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Pier Paolo Pasolini. Sviluppo e progresso, un testo del 1973.


Pier Paolo Pasolini 1975 © Centro Apice, MIlano.Fondo fotografico del quotidiano La Notte /Tutti i diritti riservati

Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi : anzi sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste due parole sono “sviluppo” e “progresso”. Sono due sinonimi? O, se non sono due sinonimi, indicano due momenti diversi di uno stesso fenomeno? Oppure indicano due fenomeni diversi che pero’ si integrano necessariamente fra di loro? Oppure, ancora, indicano due fenomeni solo parzialmente analoghi e sincronici? Infine; indicano due fenomeni “opposti” fra di loro, che solo apparentemente coincidono e si integrano? Bisogna assolutamente chiarire il senso di queste due parole e il loro rapporto, se vogliamo capirci in una discussione che riguarda molto da vicino la nostra vita anche quotidiana e fisica.


Vediamo: la parola “sviluppo” ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di “destra”. Chi vuole infatti lo “sviluppo”? Cioè chi lo vuole non in astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? E’ evidente: a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo “sviluppo”, in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui.


La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui sono da parte loro irrazionalmente ed inconsapevolmente d’accordo nel volere lo “sviluppo” (questo “sviluppo”). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abbiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”.


La “massa” è dunque per lo “sviluppo”: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita.


Chi vuole, invece, il “progresso”? Lo vogliono coloro che hanno interessi immediatamente da soddisfare, appunto attraverso il “progresso”: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e dunque è sfruttato.


Quando dico “lo vuole” lo dico in senso autentico e totale (ci può essere anche qualche “produttore” che vuole, oltre tutto, e magari sinceramente, il progresso: ma il suo caso non fa testo). Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e politica): la dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una “sincronia” tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile (a quanto pare) un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo.


Qual è stata la parola d’ordine di Lenin appena vinta la rivoluzione? E’ stata una parola d’ordine invitante all’immediato e grandioso “sviluppo” di un paese sottosviluppato. Soviet e industria elettrica… Vinta la grande lotta di classe per il “progresso” adesso bisogna vincere una lotta, forse più grigia ma certo non meno grandiosa per lo “sviluppo”. Vorrei aggiungere però – non senza esitazione – che questa non è una condizione obbligatoria per applicare il marxismo rivoluzionario e attuare una società comunista. L’industria e l’industrializzazione totale non l’hanno inventata né Marx né Lenin: l’ha inventata la borghesia. Industrializzare un paese comunista contadino significa entrare in competitività coi paesi borghesi già industrializzati. E’ ciò che, nella fattispecie, ha fatto Stalin. E del resto non aveva altra scelta.


Dunque la Destra vuole lo “sviluppo” (per la semplice ragione che lo fa); la Sinistra vuole il “progresso”. Ma nel caso la sinistra vinca la lotta per il potere, ecco che anch’essa vuole – per poter realmente progredire socialmente e politicamente – lo “sviluppo”. Uno “sviluppo”, però, la cui figura si è ormai formata e fissata nel contesto dell’industrializzazione borghese. Tuttavia, qui in Italia, il caso è storicamente diverso. Non è stata vinta nessuna rivoluzione.


Qui la sinistra che vuole il “progresso”, nel caso che accetti lo “sviluppo”, deve accettare proprio questo “sviluppo”: lo sviluppo dell’espansione economica e tecnologica borghese. E’ questa una contraddizione? E’ una scelta che pone un caso di coscienza? Probabilmente si’. Ma si tratta come minimo di un problema da porsi chiaramente: cioè senza confondere mai, neanche per un solo istante, l’idea di “progreso” con la realtà di questo “sviluppo”.


Per quel che riguarda la base delle Sinistre (diciamo pure la base elettorale, per parlare nell’ordine dei milioni di cittadini), la situazione è questa: un lavoratore vive nella coscienza l’ideologia marxista, e di conseguenza, tra gli altri suoi valori, vive nella coscienza l’idea di “progresso”; mentre, contemporaneamente, egli vive, nell’esistenza, l’ideologia consumistica, e di conseguenza, a fortiori, i valori dello sviluppo. Il lavoratore è dunque dissociato. Ma non è il solo ad esserlo.


Anche il potere borghese classico è in questo momento completamente dissociato: per noi italiani tale potere borghese classico (cioè praticamente fascista) è la Democrazia cristiana. A questo punto voglio però abbandonare la terminologia che io (artista!) uso un po’ a braccio e scendere ad un’esemplificazione vivace.


La dissociazione che spacca ormai in due il vecchio potere clerico-fascista puo’ essere rappresentata da due simboli opposti, e, appunto inconciliabili: “Jesus” (nella fattispecie il Gesù del Vaticano) da una parte, e i “blue-jeans Jesus” dall’altra. Due forme di potere l’una di fronte all’altra: di qua il grande stuolo dei preti, dei soldati, dei benpensanti e dei sicari; di là gli “industriali” produttori di beni superflui e le grandi masse del consumo, laiche e, magari idiotamente, irreligiose.


Tra l’Jesus del Vaticano e l’Jesus dei blue-jeans, c’è stata una lotta. Nel Vaticano – all’apparire di questo prodotto e dei suoi manifesti – si sono levati alti lamenti. Alti lamenti a cui per il solito seguiva l’azione della mano secolare che provvedeva a eliminare i nemici che la Chiesa magari non nominava limitandosi appunto ai lamenti. Ma stavolta ai lamenti non è seguito niente . La longa manus è rimasta inesplicabilmente inerte. L’Italia è tappezzata di manifesti rappresentanti sederi con la scritta “chi mi ama mi segua” e rivestiti per l’appunto dei blue-jeans Jesus. Il Gesù del Vaticano ha perso.


Ora il potere democristiano clerico-fascista si trova dilaniato tra questi due “Jesus”: la vecchia forma del potere e la nuova realtà del potere…


Pier Paolo Pasolini. Sviluppo e progresso, 1973. L’articolo non fu pubblicato dal «Corriere della Sera», ma fu raccolto negli Scritti Corsari.
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