Pier Paolo Pasolini e Bernardo Bertolucci alla presentazione di un libro di poesie di Pasolini. Roma, 29 giugno 1962 © Archivio Storico Luce Cinecittà/Riproduzione riservata
Quindi posso suonare alla sua porta, una domenica pomeriggio, entrare nel salotto austero per la penombra e affollato di divani dai cuscini troppo gonfi, fare domande, dire qualcosa, prendere appunti.
La mia è una curiosità semplice: Pasolini è stato l’ultimo (il più originale?) dei grandi pedagoghi. Era, come scrive Enzo Golino nel suo Pasolini, il sogno di una cosa, un maestro naturale, naturalmente e, parrebbe, quasi per necessità emotiva, si chinava sui più giovani, più fragili, meno colti e su di loro riversava una sua ansia di vederli felici, così appassionata da sconfinare nell’amore.
Come si sentiva un sedicenne di buona famiglia intellettuale, a ritrovarsi oggetto di quell’attenzione maieutica? Il primo incontro, Bertolucci l’ha descritto benissimo nell’introduzione al Meridiano Mondadori Pasolini per il cinema, fu comico: «Una domenica sul finire della primavera, dopo pranzo, vado ad aprire la porta della nostra casa di via Carini 45. C’è un giovane con gli occhiali neri, il ciuffo un po’ malandro, il vestito scuro della festa, camicia bianca, cravatta. Con tono fermo e dolce mi dice che ha un appuntamento con mio padre. Qualcosa di soave nella sua voce, e soprattutto quello che mi sembra un travestimento fin troppo domenicale, mi mettono in stato di allarme. Mio padre sta riposando, chi è lei, mi chiamo Pasolini, vado a vedere. Richiudo, lasciandolo fuori sul pianerottolo. Mio padre si sta alzando, gli racconto tutto, lui dice di chiamarsi Pasolini ma secondo me è un ladro, l’ho chiuso fuori. Come ride mio padre! Pasolini è un bravissimo poeta, corri ad aprire la porta». Bernardo quattordicenne torna alla porta, le gote rosse per l’imbarazzo, Pasolini gli sorride con una tenerezza «che nessuno avrebbe mai potuto raccontare».
Negli incontri seguenti, Bernardo ragazzo, che scriveva poesie da quando ha incominciato materialmente a scrivere, e le faceva leggere al padre poeta, incomincia a portarle a lui, all’amico grande, venuto a vivere nello stesso palazzo, al primo piano. Sono «i momenti privilegiati». (...) E non finisce qui, come l’incarnazione del principio di realtà, Pasolini propone al ragazzo poeta di fargli da aiuto regista. Siamo nella primavera del 1961, il film è Accattone. Bernardo protesta: non l’ho mai fatto, non lo so fare. Neanch’io l’ho mai fatto, non ho mai diretto un film, risponde implacabile il maieuta. Bernardo ventenne si trova per la prima volta «vicinissimo agli attori», il suo compito è di controllare che imparino i dialoghi a memoria. È di loro che si deve occupare. E naturalmente sono, tutti, non attori. Papponi, brigantelli, ragazzotti. (...)
- Vorrei chiedergli, ma Pasolini ti amava come? Perché? Eri un fiore di serra, così lontano dal suo presepe di ricciutelli che si tuffano in mutandine nel Tevere, miserrimi e analfabeti e allegri e inafferrabili come la natura. Non glielo chiedo, non riesco neanche a interromperlo.
- «Dal momento in cui comincio a girare il film sono assalito da un bisogno quasi fisiologico di trasformare questa storia pasoliniana in qualcosa di mio. È lì che incomincia il mio cinema, il mio cinema deve essere l’opposto del cinema di Pasolini, ancora oggi quando mi trovo a muovere la macchina da presa inseguendo una sensualità che è un valore in più, in cui la storia prende forma, ancora oggi mi chiedo se il mio stile non sia l’eco, la risonanza di quella decisione presa nel ’62… essere diverso da Pier Paolo… i suoi riferimenti cinematografici erano Dreyer e Chaplin. Veniva dall’arte, dalla letteratura. Pensava alle pale d’altare. Ai paesaggi di Simone Martini, ai primitivi senesi. Inchiodava la macchina da presa davanti alle facce, ai corpi, alle baracche, ai cani randagi nella luce di un sole che a me sembrava malato e a lui ricordava i fondi oro… ogni inquadratura finiva per diventare un piccolo tabernacolo della gloria sottoproletaria… presi allora la decisione che il mio cinema sarebbe stato un cinema che quasi rifiutava il piano fisso. In costante movimento, di avvicinamento, di allontanamento, di avvolgimento, la macchina da presa sarebbe arrivata a toccare i personaggi, ad accarezzarli… Io volevo che cadesse quel diaframma di rispetto sacrale che c’è nel cinema di Pasolini, la frontalità, nel suo cinema, esprimeva la sua profonda, discutibile ma intensa religiosità. Io volevo che il mio cinema non fosse sacrale. Quando un critico, recensendo La commare secca, lo definì un film pasoliniano, piansi».
- Un bambino geniale e ostinato. Gratitudine per quella prima occasione?
- «Che avrei fatto il cinema lo sapevo. Mi basavo sulla forza del mio desiderio».
- Quindi non hai avuto neppure quella normale fase mimetica che tutti hanno nei confronti dei maestri...
- «Non ne sono ancora uscito dalla fase mimetica: rifiutare in tutti i modi consentiti e possibili il processo imitativo è un altro modo di imitare». (...)
- Nei 15 anni che separano i giorni di Accattone da quel 2 novembre 1975, siete sempre stati vicini? In sintonia? L’uno amante del cinema dell’altro, nonostante le tue scelte antitetiche?.
- «Non gli è piaciuto Ultimo tango a Parigi. Mi ha telefonato e mi ha detto: ma come fai? Una storia così banale, di angosce borghesi e quel Brando lì, poi… gli hai fatto dire delle cose…».
- Certo, per uno che non vuole gli attori… il tuo monumento a Marlon Brando….
- «Invece nel 1973 mi chiama, subito prima di fare Salò e mi chiede: sei ancora in rapporti con Brando? No, perché pensavo, se faccio quel film su san Paolo, lui sarebbe un ottimo san Paolo… ogni tanto si contraddiceva, e questo lo rendeva più vulnerabile… nel 1968 siamo invitati tutti e due al festival di Venezia, io con Partner, lui con Teorema. È l’anno della contestazione anche nel cinema. Quella al festival è organizzata dall’Anac. Decidiamo di non aderire, la cosa non ci convince, all’Anac preferiamo Luigi Chiarini, il direttore della Mostra, lo decidiamo di comune accordo, io, Pier Paolo e Liliana Cavani. Prima di partire per Venezia dove il mio film è programmato di lì a qualche giorno, io sono in vacanza a Panarea con Mapi Maino, accendo la radio, i carri armati sovietici stanno invadendo Praga, poi l’ultima notizia: Pasolini aderisce alla protesta dell’Anac contro il festival del cinema.
Ha cambiato idea? Lo cerco, non riesco a trovarlo. Il mattino della proiezione per i critici di Teorema lui è in sala, e ci sono anch’io. Lui si piazza in piedi davanti allo schermo e dice al pubblico: vi prego di alzarvi e uscire con me da questa sala. Il pubblico resta seduto. Lasciamo la sala soltanto lui, io e i due critici dei Cahiers du Cinema. I due critici propongono di entrare nella cabina di proiezione e rubare le pizze, per boicottare la visione. Pier Paolo si mette a braccia aperte contro la porticina a impedire l’azione: no, dice, chi è rimasto ha diritto di vedere il mio film… si contraddiceva anche lui, aveva le sue debolezze, e questo, per fortuna, offuscava il suo fulgore… forse ha deciso di unirsi ai contestatori del festival perché si era pentito della poesia contro gli studenti di Valle Giulia. Quando è andato a parlare agli studenti di Ca’ Foscari, gli hanno sputato addosso… ma lui si è seduto lo stesso davanti a loro e ha incominciato a parlare, e sono rimasti ad ascoltarlo, affascinati». (...)
- Mi chiedo come sarebbe invecchiato, nel paese pesante, dei suoi vaticini realizzati. Bertolucci l’ha detto subito, appena sono entrata nel suo salotto: «Non saprei dire come si situerebbe politicamente adesso», quasi a mettere le mani avanti (...) Dopo di lui, chi ha avuto ancora l’energia di farsi maestro o iniziatore, un po’ sacerdote, un po’ guru, un po’ fratello maggiore? Lo chiedo a Bernardo, campione di velocità nel superare il maestro: «E tu, non ne hai mai allevati ragazzini di genio?».
- «Non solo non l’ho mai fatto, ma l’ho ferocemente rifiutato. Stephen Frears, che è un mio buon amico, mi ha proposto di insegnare nella sua scuola di cinema. Ed è una delle migliori scuole del mondo. Gli ho risposto: come faccio a insegnare se non ho ancora finito di imparare? Naturalmente mentivo. La verità è che sono ancora là, trafitto come una farfalla in una bacheca, fermo a quel momento in cui l’allievo ero io e il maestro era Pasolini… Quando ho scoperto il mio terzo padre, Jean-Luc Godard, Pier Paolo, infatti, era un po’ irritato… andava a vedere i suoi film, ci andava con i suoi amici di borgata, poi mi telefonava e diceva: dovevi sentire come ridevano i miei amici! Però due o tre anni dopo, scrive quella poesia con il leitmotiv “come in un film di Godard”», ripetuto infinite volte.
- Anche lui ti deve qualcosa…
- «Forse sì, alcune sciocchezze, di cui vado molto fiero… Uno degli ultimi giorni di ripresa di Accattone, eravamo in macchina insieme. Io vedo Alfredino e il Patata che ballano insieme in un baretto di periferia, all’aperto, alla musica di un juke-box… il rock’n’roll… il twist… gli dico: perché non lo giri, è bellissimo… lui rifiuta: no, dài, perché, non ha senso… io mi azzittisco pieno di vergogna… tre anni dopo, quando gira La ricotta e io non lavoro più con lui da un pezzo, incomincia esattamente con quella scena lì… Dopo il rifiuto, il recupero. La cosa era diventata sua».
«È l’aritmetica di un rapporto felice: dare, ricevere. Né debito, né credito. Scambio. Io quasi tremavo di ammirazione nei suoi confronti, lui lo sapeva. Era contento. E tutto avveniva a un diapason così alto».
- La sua morte?.
- «Pier Paolo è stato processato, assolto, processato di nuovo, linciato, minacciato, ricattato… è stato un delitto di Stato, non intendo nel senso dei servizi deviati o di qualche trama nera, ma provocato stimolando l’anima fascista di quel periodo… gente che pensava di fare un po’ di pulizia morale nel paese. I fascisti lo odiavano».
- E i comunisti non lo difendevano. Anche in questo la morte di Pasolini rispecchia la sua vita e la sua opera: nella spartizione faziosa del mondo, non apparteneva né a una parte né all’altra. Artista fino in fondo, esercitava il suo sguardo severo contro tutti. Nessuno, perciò, lo proteggeva e lui pure, non sapeva proteggersi da se stesso.
- Bernardo, com’è stato, quel giorno?.
- «Stavo montando Novecento, lui aveva quasi finito di mixare Salò, era un giorno di festa, dormivo fino a tardi… Suona il campanello, qui, in questa casa. È mio fratello Giuseppe, che mi guarda con l’imbarazzo malinconico di chi deve dare una brutta notizia. Mi dice: pare che abbiano trovato Pier Paolo morto. È un dolore pesantissimo. Negli ultimi tempi ci vedevamo meno spesso. C’erano state le ombre fisiologiche che appartengono all’amicizia stessa. Mi piomba addosso una valanga di sensi di colpa. L’unico modo che trovo per superare questo dolore è stare il più vicino possibile alla sua bara... Sono uno dei
sei che lo portano dalla Casa della Cultura alla piazza Campo de’ Fiori… Gli altri sono tutti più bassi di me, i fratelli Citti, Ninetto Davoli… la bara è fuori squadra, pesa tutta sulla mia spalla, che è più alta… è come se lo portassi da solo… il dolore alla spalla mi dura per quasi un anno, sono quasi contento, lo dedico tutto a lui… e sono certo che questo ricordo l’avrebbe fatto ridere buttando la testa all’indietro, senza suono, come faceva lui»
Bernardo Bertolucci "Pier Paolo il maestro. Anzi, mio padre" un'intervista da Lidia Raverain "La scrittura el’impegno" Micromega. L'Unità giovedì 27 ottobre 2005, p.23
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