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Tête-a-tête avec Pier Paolo Pasolini. Un'intervista del 1970.


Pier Paolo Pasolini (1962-1965) © A.Saderman/Tutti i diritti riservati

LV: Sei stato spesso accusato di essere un pornografo. Questo ti dà fastidio?


PP: Le persone che dicono che i miei film sono pornografici gettano sospetti su se stessi. Comunque, non ho nulla contro i film pornografici. Appartengono a un tipo di sottocultura, ma questo non è un motivo per vietare ai loro registi o produttori di realizzarli, perché sarebbe repressione. Forse, un giorno, se ci sono troppi film del genere o sono prodotti troppo male, nessuno andrà a vederli. È la politica del peggio, della saturazione…


LV: È stato detto che molte volte che lei ha tre ‘idoli’: Cristo, Marx e Freud… Che cosa ci risponde?


PP: Che sono soltanto formule. La realtà è il mio unico idolo. Se ho scelto di fare il cinema, oltre che scrivere libri, è stato perché, invece di esprimere questa realtà con dei simboli come sono le parole, ho preferito servirmi di un altro mezzo, che è il cinema, per poter esprimere la realtà con la realtà.


LV: Potrebbe esprimere con le parole, così come lei la percepisce soggettivamente, la realtà dei giovani d’oggi, che, a quanto sembra, l’appassiona?


PP: La gioventù, se non altro una certa gioventù che rappresenta la maggioranza, la massa uniforme della società attuale, ha perso del tutto il desiderio di cultura. È ignorante e non vuole ammetterlo. E il pericolo sta nel fatto che essa trasforma la propria ignoranza in una ideologia, una barricata dietro la quale si nasconde scandendo i suoi slogan. Soltanto una minima percentuale di studenti ha letto Proust, Sartre o Marcuse. La cultura è arrivata al punto di saturazione. Ogni letteratura è una letteratura da ‘papà’.


LV: Perché il rifiuto della cultura?

PP: Perché la cultura coincide con il padre, la madre, la Chiesa, tutti i tabù della famiglia e della società. È sempre stato così. La gioventù ha sempre rinnovato la cultura a cominciare da quella del padre. Si opponeva al padre, il che implicava un sentimento di angoscia, un presagio di morte, un masochismo mitico. Uccidere il padre, anche sotto questa forma, rappresenta un masochismo assoluto, un costante senso di colpa. Oggi solo un’élite osa opporsi alla cultura del padre. Il suo sentimento di morte si è moltiplicato in questo mondo barbaro fatto di città-prigione, di autostrade implacabili, di cattivo cinema, di cattivi programmi televisivi, di informazioni false e povere di contenuto. La tecnica nega l’arte. Bisogna servirla, la tecnica, altrimenti è l’angoscia, la morte. Si impone, annienta ogni sentimento che non sia pronto a sottostarle. Uccide l’umanità, vale a dire l’umano nell’uomo. Fermarsi, rifiutare una situazione, cercare per altre vie, porsi degli interrogativi, in una parola educarsi, significa sottoporsi a una tale tensione, a una marcia controcorrente così faticosa che solo un’élite (e domani una superélite) potrà permettersi, accettando la morte, il retaggio sociale di affrontare il problema. Ecco perché la gioventù tace, si limita ad andare avanti con gli occhi fissi sulle tracce della macchina. Avanza al suono di una marcia fatta di cattiva musica, con l’attenzione requisita da una televisione retrograda, incoraggiata da un cinema spesso innominabile, da una sessualità anarchica. Non è musica d’arte o d’amore, questa, ma uno sterile balbettio che obbliga la gioventù a rifugiarsi nella produttività consumistica. Ecco perché la gioventù tace ed è lei, del resto, che scrive la storia.

LV: L’amore potrebbe migliorare questa situazione drammatica?

PP: La società non vuole più amore. Lo rifiuta, perché l’amore si oppone al lavoro e allenta i tempi di produzione. Era necessario infangare l’amore, la propria dignità, il rispetto di se stessi. Tuttavia anche l’amore può essere utilizzato, ma per aumentare la produttività. Si vendono macchine? No. Si vende l’immagine di una coppia che si abbraccia sui sedili: ecco che cosa mettono in mostra i manifesti, che cosa propone la pubblicità. Una donna nuda sul tetto di una macchina e noi compriamo l’automobile. Di che colore? Rosso! Non ci ricordiamo neppure della marca. Negli Stati Uniti, paese tecnicamente più progredito del nostro, i giovani protestano contro la tecnica per mezzo dell’antitecnicismo. E allora nascono il fenomeno hippy, i capelloni, la comunità che può divenire concentrazionaria, la rivolta rabbiosa manifestata con l’azione.

LV: Dunque non è necessario far rivivere l’amore? Non si può tentare di esaltare la coppia?

PP: E perché? Non ho mai visto la coppia così trionfante e così sublimata come oggi. Persino nei movimenti studenteschi, a Roma, Milano, Parigi, non ho mai visto per le strade così tanti contestatori dei due sessi marciare sotto braccio. E non ho visto affatto contestatori baciarsi, uomini far la corte ad altri uomini, donne ad altre donne. La gioventù è profondamente moralista. Riproduce il moralismo del padre, della società. L’eros libero, etero o omosessuale, anarcoide, esiste forse nell’alta borghesia, ma allora non è che una deviazione ipocrita.

LV: Poiché per lei non esiste la coppia, pensa allora che sia meglio vivere soli o in gruppo?

PP: È una falsa alternativa. Una trovata ipotetica, sulla falsariga dei modelli antichi. La solitudine rappresenta l’ascesi, la santità. Si tratta di una reazione feudale ed egocentrica, la paura di affrontare il problema. Vivere in gruppo è una forma di suicidio, spesso è la droga, questa specie di fittizia parete divisoria che si frappone tra te stesso e il prossimo; altra solitudine che serve a ritrovare la solitudine nella tomba, poiché non si è mai soli finché non si è morti.


Anche drogarsi significa rifiutare la cultura. I giovani si drogano per automatismo, per autodistruzione e per trovare attenuanti alla loro sottocultura. Anche Cocteau si drogava, ma lo faceva per la sua cultura. Per i giovani è diverso, la droga non li rende certo inclini alle cose migliori. Nel delirio dell’hascisc, della marijuana esaltano la cattiva pittura o il cinema scadente uscito dalle caves… l’unico consiglio che posso dar loro è quello di farsi una cultura: poi, se ne sono ancora capaci, prendano pure la droga. Ma non bastano blue-jeans e maglioni per diventare Sartre, né un pizzico di polverina per diventare Aldous Huxley…

LV: E lei, che cosa faceva alla loro età? Com’è stata la sua gioventù?

PP: Dare delle spiegazioni, rifare il mondo parlando di me, scusarmi guardandomi alle spalle, molto indietro nel tempo, dire ‘nacqui’, ‘vissi così e così’, coniugarmi al passato remoto… no, non posso. Non ne ho né la forza fisica né quella morale necessarie. Bisognerebbe poter rivivere ogni secondo, riprovare le sensazioni di allora. Le autobiografie sono sempre false, perché compiacenti o suicide; le biografie, almeno una verità ce l’hanno: come si vuole far apparire gli altri (…)

LV: Qual è la sua definizione dell’amore?

PP: Quando manca l’amore la gente cessa di vivere. Viene annientata. È la malinconia, la fine di tutto. La società se n’è accorta ed ecco perché cerca tanto di esaltare l’amore. È una chiave della produttività. Senza l’amore l’uomo non può produrre. Però, nello stesso tempo, ogni tipo di società reprime il mondo sessuale, perché l’energia che l’uomo consuma nel fare l’amore non va a beneficio del capitale. Ogni società è innanzitutto puritana; noi crediamo di vivere in un periodo di piena libertà sessuale, è un’illusione. Il giorno in cui l’umanità avrà raggiunto la completa industrializzazione assisteremo all’avvento di un drastico moralismo pari a quello delle società più arretrate. Se hanno inventato le ore di lavoro straordinario non è stato per impedire i rapporti sessuali ma per regolamentarli secondo norme sociali. Così l’amore è diventato la ricompensa al lavoro fornito per lo sviluppo dell’industrializzazione.

LV: Allora l’amore diventerà il simbolo del frutto proibito?

PP: La società impedisce di conoscere la potenza dell’amore e di applicarla veramente. Insinua nell’individuo un concetto falso dei suoi desideri e della sua libido. Vuole che l’uomo abbia dell’amore un’idea sbagliata, come l’ha di se stesso.

LV: Non pensa che l’uomo cerchi per disperazione di oltrepassare i propri limiti sessuali?

PP: Chi vuole far questo si perde all’infinito. L’aldilà dell’amore è la follia. Fortunatamente esiste l’economia sessuale, un dispositivo di sicurezza, di correzione. Oltre un certo limite l’eros si autoblocca.

LV: Può esserci amore senza rapporti sado-masochisti?

PP: Nemmeno per idea. Ma chi ha cominciato per primo, Sade o Masoch? È la vecchia storia dell’uovo e la gallina. L’equilibrio di queste due forze è la risultante dell’equilibrio umano.

LV: Nel realizzare i suoi film, specialmente Teorema, ha avuto l’impressione di fare un’opera utile?

PP: Non mi interessa, non è questo il mio scopo. Io non voglio essere né paternalista, né pedagogo, né propagandista, né apostolo… Quando un’opera culturale diventa scienza, cessa di essere cultura. La psicoanalisi non è cultura, ma scienza applicata. Studiare l’energia atomica e costruire bomba H non è affatto la stessa cosa. Soltanto il contenuto interiore di un’opera è utile, per questo ogni opera autentica, più che utile, è terapeutica.

LV: Lei afferma decisamente che la coppia non esiste più. Ma in senso fisiologico come è possibile negarne l’esistenza?

PP: Certo, fisiologicamente non possiamo negare la coppia, l’accoppiamento. Ma considerata come nucleo familiare la coppia non esiste più. Il neocapitalismo non ha più bisogno della famiglia, come non ha più bisogno della Chiesa. Le lascia in vita, ecco tutto, e quelle sopravvivono. L’educazione dei figli oggi non avviene più nella famiglia, ma nel gruppo. Sì, credo proprio che la nostra generazione stia assistendo alla fine di un mondo. La base della società ha assunto altri valori, è divenuta un rapporto tra consumatore e produttore. Perché i giovani scappano da casa? Lo conosco bene il problema. Ne ho incontrati un sacco e ho parlato con tutti. Il movente è sempre quello di vent’anni fa: miseria, genitori che non vanno d’accordo, sempre le solite ragioni, classiche, anarcoidi, arcaiche, retrograde. Ma questi giovani non conoscono il proprio problema e nascondono la vera causa dietro simboli di avanguardia: libertà, ricerca di assoluto, contestazione. Ho conosciuto un ragazzo di vent’anni che era scappato di casa. Ha parlato con me e io l’ho ascoltato. Poi gli ho detto chiaramente: “Sei scappato di casa perché hai preso una cotta per la tua matrigna e volevi dare l’amore con lei”. È rimasto annientato, non voleva confessare la verità. Diceva che l’aveva fatto perché voleva venire a Roma a contestare con gli studenti. Nascondeva la sua rivolta freudiana dietro una rivoluzione sociale. E oltre a questo, la sua fuga aveva un motivo più attuale: voleva inserirsi nella vita di gruppo e riceverne un’educazione. Ogni ragazzo, per imporsi nel gruppo, contesta con e contro gli altri, e così facendo si porta dietro le vecchie abitudini: moralismo, utilitarismo. Ora, per un vero rivoluzionario niente è utile o inutile, quel che conta è l’azione. L’utilità è ancora una nozione borghese.

LV: Qual è il suo atteggiamento davanti al fenomeno dell’omosessualità?

PP: Ho già detto che la coppia, considerata come nucleo familiare, è ormai un’eresia, un’alienazione. Dal momento che la coppia è codificata si autodistrugge. La società rifiuta tutto ciò che non è codificato perché potrebbe mettere in crisi i suoi statuti. L’omosessualità minaccia la società ed è inconcepibile in qualsiasi organismo o comunità, anche tra i più conformisti. Pensiamo soltanto all’omosessualità alla Fiat. Perché dal momento in cui si accetta la nozione di non-coppia, di non-famiglia, si deve rifiutare l’amore verso l’altro, chiunque sia, di qualunque razza e sesso si presenti? Nella società la donna è stata sempre considerata un essere inferiore. Essa nasce con una sua precisa funzione prestabilita: fare figli. Se i nazisti non avessero avuto bisogno delle donne per questa funzione, se la società fosse stata completamente industrializzata, è probabile che essi avrebbero chiuso nei lager i polacchi, gli ebrei, gli zingari e le donne. Se non lo hanno fatto è stato per ragioni pratiche, per fabbricare figli: dico fabbricare, non mettere al mondo. La donna per loro esisteva in quanto macchina di riproduzione. Ma l’omosessuale, che è socialmente improduttivo? La sua sorte è ancora peggiore. È un respinto e per questa sua condizione dovrebbe o accettare la ripulsa, e soffrirne, o andare controcorrente, e soffrire lo stesso.

Normalità e anormalità sono ancora nozioni borghesi. L’unica anormalità che la società capitalistica tollera ancora è la donna. Raramente essa cerca o riesce a scuotersi di dosso la sua condizione di esclusa. La società fa di tutto per impedire alla donna di essere libera, e quando le permette di svolgere attività o professioni tipicamente da uomini, bisogna vedere di quali uomini si tratta e come vengono considerate le donne in questione. Basta guardare i programmi televisivi: vi sembra che possano emancipare la donna? L’unica libertà che le viene concessa è una libertà sessuale che in effetti è il contrario della libertà, è una forma di repressione sadica. La serie di film erotica lo dimostra a sufficienza. Essi servono, tutt’al più, a conservare i bassi istinti freudiani e nello stesso tempo a far prosperare la produttività nell’avvilimento, con le ore di straordinario, il risparmio, ecc.

La donna sarà la risultante di questo sistema di lavoro, il ricettacolo dei bisogni creati dalla società Ecco perché io cercherò sempre di indirizzare la donna per restituirla a se stessa senza nessun condizionamento. Per me una donna ha tutto il diritto di essere liberata, e pura, e idealizzata, come mia madre.

LV: Ama la vita?

PP: L’amo ferocemente, disperatamente. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza, con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.


LV: Perché i tuoi film sono scandalosi?


PP: Perché sono scandaloso anch'io, come ti ho spiegato prima. Perché sono scandaloso, come ho spiegato prima. Sono scandaloso perché ho un cordone, un cordone ombelicale, tra il profano e il sacro.


Louis Valentin. "Tête-a-tête avec Pier Paolo Pasolini" su "Lui magazine", Parigi, giugno 1970, p.12. Traduzione dal francese: Silvia Martín Gutiérrez, curatrice di Città Pasolini
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