran por la Basilicata. Incesantemente me confió confidencias personales, de situaciones que le sucedieron en sus postreros viajes a Venecia, a Matera o a Calabria dónde le homenajearon. Se sentía satisfecho al ver a muchísima gente que le iba a saludar a Cadaqués; y la verdad es que eran abundantes.
Ahora que ya no está, y pese a las espaciadas veces que le visité y las discontinuas conversaciones que establecimos, he experimentado una sensación insospechada de vacío. Acaso de haberle conocido antes, quizás hubiera sido como una especie de hermano mayor. No lo sé. Estos días, hay frases oídas de su voz, que se me repiten eidéticamente.
– Yo no trabajé con Pasolini, Hilari, … yo no hice ninguna película con Pasolini … yo pasaba por allí-
Hillari M. Pellicé, regista del documentario Pasolini en Barcelona (2015)
VII. Stefano Pignataro
Ricordo Enrique Irazoqui con estremo affetto e la consapevolezza che lui non ci sia più rafforza la ferale consapevolezza, eterna, che tutto ciò che possiedi la si apprezza maggiormente quando ti viene improvvisamente ed irrimediabilmente sottratta. Sono pochi giorni che Enrique ha lasciato questa Terra e tutti coloro che hanno avuto l’immenso privilegio di conoscerlo di persona avvertono una sensazione straniante di una mancanza più spirituale che fisica. La presenza di Enrique, per molti di noi una presenza esclusivamente telematica a differenza di molti che hanno potuto conoscerlo di persona, era una presenza che arricchiva, che teneva compagnia, che insegnava qualcosa anche senza necessariamente una tematica o un argomento preciso; ogni giorno, si attendeva con impazienza una sua riflessione, un suo messaggio consegnato alla sua elegante ed ordinata pagina social che, a differenza di molte altre, custodiva una compostezza ed un’eleganza che rispecchiava in toto la sua persona. Di questa sua caratteristica, il comunicare attraverso immagini, fotografie raffiguranti per la maggior parte volti della sua terra, volti giovani, innocenti, intrisi di speranza e di interrogativi, Enrique ne aveva reso una sua personale peculiarità.
Era, Enrique Irazoqui, non soltanto un raffinato comunicatore, ma un attento ascoltatore. Tutti coloro che hanno avuto il piacere di conversare anche solo una volta con lui, non possono non essere stati affascinati dalla sua profondità d’animo e di pensiero, dalla sua disponibilità e soprattutto da una concretezza di fondo che gli permetteva di non essere mai banale o scontato in una risposta, in un consiglio, in un racconto di un aneddoto che volentieri consegnava ai cultori o agli studiosi di storia pasoliniana. Era, Enrique, consapevole di essere uno degli ultimi testimoni diretti della vita e dell’opera di Pier Paolo Pasolini e nel corso di tutta la sua esistenza, questa sua ardua eredità è stata vissuta dal nostro con quella giusta riservatezza che però gli ha permesso, nelle tante richieste che gli giungevano da ogni parte d’Italia, di non sottrarsi neanche una volta ad una richiesta di un’intervista, di una conversazione o anche di un non finalizzato colloquio con un appassionato di ogni età. Aveva, Enrique, conservato un rapporto viscerale con la città di Matera e di Massafra, quasi rimproverandosi di esserci ritornato troppo tardi, dopo oltre quarant’anni da quel Vangelo Secondo Matteo che gli mutò l’esistenza. “Io non vorrei aspettare ancora quarantasette anni per tornare a Matera perché allora sarò proprio meno giovane”, dichiarava scherzando in un’intervista a Geo Coretti e montata da Toni Notarangelo (fratello di Peppe e figlio di quel Domenico a cui si deve l’immenso patrimonio fotografico della Basilicata letteraria e cinematografica). Quel cinema, quella certa idea di cinema, andò contro gli ideali di Irazoqui. Militante antifranchista, ateo, la sua venuta in Italia era finalizzata esclusivamente ad una conoscenza di intellettuali, scrittori e politici che avrebbero potuto sposare la causa del Sindacato clandestino antifranchista a cui apparteneva; il cinema non era per nulla tra i suoi obiettivi, men che mai un’interpretazione del Cristo che sarebbe stato presentato alla Venticinquesima Mostra internazionale d’arte Cinematografica di Venezia e che avrebbe vinto successivamente il Leone D’Argento. Personalmente, anche se come era normale ed automatico che sia, conoscevo Enrique Irazoqui per la sua interpretazione nel Vangelo e non per la sua attività di giovane intellettuale e successivamente professore di economia e di Letteratura spagnola. Consapevole che nell’universo pasolinano nulla avviene per caso e secondo una precisa visione personale-epica dell’intellettuale, mi approcciai criticamente anche al personaggio Irazoqui quando venni a conoscenza della sua venuta in Italia in occasione del conferimento della Cittadinanza onoraria a Casarsa della Delizia su proposta della compianta Angela Felice, valida studiosa, infaticabile ricercatrice a lungo Direttore del Centro studi “Pier Paolo Pasolini” a cui la ricerca pasolinana deve molto. Fu proprio in quell’occasione che provai a contattare Irazoqui ma, causa tempi stringenti, non fu possibile. L’occasione si ripresentò in occasione del quarantennale della morte dell’autore de Una vita violenta. Il mio approccio, consapevole del fatto che probabilmente la mia richiesta era soltanto una delle moltissime che nel corso degli anni aveva ricevuto per raccontare la sua esperienza sul set di quello che Pasolini definì “un racconto epico-lirico del Vangelo”, fu il più accademico possibile, spiegando al Maestro che il nostro colloquio si sarebbe basato su riflessioni, annotazioni e pareri che un intellettuale come lui poteva apporre sul suo approccio critico all’intera opera pasoliniana. La risposta di Enrique non si fece attendere, una risposta cordiale, positiva e subito confidenziale, che andò immantinente a far svanire quel distacco da parte mia che necessariamente dovevo tenere per un personaggio come lui.
La conversazione, avvenuta mediante Skype, fu piacevole ed interessante, a tratti divertente. Enrique non tralasciò nessun dettaglio della sua esperienza sul set alle annotazioni storiche; di tutta la nostra conversazione annotai due particolari dettagli; un filo personale, affettivo e presente teneva legato il nostro al suo passato, alla sua militanza ed ai suoi “piccoli amici fratelli” come Elsa Morante, Moravia, Laura Betti, Natalia Ginzburg, e tanti altri. Teneva particolarmente, e ciò lo ha rimarcato anche in diverse interviste, interventi pubblici, a rimarcare che la sua iniziale diffidenza verso il progetto del Vangelo fu vinta soltanto grazie al suo “Giuda” che lo tradì (come lo definiva scherzosamente egli stesso), il suo caro amico Giorgio Manacorda che gli consigliò di devolvere la somma che avrebbe guadagnato alla causa politica. Ancora, vi era un elemento estremamente interessante che aveva colpito il giovane, acuto, intellettuale, un particolare che avrebbe incuriosito non poco Ernesto de Martino; i materani, figuranti del film, più di una volta chiedevano al Cristo pasoliniano, inginocchiandosi, la grazia di un miracolo e nonostante Irazoqui spiegasse che lui non era il Cristo, essi non lo accettavano. Per i materani del millenovecentosessataquattro, era difficile distinguere persona e personaggio, realtà e finzione.
Irazoqui, che del film fu orgoglioso anche se confessò, in un’intervista rilasciata a Sabrina Colandrea, il particolare inedito quanto spiazzante di non aver mai visto il film perché “quel tizio sullo schermo gli dava i nervi”, con orgoglio raccontava di una lettera che Pasolini scrisse a Pietro Nenni in cui il poeta confidava al Vicepresidente del Consiglio socialista che il giovane attore fu convinto dal fare il film soltanto per amore della sua Nazione. Irazoqui, nel corso della nostra conversazione ed anche in successive conversazioni, mi raccontò anche di un altro particolare che lo inorgogliva; la dedica che Pasolini gli fece di “Vittoria”, ultima poesia contenuta nella raccolta “Poesia in forma di Rosa”; una dedica non scritta per via del suo ritorno in Spagna. Una Spagna che non fu benevola con il suo promettente giovane attore-intellettuale: la sua partecipazione ad un film di “propaganda comunista” fu malvista dal regime franchista che lo costringe ad espatriare ed a laurearsi negli Usa prima in Economia e poi in Letteratura spagnola.
La presenza di Enrique, la sua compagnia, per molti di noi è stata preziosa, gratificante. Per alcuni ha significato un avvicinamento critico e non passivo all’opera pasoliniana, per altri la scoperta di un amico. Per altri, un corpo a corpo con la storia. Anche per questo, grazie Enrique.
Stefano Pignataro Università degli Studi di Salerno
VIII. Marianna Zito
"Enrique ha il passo lento e fiero. Sorride e ride. Ci guarda con occhi attenti e curiosi – lui – mentre ci racconta di Pasolini, Moravia, della Morante e di Ninetto Davoli. Attenti e curiosi, in realtà, siamo noi. Siamo in un bar a Matera, sopra i sassi. Siamo in una delle città che 51 anni fa Pasolini scelse per le riprese del Vangelo secondo Matteo e che per Enrique Irazoqui oramai è semplicemente casa.
Aveva soli 19 anni quando si trovò di fronte un Pasolini che lo squadrava penserioso, con un sorriso celato e con la certezza di aver trovato il suo Gesù. Forse la stessa meraviglia e la stessa certezza di quando il regista vide e scelse Matera. La stessa città che in questi giorni, dall’1 al 4 ottobre, ha ospitato l’evento di cultura partecipata Matera InCanta Dante di cui Enrique ha inaugurato le letture con i primi versi dell’ Inferno per celebrare i 750 anni dalla nascita del Sommo Poeta.
Accanto a Enrique il suo carissimo amico Mimì Notarangelo autore dei suggestivi scatti durante le riprese del Vangelo. Matera nel disinCanto dei passi e delle parole di Enrique che ci ha regalato e insegnato momenti di “pienezza”, di vita e di memoria."
Marianna Zito, curatrice di Modulazioni temporali
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