Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini si sono intervistati a vicenda, al teatro via Manzoni, all’affollatissimo “Lunedì letterario” dell’ACI. Il discorso è partito dalle esperienze linguistiche, dall’irruzione dialettale della narrativa italiana moderna e si è allargato con vari riflessi sociali e ideologici a tutto il campo del romanzo.
Pier Paolo Pasolini con Alberto Moravia a Roma (1961) © Licio D'Aloisio/Reporters Associati/Riproduzione riservata
Prima Moravia ha chiesto a Pasolini perché usa il dialetto, e lo scrittore ha spiegato quale importanza ha per la sua concezione del realismo la ricerca oggettiva – perfino filologica, ha affermato, accettando con una sfumatura di orgoglio una critica che gli viene rivolta spesso – del linguaggio romanesco che incontra nel sottoproletariato, anzi nella malavita.
Un tempo, prigioniero di tendenze decadenti – le stesse tuttora predominanti in Italia – Pasolini cerò nel dialetto friulano, scrivendo versi nella casa materna, una lingua ideale e irreale. La guerra, la Resistenza, il contatto con molte altre realtà, hanno capovolto la posizione. Si può essere oggettivi anche senza dialetto – ha ammesso Pasolini – e anche senza il romanesco: ma è un fatto che quest’ultimo sta colorando di accenti e inflessioni proprie tutta la lingua italiana: basta pensare ai film.
La vivace reazione dell’uditorio ha provocato a questo punto un intervento di Moravia, il quale ha ribadito che non si trattava di un giudizio ma di un fatto: la radio, la televisione, il cinema, prodotti prevalentemente romani portano una coloritura linguistica inconfondibile in tutto il Paese. Egli ha chiesto poi a Pasolini di dichiarare se nella sua prosa avesse mai riconosciuto elementi di decadentismo e ancora l’intervistato ha ammesso di sì: ma soltanto nella superficie, nella crosta, non in ciò che conta e che marxisticamente – sua posizione dichiarata – si definisce l’asse ideologico, cioè la coerenza con il realismo socialista.dichiarata – si definisce l’asse ideologico, cioè la coerenza con il realismo socialista.
La ultima domanda a questo punto era, fatalmente, se Pasolini considerasse la produzione degli scrittori sovietici come l’esempio del realismo socialista. L’intervistato ha risposto che per quanto è a sua conoscenza gli sembra una produzione di valore scarso; e ha legato questa affermazione con una critica aspra del dogmatismo e del tatticismo imposti agli scrittori sovietici ai tempi di Stalin. Per questa strada, egli ha definito la propria posizione ideologica e letteraria. Rifiuto della lingua tradizionale in quanto espressione di una classe dominante borghese, ricerca del dialetto come conseguenza di una visione classista, cioè come mezzo per decrivere le classi, l’ambiente che interessano lo scrittore.
Toccava adesso a Moravia la parte dell’intervistato, e la prima domanda è stata questa: c’era già un problema cosciente di lingua nel romanzo che lo rese celebre “Gli indifferenti”, ad appena diciassette anni? Moravia ha detto che la sua reazione fu istintiva, di fronte ad una letteratura aulica – di Restaurazione, l’ha definita – sentì il bisogno di usare un linguaggio familiare. Il problema di allora fu l’oggettività. Per raggiungere questo fine si propose di sfruttare i dati tecnici della tragedia, come rapporto fra l’eroe e la realtà. Rapporto che non riesce mai ad essere immediato, ma che può stabilirsi con diverse mediazioni: quella della sensibilità, e siamo nel decadentismo; quella di una ideologia, e siamo in una visione classica. “Gli indifferenti” furono, da questo punto di vista, la prova di un fallimento, perché l’eroe, il protagonista non trova il rapporto con l’ambiente: ed è il fallimento dei criteri borghesi.
Moravia scrisse il romanzo in terza persona, e poi non usò più questo sistema: la terza persona implicava un mondo comune, giudizi comuni, e a lui invece parve indispensabile raccontare d’allora in poi, attraverso un protagonista, in prima persona. Non fu un abbandono dell’ideale classico, oggettivo, ma consapevolezza che il mondo sotto la spinta del pensiero e della scienza s’era frantumato in infiniti mondi personali, alcuni immensi, altri minimi, ma tutti diversi Lo scrittore può dire solo quello che sa, senza cadere per questo nel decadentismo, la frattura avvenuta nella realtà lo giustifica.
Quale è dunque l’ideologia di Moravia? – ha chiesto a questo punto Pasolini. E lo scrittore ha spiegato che la sua opera non obbedisce ad un metro spirituale o morale definito, ma li assorbe e li esprime man mano che li coglie nella realtà. Fu Moravia comunque un esistenzialista ante litteram, rendendosi conto che era impossibile porre la realtà in termini morali, e che esistevano invece nella frattura del mondo comune due gigantesche apertura, dovute a Marx e Freud, i quali distrussero rispettivamente l’innocenza del sistema economico liberalistico e l’innocenza della famiglia. Il fallimento dell’antica convenzione, il riconoscimento di due fatti come il sesso e il denaro dettero vita appunto a “Gli indifferenti”.
È possibile allora un realismo borghese? – ha chiesto infine Pasolini – E Moravia ha risposo affermativamente, ammettendo che il marxismo offra uno strumento critico anche a chi resta al di qua del confine borghese. Si può concepire un realismo che consiste anche nella sola diagnosi. E d'altro’de in ogni critica è implicito sempre un contatto, una certa dose di ottimismo.
Anonimo Lingua e realismo nella narrativa italiana, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini al "Lunedì letterario" dell'ACI, 22 marzo 1960 © Il Corriere della Sera
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