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Intervista a Pasolini dopo il suo primo viaggio in India e in Africa (1961)

Aggiornamento: 16 gen


Pier Paolo Pasolini durante le riprese del documentario "Appunti per un film sull'India" (1968) © Federico Zanni, Roberto Nappa/Riproduzione riservata

Un particolare interesse ci ha spinto a intervistare Pier Paolo Pasolini, tornato in questi giorni a Roma, dopo un breve soggiorno in India e in Africa. Come aveva reagito l’autore di «Ragazzi di vita», il poeta delle «Ceneri di Gramsci» alle suggestioni umane e sociali dell’India, al dramma della miseria, dell’analfabetismo, della disoccupazione? Lo scrittore era riuscito a vedere in tanta degradazione collettiva lo spiraglio di una luce, il filo di una speranza per i quattrocento milioni di indiani travolti dalla fame? «Nehru, dico più o meno a Pasolini, parla di una linea di speranza all’altezza della quale mantenere il popolo indiano durante questi anni, in attesa di riforme e di concreti miglioramenti...» ma lo scrittore mi interrompe:


Se la linea della speranza è quella che ho visto io nel mio viaggio, dice, Nehru ha una ben disperata visione del suo paese. A me para che gli indiani vivano non solo molto sotto alla linea della speranza, ma addirittura molto sotto alla linea della sopportabilità umana. Ora, io non so quali siano le ricchezze dell’India, ho visto solo che l’agricoltura nel Sud è abbastanza fiorente, e così la pastorizia. Ma industria praticamente non ce n’è. L’India consiste in un enorme sottoproletariato agricolo di tipo feudale, con una borghesia che si sta appena formando, ed ha l’aria atterrita e quasi istupidita per il caos che le vortica intorno, e di cui non è possibile stabilire proporzioni umane. I piccoli, poveri, miserandi, dolcissimi indiani si moltiplicano a ritmo disperato. Moravia, con rapida coordinazione, dice, che «crescono di un Belgio all’anno». Il disastro è tutto qui: è da questa crescita mostruosa della popolazione che nasce la mancanza di proporzioni, l’impossibilità a fare preventivi. L’intelligentissimo socialdemocratico empirico che è Nehru non può fa nulla. Tra lui e il suo paese si ha l’impressione che ci sia un abisso. Del resto, che cosa fare? Io scherzando, dicevo a Moravia, che ci sarebbe un rimedio, tassare i figli, dal terzo in poi. La idealistica propaganda antidemografica cade nel nulla, in un paese che del resto non ha su questo punto una casistica cattolica, ed è quindi ricettivo: ma è enorme, con l’ottanta per cento di analfabeti: non è quindi certo in grado di percepire un motivo così moderno, così scomodo e così antisentimentale. Gli indiani adorano i bambini. Sono tutti un po’ “mammaroli”. E in fondo, millenni di miseria li hanno abituati alla miseria: ne sono vaccinati, come contro l’ameba. Non pare per loro un problema così urgente. Bisogna veder la dolcezza, la naturalezza, la pace con cui muoiono. L’unica cosa consolante e rassicurante nell'atroce vita indiana sono i roghi del morti.


Fa un certo effetto sentir parlare Pasolini in modo tanto disperato, lui che nei suoi libri, nel più umile dei suoi personaggi, ha lasciato sempre intravedere una spinta all’azione, una coscienza di vita. Un mondo tutto diverso, quindi, quello del popolo indiano dall’altro dei ragazzi di vita: un’atmosfera psicologica. Vien fatto di porre una domanda quasi assurda: lo scrittore ambienterebbe un suo romanzo in India?


Non saprei, risponde Pasolini, quasi trasalendo. I miei personaggi appartengono a un sottoproletariato pre-cristiano, stoico, che spinge in qualche modo all’azione, a lottare, se non altro per mangiare, contro il mondo della cultura superiore. Nasce perciò, la durezza, la delinquenza, la coscienza anche confusa di certi diritti. In India la maggioranza della popolazione è indù: l’induismo è una stupenda religione, che ha reso gli uomini miti, dolci, ragionevoli (anche se spesso i riti di tale religione sono degenerati e un po’ immondi): è tale spirito di mitezza che ha reso possibile la stupenda azione politica di Gandhi: la non violenza.

Ma usciamo dal generico: a volte, per richiamare un’atmosfera, un modo di vita, basta tratteggiare un personaggio, un breve episodio. Certo la coscienza viva dello scrittore ne avrà registrati parecchi...


Infiniti, riflette Pasolini, perché per un mese non ho fatto altro che vivere fisicamente, con tutti i sensi al’allerta. Ma chissà perché, a questa domanda, mi viene in mente un’immagine che in realtà è semplicissima e insignificante: e tuttavia ha nella mia memoria uno strano peso. È quasi un’immagine simbolica o araldica. È stato nella Resthouse, statale, di Tangiore. Decrepita, sporca, scomoda la vecchia casa inglese, aperta a tutti i venti, e a tutti i serpenti, con un manipolo di servitù stracciona e sporca: atroce la città, un piccolo borgo ammucchiato senza senso intorno a un tempio, che è, invece, uno dei più belli dell’India, e forse una delle più belle costruzioni del mondo. La mattina, partendo dal quell’albergo, abbiamo distribuito le solite mance, piccole e numerose (quello che qui in Italia fa un cameriere là lo fanno in tre e quattro: ci sono sempre molti cani intorno a un osso). Uno dei servi, vecchio, serio, vestito con uno straccio intorno ai fianchi e uno straccio in testa, ha preso la moneta che gli davo in silenzio, quasi genuflettendosi, con un gesto di grazia quasi femminile, cioè spostando indietro la gamba sinistra, come fanno le giovinette dei buon collegi. Così nell’inchino, la sua testa è venuta a trovarsi molto più in basso della mia, e le mani tese a raccogliere la moneta erano all’altezza della sua fronte. Queste mani poi, erano riunite a scodella: perché io potessi gettarvi dentro la moneta senza toccarle. Era un intoccabile: vecchio, e perciò manteneva le vecchie abitudini. Ora l’intoccabilità è stata, di nome abolita: di fatto non ancora. Non riesco a togliermi di dosso l’appiccicaticcia immagine di quel povereto vecchio che aveva fatto della propria intoccabilità un’abitudine così muta, umile, assoluta. Dall’India si torna grondanti,bagnati, sporchi di pietà.


Nella stessa Bombay, continua Pasolini, dove c’è una parvenza di vita normale, c’è un quartiere, Kamatiepura, di uno squallore indicibile. È il quartiere della malavita e della prostituzione, grande almeno come il quartiere Prati a Roma, e tutto come il Mandrione: eppure il più fantasticamente orientale che si possa immaginare. Non glielo posso stare a descrivere, così, oralmente. Occorre un forte impegno stilistico, per poter dare una idea di quelle case di legno, cadenti, marce, trapelanti di luce, quei vicoli di una sporcizia che arriva al sublime, quelle decine di migliaia di dormenti sul marciapiedi, quel brulichio....


E dopo l’addio all’India, l’Africa, il breve soggiorno nel Kenia e nello Zanzibar, il ritorno a bordo di un Comet. Lo scrittore è stato ripreso dal vortice della sua multiforme attività: sul suo tavolo sono tornati ad accumularsi fogli su fogli: a giorni comincerà a girare il suo film, quel faticato «Accattone» che sembrava non poter mai vedere la luce. Gli chiedo quali impressioni gli abbia suscitato il ritorno, dopo un mese e mezzo, qualcosa sull’Africa:


Ero in aeroplano, dice, il Comete partito da Nairobi alle ore 16.30 del giorno 15. Sotto di me l’Africa stava scomparendo, impoverendo, riprecipitando nella non-esistenza. Io comprimevo a fatica il dispiacere di lasciare quel paese dove ero stato solo pochi giorni ma dove avevo fatto però in tempo a fare delle affettuose amicizie. I negri africani sono gente di una simpatia unica, orgogliosi, seri, profondamente sani. La hostess viene e mi dà delle riviste: dei rotocalchi italiani. La rabbia, il senso di umiliazione e meschinità, di sporcizia che mi hanno dato questi giornali potrei descriverlo solo nella lingua emozionata della poesia. È stato un momento di vera disperazione. Avrei voluto tornarmene a Mombasa per sempre. L’Italia da lontano, in un mese, era andata sempre più rimpicciolendo: perfettamente ignota alla gente e ai giornali sia indiani che africani, non ne avevo sentito più parlare per un pezzo. Eta diventata una specie di capsula in cui l’italiano era diventato un prodotto sintetico, senza più distinzioni tra Nord e Sud, tra Roma e Milano. Inoltre i problemi italiani, commisurati con quelli dell’India erano diventati di una irrilevanza e di una semplicità, per cui maggiore era dentro di me la furia contro coloro che, potendo risolverli, non li risolvono. Preferivo non pensarci. L’evasione era in atto. Adesso, tornando con la velocità del Comet, vedevo quella cosa piccola e insignificante, ingrandirsi, ingigantirsi, ingoiarmi. E il mio unico sentimento era quello di tornare indietro...


Ora sono qui, conclude lo scrittore, coi nervi tirati, e pieno di angosciose domande dentro di me. Ma quello che più temevo, cioè di trovarmi spento di fronte ai motivi e ai problemi della mia opera, non succede. Ho visto che un continenti interi il problema più vivo, e perciò più capace di equivalenza estetica, è il passaggio del sottoproletariato a uno stato di coscienza, con le sue lotte cieche, la sua vitalità inespressa: in tutta l’India, in tutta l’Africa ho trovato delle situazioni sociologicamente simili a quelle del sottoproletariato romano e meridionale: la fine di una società agraria feudale che viene immediatamente a contatto con una società moderna in crisi. I giovani che dal contado di Heydeabad vanno a cerca lavoro a fortuna a Bombay, o, i giovani che emigrano da Karatina o Kangundo per Nairobi, sono estremamente simili ai pugliesi e ai calabresi che vengono a Roma. Parlando con me, dicono, addirittura quasi le stesse parole, in urdu, in swaili, o in un dialetto italiano, Lo spirito castale in India, lo spirito tribale in Africa, e lo spirito tradizionale in Italia pongono le stesse inibizioni a chi vuol diventare moderno; la differenza tra i vecchi e i giovani presenta dei fenomeni analoghi. Insomma, mentre il borghese italiano, con la sua televisione e i suoi rotocalchi è un ignoto provinciale i cui problemi sono talmente ai margini, il contadi no italiano, specie del Sud, e indivisibilmente e inesprimibilmente legato alle immense masse contadine sottosviluppate dell’Africa, del Medio Oriente e dell’India, e i suoi problemi si presentano come problemi mondiali.



Pier Paolo Pasolini. C'è un abisso fra Nehru e gli indiani. A colloquio con lo scrittore da rientro dall'Oriente, intervistato da Adolfo Chiesa, in "Paese sera" 20-21 settembre, 1961.

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