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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Intervista a Pier Paolo Pasolini (1965). Ferdinando Camon, Il mestiere di scrittore.


Pier Paolo Pasolini a casa sua, Roma. Primi anni Sessanta © Farabola/Leemage - AFP/ Riproduzione riservata.

Pier Paolo Pasolini


Pasolini ha una voce malata, risultato di un lavoro protratto al di là della sopportazione. La sua non sembra la stanchezza del tirar sera, ma del tirar mattina. Lo vedo seduto al suo tavolo, davanti a una lampada fioca, schermata solo dalla parte dell'ospite, con gli occhi stanchi ma fermi dietro le lenti, con la voce fievole di chi veglia da tempo, e mi accorgo che me l'aspettavo così diverso: così, con questo segno di sincerità che sono ormai in pochi a contestargli, illuminata da una sofferenza chiusa; diverso, cioè più polemico, più vivace, meno mite. In un uomo come Pasolini, cupo e corrosivo, violento, denunciatore e polemista, la mitezza e l'umiltà non sono prevedibili: sembrano quasi presagio di una sconfitta. Invece sono in lui aspetti immediati, e costituiscono le armi della sua vittoria perché rivelano la sua sincerità. Mentre mi si cancella l'immagine prefabbricata di Pasolini, e lentamente prende luogo l'immagine vera, che ho davanti a me, sento, come sentiva una volta Leonetti, che mi è definito e indefinito (e tale ancora mi rimarrà) il suo nodo di passione e intelletto, di viscerale e ideologico, di sofferenza voluta e di esasperazione inutile, di ribellione, di accettazione, di consolazione, di forza oscura e di illuminazione: quell'insieme di sentimenti opposti o diversi e compresenti ch'egli riconduce tutti alla matrice comune dell'«amor di vita» ma che a noi si rivelano solo quando è provocato c soffre, e che formano la sua «vitalità».

- Ferdinando Camon: La sua multiforme attività rischia di far dimenticare ad alcuni che la sua vocazione originaria, anche in senso cronologico, è e resta quella poetica: come poeta lei si è rivelato, e l'attività di poeta accompagna sempre quella di regista, di critico e di romanziere.


- Pier Paolo Pasolini: Sì. Fino a quasi trentanni io ho scritto soltanto poesie, oltre ad alcuni primi romanzi di ambiente friulano che sono inediti, chiusi qua nel mio cassetto, e molto autobiografici: uno si chiamava Atti impuri, un altro Amado mio.


- FC: Il nome Pasolini ha una etimologia? È friulano?


- PPP: No, è ravennate: mio padre è di Ravenna, di un'antica famiglia nobile [ride], di un ramo cadetto; Pasolini deriva da Pase, donde Pasini - Pasolini. Lo stemma dei Pasolini ha un'onda con sopra una vela, su questa vela sta scritto «Pax». Non so se sia un'etimologia empirica, ma credo proprio di no.


- FC: La filologia è una delle sue passioni. Lei è stato uno dei fondatori dell'«Academiuta de lenga furlana». Che scopi aveva quella Accademia?

- PPP: Aveva un duplice scopo: da una parte rispondeva a un'esigenza nostalgico-conservatrice cioè regionalistica: l'amore per il Friuli come piccola patria a sé, isola linguistica e morale; e da un'altra parte si proponeva studi linguistici lanciati verso l'avvenire. Come in tutte le mie opere di allora, si distingue insomma una parte nostalgica-cristiana-romantica e una parte populistica-umanitaria. Il friulano lo consideravo una lingua poetica in concreto, pronta cioè per la poesia. È difficile farsi un'idea della mia situazione di allora. Pensi a un giovane di 16-18 anni, nel fascismo imperante, che non aveva nessuna possibilità di diventare antifascista; privo di mezzi per uscire da quel circolo chiuso in cui era nato e cresciuto; a meno che non appartenesse a una famiglia di antifascisti, ma questo non era il mio caso. Mia madre, sì, era antifascista, ma in un modo del tutto paesano, sentimentale, innocente. Mio padre invece era nazionalista, quindi abbastanza filofascista.


Io ho percorso le due strade che sole potevano portarmi all'antifascismo: quella dell'ermetismo, cioè della scoperta della poesia ermetica e del decadentismo, ossia in fondo del buongusto (non si poteva essere fascisti per ragioni di gusto, anche se questo è un modo molto irrazionale e assurdo e a-ideologico di essere antifascisti), e, seconda, quella che mi portava a contatto col modo di vivere umile e cristiano dei contadini, nel paese di mia madre, modo che esprimeva una mentalità totalmente diversa dallo stile fascista. Le mie prime poesie in friulano riflettevano dunque da una parte una friulanità come lingua, dall'altra un alone sentimentale e vagamente socialista di tipo cristiano-romantico: i contadini coi loro vespri e le loro campane.


Ambedue questi clementi, lingua e società, dovevano poi approfondirsi nelle mie successive esperienze, portandomi da una parte ad una elaborazione linguistica verso zone meno strettamente ermetiche e decadenti, dall'altra all'evoluzione dell'idea di Cristianesimo verso forme sociologiche più concrete: la scoperta della lotta dei braccianti friulani contro i latifondisti, per esempio. Per me, restare dalla parte dei braccianti significava restare nella scia della poesia di adolescente. La lotta dei braccianti è diventata il punto cruciale della mia storia, perché è lì che io ho intuito e subodorato prima, scoperto e studiato poi, il marxismo.


- FC: I rapporti e gli aspetti di questa lotta son cambiati oggi, in Friuli?


- PPP: Son tredici anni che non capito in Friuli, se non per fughe di un giorno. Non ne so più niente.


- FC: Mi pare che, come in tutte e tre le Venezie, la lotta si esprima oggi attraverso l'emigrazione.


- PPP: Veramente, è questo il fenomeno che più mi ha colpito durante le mie ultime apparizioni in quei paesi: non c'è più gioventù. Accanto ai vecchi, i giovani rimasti son quelli che potevan rimanere : piccoli possidenti, artigiani, meccanici.


- FC: Ma si tratta di un fenomeno di urbanesimo? di emigrazione interna?

- PPP: Assolutamente no. Quasi tutti i miei amici sono emigrati in Australia o in Canada.


- FC: Nel Veneto invece si realizza un flusso stagionale per l'estero, oppure un fenomeno di emigrazione interna verso i centri industriali.


- PPP: Ma il Friuli ha una vecchissima tradizione di emigrazione in altri continenti. Si sa come avvengono queste partenze : una famiglia chiama le altre.


- FC: Da una posizione di reazione al fascismo attraverso l'ermetismo, si passò, in tempi che sembrano ma non sono lontanissimi (circa un decennio fa), a un'accanita polemica antiermetica. Nel panorama di questa polemica e per un superamento della polemica stessa va inserita la nascita della rivista «Officina» : che, giusta la definizione di Romanò, fu la prima a tentare la storicizzazione dei rapporti tra letteratura e ideologia, relativamente a un tempo in cui la letteratura teorizzava la propria autonomia. Fin qui, penso che tutti siano d'accordo. Ma poi Romanò scrive che «Officina», pur ribadendo che origini e significati della letteratura vanno ricercati non nella letteratura ma nelle condizioni generali della cultura, e cioè in quel territorio che ha per confini ideali Croce e Gramsci, - pur rompendo, dicevamo, il circolo per cui letteratura e poesia presuppongono esperienze letterarie e politiche, ha cercato di impedire un nuovo circolo ideologia-poesia, teorizzando l'impossibilità, in letteratura, di scegliere ideologicamente, e che anzi proprio per questo ha rimosso le ipoteche ideologiche che gravavano sul discorso, liberandolo verso molteplici direzioni.


- PPP: Esplicitamente, «Officina» parlava di scelta ideologica, diceva anzi che il dovere del letterato e dello scrittore era una scelta ideologica, che il letterato e lo scrittore dev'essere anzitutto un ideologo, che le scelte devono avvenire in sede culturale prima che in sede sentimentale-intuitiva. Questo diceva «Officina» a chiare lettere. Che poi sotto ci fosse una qualche contraddizione, che continuasse a serpeggiare la vecchia cultura contro cui «Officina» combatteva, cioè la cultura ermetica, che contemporaneamente, nuove forme irrazionalistiche, questo non era nelle intenzioni di «Officina», accadeva anzi malgrado «Officina ».


-FC: Alcuni critici, quasi esclusivamente recensori di terza pagina, o perché condividono l'utilità di questo metodo schematico o perché costretti dalla necessità di esemplificare, hanno parlato di una antitesi, sul piano contenutistico, tra lei e Luzi.


- PPP: Sono termini troppo vaghi, che nascondono una inconsistenza di fondo. Perché antitesi? Avrò posizioni diverse, una ideologia diversa, ma parlare di antitesi mi sembra a dir poco semplicistico. Cristo dice: «Dite di sì se sì, no se no, perché il resto vien dal Maligno.» Noi in verità siamo in preda al Maligno, perché non c'è mai un sì o un no. In Luzi possono esserci inconsciamente molte delle mie posizioni; in me, come del resto il Vangelo ha dimostrato, ci sono moltissime delle posizioni che Luzi ha detto essere sue in modo esplicito.


- FC: Ma forse, mesi o anni addietro, l'approdo al Vangelo non era ancora previsto, in questa forma.


- PPP: Previsto da un pubblico no, per il semplice fatto che non esiste un pubblico della poesia, anche se, lo dico con orgoglio, a questo proposito io devo lamentarmi meno degli altri. Ma dai critici di poesia doveva essere previsto, o almeno supposto: leggendo le mie raccolte friulane, l'Usignolo della chiesa cattolica, La religione del mio tempo, dovevano almeno supporre che c'erano in me dei fermenti attivi del mondo cristiano e cattolico contro cui io ideologicamente mi ponevo in sede politica.


- FC: Rileggendo i suoi versi A un papa, ho pensato che in fondo Il Vicario di Hochhuth non sia che un allargamento, ma smisurato, della polemica aperta da lei sullo scarso amore di Pio XII verso gli oppressi e i diseredati.


- PPP: Non ho letto Il Vicario, e non ne ho vista la rappresentazione. Conosco appena, attraverso i giornali, le polemiche suscitate.


- FC: L'accusa di Hochhuth è rivolta contro il silenzio di papa Pacelli di fronte agli orrori dello sterminio degli ebrei e ancor prima dei polacchi. Silenzio che è, per gli storici, un enigma. Le varie giustificazioni addotte non hanno convinto. Personalmente, penso che un fondo di verità possa racchiudere l'intervento di quei critici che spiegano, con le prove di discorsi e lettere espressamente citati, che la neutralità assoluta della Chiesa e di Roma doveva permettere a Pio di essere desiderato o accettato come arbitro del conflitto, di poter passare alla storia come colui che ha la pace. È noto che il papa pensava che un'Europa senza una Germania forte o comunque non prostrata non avrebbe potuto difendersi dalla Russia vittoriosa c dalle sue aspirazioni. L'idea, osservano quei critici, era politicamente rispettabile. Contro la rivoluzione francese il Congresso di Vienna ebbe pressappoco la stessa politica, ed in parte riuscì ad attuarla.


- PPP: Un simile progetto, in un papa, se ci fu, poté solo dimostrare una colpevole ignoranza dei testi del marxismo. I russi stavano per vincere: come avrebbero voluto o gradito quale intermediario un pontefice che non aveva pronunciato una parola di fronte ai massacri ad opera dei tedeschi? Un simile papa si sarebbe reso accettabile soltanto ai tedeschi.


- FC: Le sembra esatto il giudizio dei critici per cui, con Poesia in forma di rosa, lei è giunto a un punto morto, negando la presenza e la possibilità di ideologic fissate una volta per tutte? Per cui demolisce tutti i miti in cui crede l'uomo contemporaneo, e in cui ha creduto anche lei?


- PPP: Questa interpretazione può essere vera in certi punti del libro, non nell'insieme del libro. Il libro ha la forma interna, anche se non esterna, di un diario, e racconta punto per punto i progressi del mio pensiero e del mio umore in questi anni. Se avessi fatto un'opera di memoria, avrei cercato di sintetizzare e livellare le. esperienze che han formato la mia vita. Ma facendo un diario, mi son rappresentato volta a volta completamente immerso nel pensiero o nell'umore in cui mi trovavo scrivendo. È la forma diaristica del libro quella che fa sì che le contraddizioni vengano rese estreme, mai conciliate, mai smussate, se non alla fine del libro. Alla fine del libro, il lettore sente che esso chiudeva una specie di rabbia distruggitrice, uno scoraggiamento che diventa passione di demolire certe idee fisse e punti fermi degli anni cinquanta, anzi addirittura una vera e propria

abiura. Ma questa abiura va letta come si legge una poesia.


- FC: Cioè, quell'abiura è una soluzione letteraria e poetica, non filosofica e definitiva...


- PPP: Quell'abiura è fondamentalmente vera perché considera certe posizioni degli anni cinquanta superate oggettivamente dalla società : altri sono i problemi oggi. Ma il «tono» di quell'abiura è poetico e non reale, e mi suggerisce termini eccessivamente carichi di rancore e di nuove speranze.


- FC: È ancora Romanò che ha parlato di lei come del più clamoroso caso di estroversione, che ha diretta ascendenza solo in D'Annunzio, con la differenza che l'esistenzialismo e l'erotomania di D'Annunzio erano un modello per la società contemporanea, mentre lei è provocatorio, e ancora: D'Annunzio era panico e innamorato della natura, mentre lei è tetro e angosciato.


- PPP: Il bellissimo saggio di Romanò era condotto con chiara intelligenza. Forse qualche dubbio si può avanzare sul termine « estroversione ». « Estroversione », nel senso clinico-scientifico della parola, indica certi tratti del carattere che non sono miei, ma anzi opposti ai miei: sono essenzialmente un introvertito, io. Io tendo a forme di nevrosi, di ipersensibilità, a complessi di inferiorità, che sono tutte forme di introversione, clinicamente parlando. E direi anzi che l'estrovertito ha caratteri anche somaticamente diversi dai miei. La parola, dunque, se usata in questo senso clinico-psicologico, non credo di poterla accettare. Se invece è usata in un senso che ora direi sociologico (la mia introversione diventata estroversione attraverso gli strumenti della poesia) ...


- FC: A questo appunto accade di pensare, leggendo i suoi versi, a un bisogno che è in lei di scavare in sé per dare fuori, continuamente.


- PPP: Allora dirò che questo «dare» accade mio malgrado, per le vie che non sono tipiche dell'estroversione, e inconsciamente. Alcune forme esibizionistiche ci sono evidentemente in mc, ma in quel profondo che non implica responsabilità, fanno parte dei miei traumi, della mia psicologia patologica e io non le domino. Può darsi che l'estroversione sia una rivincita su certe mie esigenze inconsce, che nella vita pratica io non registro e quindi non riconosco per mie, ma che in realtà ci sono.


- FC: È stato scritto anche che lei ha un concetto strumentale della poesia, e in certo seno non ne ha rispetto. Qualcun altro (Pignotti) ha detto, con intenzioni elogiative, che lei scrive articoli in versi. Accetta questi due giudizi, o forse quest'unico giudizio?


- PPP: È un discorso ambiguo. Nella mia cultura c'è un enorme rispetto per la poesia: non per niente mi son formato in un'epoca in cui la poesia era un mito: il decadentismo, l'ermetismo, la poesia in senso assoluto, la poesia pura, la Poesia con la P maiuscola. Io «non posso» non avere un senso altissimo della poesia. Ma ho dovuto contraddirmi proprio perché a livello storico la poesia era diventata un mito. Che andava demistificato. Perciò, con uno sforzo di volontà, ho reagito a me stesso, riconducendo la poesia a forme strumentali. Che, ripeto, sono dovute a un mio sforzo di volontà, a una mia lotta storica, quotidiana: ma nel fondo di me resta, solido come quarzo, un senso di venerazione per la poesia.


- FC: Con ciò lei ha praticamente risposto a una osservazione, conseguente alla domanda precedente, che poteva nascere a questo punto. E cioè: i materiali poetici sono in lei oggetto di passione e di biografia, un aspetto del suo malessere, come fu detto. Il che li porta a non essere mai enunciati una volta per sempre, in una forma fissa, definitiva, ma sempre relativamente all'esperienza di un frammento di vita.


- PPP: Sì, ma forse la parola «malessere» va sostituita. Essa torna a galla negli articoli che toccano la mia poesia nei suoi punti clamorosamente appariscenti. Ma il fondo del mio carattere non è il malessere, bensì la gaiezza, la vitalità, e questo io paleso non solo nell'opera letteraria ma nella vita stessa. Intendo per vitalità quell'« amor di vita » che coincide con la lietezza. E gaia, Vitale, affettuosa è nell'intimo la mia natura: son le continue angosce oggettive che ho dovuto affrontare che hanno esasperato gli aspetti del mio malessere.


- FC: Crolla, dopo questa confessione, la contrapposizione, cui poco fa accennavo, di lei tetro e angosciato a D'Annunzio panico e gaudioso.


- PPP: In verità, tetro e angoscioso è D'Annunzio che ha dovuto mascherare il suo fondo d'impotenza e di tetraggine inscenando una teatrale forma di vitalismo. A me succede il contrario: poiché sono profondamente innamorato della vita, «mi piace la vita» in tutti i suoi aspetti, ma sono impedito a che questo inesauribile amore si esplichi, ecco che questo amore diventa per me tragedia.


- FC: Mi spiego ora quella che era per me un'impressione immediata, quando chiudevo un suo libro di poesia: pur avendo la consapevolezza che il poeta mi si era mostrato cupamente angosciato, io mai mi sono sentito disperato o tetro. Ma non ho creduto o sospettato che tale doveva anche essere, nel suo fondo, l'animo del poeta. Forse anche qui c'è una delle tante ragioni che possono spiegare

l'approdo al Vangelo.


- PPP: Mi scusi se correggo anche la parola approdo: in me c'è sempre stato, fin dalla Meglio gioventù, un costante interesse per il Vangelo.


- FC: Matteo sostiene che Gesù è il Cristo o Messia Marco prova che Gesù, figlio di Dio, è dominatore della natura; Luca sostiene che Gesù è la salute dei giudei e dei gentili. Luca può apparire oggi borghese: la sua è la storia della chiesa nascente, di una rivoluzione che diventa istituzione. La tesi di Marco - che Gesù è veramente figlio di Dio - è sempre presente, almeno come ipotesi, negli altri Vangeli. Fra i tre dunque non si poteva scegliere che Matteo. Ma le è nata qualche incertezza fra Matteo e Giovanni? Giovanni sostiene che Gesù è il figlio naturale di Dio, e, descrivendo il suo ministero svolto a Gerusalemme, ne espone largamente le affermazioni, con pathos e misticismo : poteva far nascere a maggior ragione un'opera epica e sociale.


- PPP: L' idea di trarne un film mi è nata proprio leggendo «un» Vangelo, e cioè quello di Matteo. Inoltre, in Matteo mi attraeva una tendenza che sembra contraddirsi nei termini: la concretezza storica. Inoltre ancora, il personaggio Cristo mi sembra più affascinante in Matteo: un Cristo più inflessibile, più esigente, più travolgente, senza un momento di requie c di pace. Io fui soggiogato da questa figura.


- FC: Qualche critico ha avanzato delle riserve sulla voce di Enrico Maria Salerno. Applicata al Cristo di Matteo, quella voce può ancora essere preferibile; a Giovanni, non più.


- PPP: In Giovanni sono più forti, infatti, gli elementi mistici, religiosi, filosofici. In Matteo prevale la preoccupazione di compiere l'integrazione dell'Antico Testamento, d'intendere il Cristo come la conclusione delle profezie, e prevale l'idea metafisica dcl figlio di Dio e l'insegnamento morale.


- FC: In generale, salvo qualche riserva particolare (per esempio, di Filippo Sacchi) i critici sono convinti dei valori del film. E più, mi è parso, dopo la seconda e terza visione che non dopo la prima a Venezia.


- PPP: La prima visione serve soltanto a togliere la prevenzione, immancabile, con cui si assiste al film.


- FC: Una curiosità: perché sceglie i letterati come interpreti? Personalmente ho sempre pensato che sia per un bisogno autobiografico. Lei, cioè, trasferisce sullo schermo un dialogo poetico nato come colloquio amicale o epistolare.


- PPP: No, le cose non stanno così. L'esigenza che mi guida è quella di non scegliere attori di professione; perciò devo prendere dalla strada i protagonisti più umili, dalla cerchia di amici letterati e intellettuali i personaggi più complessi. La borghesia italiana è molto volgare: gli unici membri non volgari sono o quelli che hanno un'autentica vocazione religiosa, o quelli che hanno una vocazione letteraria o scientifica.


- FC: Non li trova poco plasmabili i letterati?


- PPP: Questa qualità non m'interessa: non voglio avere degli attori, se no prenderei dei professionisti. Io voglio avere del materiale umano vivo e vero. A volte non spiego nemmeno di che cosa si tratta al mio interprete. Gli dico, per esempio: «Sorridi pensando a tuo figlio.»Li prendo insomma per quello che sono: non voglio che fingano di essere degli altri.


- FC: AI testo della sceneggiatura del film, lei ha premesso, tra l'altro, una lettera in cui dice: «Per me la bellezza giunge a noi sempre come bellezza mediata : attraverso la poesia o la filosofia o la pratica. Il solo caso di bellezza morale non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l'ho sperimentato nel Vangelo.» Mi pare che sia importante in lei questa ricerca di bellezza morale.


- PPP: Perché la bellezza-bellezza è una bellezza estetizzata, è un vagheggiamento della bellezza, una volontà di bellezza. Parlando di bellezza morale, io tiravo le conclusioni dei pensieri elaborati attorno agli anni cinquanta, cioè all'epoca di « Officina », che ha respinto e distrutto l'idea di bellezza come bellezza e di poesia come poesia: filiazioni dell'estetismo, che ormai han fatto il loro tempo.


(1965)


Ferdinando Camon Intervista con Pasolini in Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura (2019) pp.81-108
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