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  • Immagine del redattoreCittà Pasolini

Il fango di Pasolini. Carlo Bo recensisce "Una vita violenta" (1959)


Pasolini in borgata. Close-up © Carlo Bavagnoli (1969) LIFE/Riproduzione riservata


Il giovane Pier Paolo Pasolini è uno scrittore famoso, non c'è bisogno di presentarlo. In qualche modo la sua attività di narratore, di poeta e di saggista, appartiene alla cronaca. Quello che fa, viene subito commentato e interpretato, insomma, costituisce una piccola misura di confronto. Ha i suoi ammiratori, i suoi fans e, naturalmente, i suoi bravi nemici. È appena al suo secondo romanzo ed ecco che "Una vita violenta" (edizione Garzanti) rappresenta già un fatto, un piccolo avvenimento letterario.


Immagino che molto lettori avranno già letto il libro e si saranno quindi fatta la loro buona opinione. Meglio così, tanto più che il libro si presta a un discorso di carattere generale sui confini della letteratura. Uno scrittore dive dire tutto oppure deve rispettare dei limiti? Non è la prima volta che Pasolini si sente fare domande del genere: quando cinque anni fa pubblicò "Ragazzi di vita", la questione finì addirittura in Tribunale e, per conto mio, non ebbi paura di testimoniare in suo favore.


Ci sono delle ragioni artistiche che vanno risolte senza polemica, senza irritazione di scandalo, beninteso quando sia palese la volontà di far luce sulle cose e non già quella vergognosa di sfruttare la miseria della vita per invitare al vizio e alla degradazione morale.


Il nuovo romanzo segna un piccolo punto all'attivo: l'ambiente è ancora lo stesso, gli uomini di Pasolini stanno sempre per affogare nello stesso lago di "fanga"; ma c'è un filo di speranza, c'è una luce che tocca il cuore di questi incredibili disgraziati. Diciamo subito che non tutto ci persuade di questa indiretta e minuscola conversione all'umano, ma valga l'intenzione dello scrittore di restituire a questa sotto umanità il segno del riscatto: non c'è riscatto, c'è però la sensazione che un giorno verrà anche per i diseredati una spezie di piccola risurrezione, o soltanto ci sarà la possibilità di riprendere il cammino in comune, di non sentirsi più soltanto bestie, animali, e animali privi di qualsiasi forma di pietà.


Coperta illustrata a colori da Fulvio Bianconi

Perché questa è la condizione umana dei personaggi pasoliniani, di cui noi siamo i primi e diretti responsabili quando il lettore è attanagliato dal disgusto e sente crescere dentro l'insofferenza per lo spettacolo di assoluta miseria che gli viene offerto, quando è soffocato dallo schifo, non deve limitarsi a condannare, a rifiutare: è opportuno che prima di tutto faccia un piccolo esame di coscienza. C'è una comunione dei santi anche in questo senso, e chi ha avuto della vita premi, luci, soccorsi, non può fermarsi alla condanna, al desiderio di chiudere gli occhi. Questa sotto umanità che si è data convegno con la guerra alla periferia di Roma è, si, un risultato di una situazione straordinaria, ma è un po' anche una nostra colpa: certe macchie non si allargano a tal punto se la coscienza della comunità non lo permette.


A questa parte di denuncia, che il Pasolini cerca di tenere nei confini della restituzione artistica, corrisponde purtroppo un'altra parte di eccesso, di ossessione, che supera la possibilità del nostro giudizio artistico. Se è vero che il testo passato alle stampe non è integrale e deve mutilazioni e correzione all'autocensura, è chiaro che noi giudichiamo in condizioni sfavorevoli. Potrebbe darsi, cioè, che nella visione generale questo eterno tenere il pedale sul nero, sul fango della vita, acquistasse un valore, una giustificazione: oggi invece, non sempre l'equilibrio sembra rispettato e ci sono degli episodi che nulla aggiungono alla verità delle cose, al contrario, restituiscono lo sforzo, addirittura, la fredda compiacenza dell'operatore. Pasolini affonda il bisturi nella polpa della nostra vergogna, senza lasciar trapelare un momento di dubbio, d'incertezza: qui la descrizione del male, per essere valida, non ha da essere completa, basta una sapiente allusione. Il Manzoni ha insegnato come in una frase si possa raccontare una vita di delitti e di colpe. In Pasolini invece, l'eccesso, la minuzia, la passione scientifica della realtà, non aggiungono nulla alla storia che racconta: un bubbone, per quanto descritto, per quanto analizzato, non annulla il male, non ci porta avanti nella conoscenza della verità. Perché questo dovrebbe essere lo scopo di ogni scrittore e quindi anche di Pasolini: interpretare, capire, far capire, e non soltanto presentare le cose allo stato minimo delle cognizioni umane.


La storia è semplice: è la storia di un giovane sfollato; Tommaso Puzzili, che dalla tempesta della guerra è stato sbattuto alle baracche che circondano Roma, insieme al padre scopino e al resto della famiglia. La miseria, la fame, e la morte, accompagnano i suoi primi passi nella vita e ogni sorta di vizi. Pasolini intende raccontare non già la storia del riscatto di Tommaso, quanto la storia delle possibilità che ha avuto in questo senso. Il risultato è negativo, la morte interromperà la difficile resurrezione e l'ultima parola dello scrittore: "addio Tommaso" ha valore di simbolo. Che cosa poteva dare del resto un ragazzo nelle sue condizioni? L'unica evasione era il vizio e qui lo scrittore dimostra di possedere una sicura scienza del cuore umano, dal momento che non ci presenta un fantoccio: il suo Tommaso percorre la strada del riscatto con difficoltà, con fatica, per cadute, e sono proprio le cadute a farci vedere che Pasolini non ha abboccato alla trappola del romanzo a tesi, e ciò, nonostante certe sospette cadenze sentimentali.


Ma torniamo a Tommaso, lo vediamo imbrancato in una squadra di piccoli delinquenti, nostalgici del fascismo in politica, assaltatori di distributori di benzina e tripudianti nelle osterie, nella vita. Il primo tentativo di ripresa è rappresentato da Irene, una ragazza del popolo: è un po' il sogno della tranquillità borghese che Tommaso fa confluire nel fascio dei suoi affetti e delle sue voglie. Malavita, disordine, e la prima colpa grossa: Tommaso finisce in prigione. Quando esce, la famiglia si è trasferita in una casa dell,Ina. È un momento di luce. Al registro dell'amore, all'immagine di Irene, corrisponde quello del lavoro: si sente che la vera preoccupazione del giovane è quella di trarsi fuori dal mare di fango. Ma ecco intervenire la terza nota insostituibile di quella vita: la malattia. Tomasso, tisico, viene ricoverato al Forlanini. Qui Pasolini si è servito della cronaca ed ha importato un grosso affresco sullo sciopero del sanatorio: Tommaso, che era passato per la fiamma missiva e aveva vagheggiato l'opportunità di iscriversi al partito dominante (al punto di far visita a un prete) adesso è affascinato dal "pannaccio rosso", in cui vedrà alla fine "brillucciare un po' di speranza". Ma neppure questa ultima chimera lo salva dalla catena di miseria e del vizio: questo, per me - lo ripeto - è il punto più autentico del libro, anche se lo scrittore fa di tutto per portare lo sgomento a un grado di dolore bruciante. La morte chiuderà quella vita violenta, ma la morte nel letto di casa, e qui ritroviamo la figura autentica di Pasolini, di questo scrittore che pensa di restare col suo cuore di poeta a contemplare il fiore che sboccia ai margini della palude. Questa forse è l'obbiezione più grave che si possa muovere alla sua morale: il nostro cuore è libero di fare queste scelte nell'ordine di tempo che vuole? Qual è la strada vera che allaccia e spiega lo spazio che vive fra il male e il bene? Lo scrittore deve limitarsi a registrare la scena della vita, o deve trovare un centro, fare intravedere un'unità?


Qui siamo di fronte a un curioso equivoco (dove beninteso non entra la perizia dell'artista) che probabilmente è legato a una ragione sociale: non è un mondo organizzato, quello che Pasolini vuole restituire, è un mondo senza argini, dove gli uomini sono ridotti alla essenzialità biologica: il loro problema non è quello di esistere, ma di sopravvivere. Per forza di cose è un mondo chiuso, bloccato, senza soluzioni: di qui il meccanismo delle ripetizioni, del linguaggio che lo scrittore fotografa in maniera faticosa al lampo del dialetto, di qui quell'aria di ossessione che soffoca. Probabilmente Pasolini ha dato in questo senso tutto quello che poteva dire, direi che la sua triste epopea del miserabile (quell'uomo che in letteratura ha il suo albero genealogico, da Vallès a Rictus, da Valera a Baroja, da Cèline a Fallet) si chiude a questo punto. E, del resto, chissà che anche in quel mondo di ombre, di larve, non ci siano materie diverse, storie più definite, insomma qualcosa che non ci costringa sempre a vergognarci di noi. Pasolini lo sa dal suo Tommaso Puzzili che butta la vita per salvare una povera donna.


Carlo Bo "Il fango di Pasolini", La Stampa, 09.07.1959, p.3.
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