“Testimoniare un tipo di denuncia attraverso la metafora del travestito” era il concept del progetto del pioniere della Pop Art, come si legge in uno dei documenti recuperati dall’archivio di Palazzo dei Diamanti, il comunicato stampa della mostra del 1975 organizzata dall’allora direttore Franco Farina, alla quale presenziò anche lo stesso Warhol, che trascorse qualche settimana a Ferrara per promuovere la mostra e incontrare i giornalisti. La presentazione in catalogo è di Pier Paolo Pasolini, scritta poco prima di morire.
"Parlando con Man Ray del mio film Le 120 giornate di Sodoma c’è stato un punto in cui il mio interlocutore non ha capito. Man Ray è lucido, intelligente, presente. Il suo manierismo è fresco come quarant’anni fa. Non c’è nessuna ragione al mondo per cui egli non possa capire qualcosa.
Ma più che mancanza di comprensione c’era in lui un buio, un vuoto. Di che si trattava? Io gli avevo detto che avevo ambientato il romanzo di Sade nel 1945 a Salò. Era questo che egli non capiva. Non lo capiva, perché gli sfuggiva il fatto che il 1945 fosse un anno particolarmente significativo (la fine di una guerra: ebbene ? Nel 1918 non ne era finita un’altra?), e soprattutto gli sfuggiva il fatto che Salò fosse stata la capitale di una piccola repubblica fascista. Anzi addirittura prendeva Salò per “salaud”, con mia completa soddisfazione, del resto.
Andy Warhol mi avrebbe capito meglio? Non so se anche Warhol sia, come Man Ray, un cultore di Sade. I suoi travestiti hanno un commovente ardire che non è precisamente sadiano. Ma è significativo per Warhol il 1945, e la parola Salò gli dice qualcosa?
È una domanda un po’ decorativa, lo so. Ma la faccio perché in essa si coagula una serie o meglio un groviglio di domande. La storia per Warhol può essere divisa? Può avere un momento in cui un suo modo di essere finisce e ne comincia un altro? Ci può essere una divisione storica nell’universo in cui viviamo e, dunque, nel piccolo universo concentrato e prezioso in cui lavoriamo? Può scorrere una linea divisoria tra gli uomini? E in particolare nelle loro coscienze? E più in particolare ancora nel terreno ideologico delle loro coscienze? C’è qualcosa che possa incrinare il “tutto unico” che la mente dissacratrice dell’artista – per puro gioco – mette in discussione totalmente – deride o adora, venera o vanifica? Il fascismo può spezzare qualcosa in quel “tutto unico”? O al contrario, una rivoluzione marxista può, prima, separarlo attraverso quella opposizione fatale e totale che è la lotta di classe, e poi trasformarlo fino a farlo sparire?
Un messaggio che dall’Europa giunga in America implica tutte queste divisioni, questi sdoppiamenti, queste opposizioni della realtà: ed è misterioso per questo. Al contrario un messaggio che dall’America giunga in Europa implica unitarietà, omogeneità, compattezza: proviene da un’entropia. Ed è per questo ancora più misterioso.
Ho davanti agli occhi le serigrafie ed alcuni dipinti di Warhol. L’impressione è di essere di fronte a un affresco ravennate rappresentante figure isocefale, tutte, s’intende, frontali. Iterate al punto da perdere la propria identità e di essere riconoscibili, come i gemelli, dal colore del loro vestito.
L’abside della cattedrale che Warhol costruisce e poi getta al vento disperdendola nei tanti ritagli delle figure isocefale e iterate, è in effetti bizantina.
L’archetipo delle varie figure è sempre lo stesso: perfettamente ontologico.
Andy Warhol 26 ottobre 1975, mostra a Ferrara © Bridgeman Images/Tutti i diritti riservati
È la qualità di vita americana che sembrerebbe essere l’equivalente della sacralità autoritaria della pittura ufficiale cristiana delle origini: fornire cioè il modello metafisico di ogni possibile figura vivente. A tale modello non ci sono alternative: ma solo varianti. L’uomo americano è unico, malgrado il pluralismo effettivo e riconosciuto. È più forte insomma, il Modello, che le infinite persone reali che possono passare per la 42ma Strada alle ore sette di una sera d’estate. Se poi l’ambiente « prelevato » si restringe al «Golden Grape», esso nulla può opporre al Modello, se non delle varianti ridotte al minimo : una iterazione ossessiva, l’Ossessione. Il nome e il cognome dei travestiti non bastano, la loro anagrafe è irrilevante; essi vengono assorbiti nell’unicità della Persona che li prefigura, accampandosi accanto ad altre Persone archetipe nel cielo dell’Entropia americana. Siamo di fronte al Travestito e alla ristretta rosa delle sue, sia pur innumerevoli, varianti. Quando sapremo che uno dei travestiti “particolari” si chiama Candy Darling ed è morto di cancro in clinica dando, il giorno prima della sua morte, una festa in onore delle “amiche” – festa caratterizzata da una folle quantità di rose bianche – verremo a conoscenza di un dato che nulla cambia alla Persona aprioristica e unica della serigrafia.
In cosa consistono le varianti? In due ordini o strati di tecniche: a) la fotografia dei soggetti (ingrandimento, stampa serigrafica); b) la colorazione dell’ingrandimento. Como si vede, si tratta di due “applicazioni” applicate una sull’altra. Sulla superficie bianca viene fatta prima esplodere la realtà (fisica, psicologica, sociologica): e poi, sui suoi ultimi, consunti brandelli, vi viene incollata l’affiche funebre che la fissa nel suo attimo inestinguibile di pura vitalità. La seconda operazione è la più propriamente pittorica: le tinte acriliche – pure, del tutto non materiche – vengono disposte – sulla superficie contenente la fotografia dilatata – a campitura apparentemente casuale. Ma non si tratta di “macchie”, bensì di “ritagli”, incollati. La stampa fonde tutto in un’unica superficie. La scelta delle forme del «ritaglio incollato» e i suoi colori, è affidata a una sorta di ispirazione calcolata e quasi automatica. Le forme del ritaglio incollato giocano con le forme realistiche della fotografia – sdoppiandole, squilibrandole, esaltandole – in sovrapposizioni sempre sfasate rispetto all’anatomia ma sempre subordinate all’anatomia (privilegiando gli occhi, le bocche, i capelli e i fondi). Il richiamo culturale più diretto di tale tecnica è ai cartelli pubblicitari e alle affiches formalistiche, oltre che a dettagli di pittura fauve.
Quanto al primo ordine o strato tecnico – quello della fotografia – c’è da osservare che la fotografia sembra sempre ossessivamente la stessa; sempre frontale o di quinta, mai di profilo; sempre “atteggiata”, mai dal vero; sempre alla maniera “Stelle” cinematografiche, mai alla maniera del quotidiano colto al volo. Ciò “brucia” la psicologia: ma relativamente.
Infatti i lineamenti o connotati parlano di per sé un linguaggio psicologico anche e malgrado lo sforzo di auto-annullarsi (ancor prima di essere fotografia o dipinto) in un cliché umano. Lo sforzo che fanno questi travestiti per mostrarsi trionfalistici non è di una velleitaria e commovente umanità? Ma oltre a questo sforzo essi non vanno. Si capisce, il “Diverso” nel suo ghetto permissivo di New York può trionfare a patto di non uscire da un comportamento che lo renda riconoscibile e tollerabile. La protervia femminea di questi maschi non è che la smorfia della vittima che vuol commuovere il carnefice con una buffonesca dignità regale. Ed è tale smorfia che rende questi travestiti tutti psicologicamente uguali, come dignitari bizantini in un’abside stellata.
Dunque anche l’universo di Warhol è in qualche modo doppio, vive in dramma oppositorio. Ma ad opporsi sono due ontologie: l’ontologia formale e l’ontologia psicologica. A una serie di macchie (ritagli colorati) la cui struttura è decisa aprioristicamente anche quando è parzialmente lasciata al caso, si oppone una serie di ritratti fotografici il cui significato è ugualmente aprioristico e predeterminato.
Il messaggio di Warhol per un intellettuale europeo è una unità sclerotica dell’universo, in cui l’unica libertà è quella dell’artista, che, sostanzialmente disprezzandolo, gioca con esso.
La rappresentazione del mondo esclude ogni possibile dialettica. È, al tempo stesso, violentemente aggressiva e disperatamente impotente. C’è dunque, nella sua perversità di “gioco” crudele, astuto e insolente, una sostanziale e incredibile innocenza."
Pier Paolo Pasolini "Andy Warhol. Ladies and Gentlemen" Milano: Luciano Anselmino (1976). Ora in"Saggi sulla letteratura e sull’arte" Tomo II, Milano: Meridiani Mondadori (1999)
Comments