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Pier Paolo Pasolini. La presenza dell’India: dalla scoperta del continente indiano fino al Fiore delle Mille e una notte.

  • Immagine del redattore: Città Pasolini
    Città Pasolini
  • 18 ott
  • Tempo di lettura: 41 min

 

Un occidentale che va in India ha tutto, ma in realtà non dà niente.

 L’India, invece, che non ha nulla, in realtà dà tutto. Ma che cosa?[1]

 

 

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Pier Paolo Pasolini durante le riprese del documentario "Appunti per un film sull'India" (1968) © Federico Zanni, Roberto Nappa/Cineteca di Bologna/Tutti i diritti riservati

L’opera di Pier Paolo Pasolini Appunti per un film sull’India, girata nel 1967 e proiettata per la prima volta nella Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia l’anno successivo, inizia con un fotogramma in cui vediamo, sullo sfondo, la Porta dell'India a Nuova Delhi.[2] Questo portale, a modo di arco trionfale, è uno dei punti più importanti nella lista dei monumenti di chi vuole visitare Delhi e, di solito, anche una meta fissa per le famiglie della città in occasione delle più importanti festività indiane. Nel 1961, durante il suo primo viaggio nel continente indiano, Pasolini aveva descritto un’altra Porta dell’India, quella a Mumbai che, al suo completamento, divenne la porta cerimoniale verso l'India per i governatori.[3] La Porta dell’India è una visione degna de Le mille e una notte per il viaggiatore principiante:


Ancora ai margini di questa grande porta simbolica, altre figure da stampa europea del seicento: piccoli indiani, coi fianchi avvolti da un drappo bianco e, sui visi mori come la notte, il cerchio dello stretto turbante di stracci. Così arriviamo sotto la Porta dell’India, che, da vicino, è più grande di quanto sembri da lontano. Le porte a sesto acuto, le mura traforate, di quel materiale giallastro e smorto, si alzano sulle nostre teste con la solennità di certi atri delle stazioni nordiche.[4]


Come sempre accade con Pasolini, la scelta dei luoghi nelle sue opere, siano cinematografiche che letterarie, non è mai banale. Nel viaggiare, lui mette sempre in discussione il proprio orizzonte culturale e lo fa mediante il confronto con le nuove realtà: «Naturalmente, quando si va a visitare un paese nuovo, si hanno già dei progetti d'interpretazione, e ogni scoperta è una lotta contro questi progetti, che piano piano cadono, e vengono sostituiti da altri, quelli reali»[5]:


Tante volte sono andato a girare fuori dall'Italia, in Marocco, in Persia, in Eritrea, e tante volte avevo il problema di girare una scena in cui si vedesse una città nella sua completezza, nella sua interezza, e quante volte mi hai visto soffrire, smaniare, bestemmiare perché questo disegno, questa purezza assoluta della forma della città era rovinata da qualcosa di moderno, da qualche corpo estraneo che non c'entrava con questa forma della città, con questo profilo della città, così severo.[6]


Il 31 dicembre del 1960 Pier Paolo Pasolini fa il suo primo viaggio nel terzo mondo. Insieme all’amico Alberto Moravia si reca in India durante un mese e mezzo e, dal 16 gennaio, condividerà l’esperienza anche con Elsa Morante. L’itinerario da loro seguito comprenderà tutte le principali tappe del continente indiano: Mumbai, Aurangabad, Ajanta, Ellora, Delhi, Agra, Gwalior, Orchha, Khajuraho, Varanasi, e infine Calcutta. [7]


Questo viaggio in un paese così lontano e mitico rappresenta per Pasolini la scoperta del terzo mondo. L’India si apre davanti ai suoi occhi come un territorio arretrato e povero ma allo stesso tempo carico di una grande forza poetica, popolato da persone non ancora contaminate dall’omologazione borghese: «Mi pare che ascoltare quel canto di ragazzi di Bombay, sotto la Porta dell‘India, rivesta un significato ineffabile e complice: una rivelazione, una conversione della vita».[8]


A Mumbai, nel gennaio 1961, si tenne un convegno per commemorare il centenario della nascita del poeta bengalese Rabindranath Tagore, primo Nobel letterario non occidentale nella storia del premio.[9] Uno dei momenti salienti delle cerimonie tenutesi nella patria del poeta fu il Seminario Letterario Internazionale, organizzato con la partecipazione dell'UNESCO e dedicato all'enorme influenza di Tagore sia in Oriente che in Occidente. Ci furono anche una serie di dibattiti su religione, filosofia, ricostruzione rurale e altre questioni che interessarono il poeta, con la partecipazione di rappresentanti di ventitré paesi.[10] La partecipazione in questo evento culturale, sia di Moravia che di Pasolini, fu soltanto un pretesto per il loro viaggio in India:


Come parte della celebrazione, abbiamo programmato simposi sui diversi aspetti del ricco e variegato contributo di Tagore alla letteratura, al pensiero e alla cultura del mondo. (…) Troverete anche il gran numero di scrittori indiani che si riuniranno alla Conferenza molto appassionati ed entusiasti (…) e sensibili nei vostri confronti”.[11]


I due maggiori quotidiani italiani del tempo, «Il Corriere della Sera» e «Il Giorno», inviarono in India ad Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, che in veste di corrispondenti, dovevano approfondire sulla condizione sociale del Paese, in seguito alla recente dichiarazione d’Indipendenza e all’insediamento del presidente Jawāharlāl Nehru[12], considerato da molti come il nuovo Gandhi. Per Pasolini, Nehru ha caratteristiche contraddittorie. In un primo momento loderà la sua personale neutralità in materia religiosa, un Nehru che «non è né inglese né indiano: è un uomo del mondo».[13] Poi, denuncerà che Nehru è un indiano alloglotta perché è stato educato a Cambridge e non è affatto un prodotto autoctono della cultura indiana. Finalmente, condannerà che tra il presidente «e il suo paese si ha l’impressione che ci sia un abisso»:[14]


Dicevo all’inizio, […] che tra l’India castale e il suo leader educato a Cambridge, la differenza è talvolta addirittura un abisso. […] Chi è autoctono alla propria grammatica è capace, se è necessario, di trasgressioni, di eccezioni e di innovazioni anche scandalose, che sono però la vita di quella sua grammatica istituzionale: mentre chi a tale grammatica è alloglotta, non oserà mai affrontare trasgressioni né tentare innovazioni. La sua obbedienza alla normatività sarà pedissequa, […] come mi sembra in Nehru. È per questo che, visitando l‟India, provavo verso il suo leader, peraltro adorabile, non pochi moti di rabbia.[15]


Insomma, Pasolini dal febbraio al marzo del 1961 sul «Giorno» e Moravia dal febbraio al luglio 1961 sul «Corriere», pubblicano le sue impressioni di un viaggio che tocca gli stessi luoghi. Il risultato sono i due volumi, Un’idea dell’India di Moravia e L’odore dell’India di Pasolini, opere che rappresentano la fotografia di uno sguardo sul mondo, un manifesto di pensiero in cui entrambi si rivolgono e incontrano l'India in modo assolutamente diverso, quasi speculare. Già dai titoli si evince una grande differenza, Moravia conosce l’India attraverso un’idea, Pasolini lo fa attraverso i sensi, attraverso l’odore: «E poi l’olfato è il più animalesco dei nostri sensi e questo conferma il neo primitivismo di Pasolini».[16]


Nei suoi racconti, Pasolini prende le distanze con Moravia a chi descrive come un viaggiatore «all’inglese, molto ben documentato»[17], e anche obiettivo nelle sue opinioni, vista la distanza che ha con il mondo che osserva. L’intento di questo viaggio è per Moravia il contatto con l’Altro, con la diversità e il confronto di quest’ultima con l’Europa, ma non l’assimilazione. Lui stesso si riconosce nei modelli di Stendhal e Sterne, il primo per il suo invaghimento per i Paesi e la loro cultura, e il secondo, per l’attenzione al particolare anche minimo.


Pasolini invece entra nella narrazione in veste di narratore-protagonista e, fin dalla pagina di apertura, esterna il suo stato emotivo. Il poeta vuole cogliere la polisemia delle cose, dei sensi, dell’udito, dell’odore intesi come antecedenti ad ogni codificazione linguistica: «Pasolini, era portato a sottolineare l’esperienza personale, privata, intima, non necessariamente culturale».[18] Intervistato da Adolfo Chiesa, giornalista di «Paese Sera», Pasolini conferma l’idea di questa esperienza come viaggio fisico in cui «per un mese non ho fatto altro che vivere fisicamente, con tutti i sensi all’erta»[19]: «Sono le prime ore della mia presenza in India, e io non so dominare la bestia assetata chiusa dentro di me, come in una gabbia. Persuado Moravia a fare almeno due passi fuori dall’albergo, e respirare un po’ d’aria della prima notte indiana».[20]


Fra Pasolini e Moravia non c’era una visione unitaria sull’India ma neanche andavano d’accordo su che cos’era il terzo mondo. Infatti, le discrepanze tra di loro al riguardo sono state troppo grandi. La divergenza si trovava nel fatto che Alberto Moravia rifiutava l’idea pasoliniana di un terzo mondo rovinato dalla rivoluzione industriale, ma non solo, pensava che dalla cultura contadina non ci fosse nulla di buono da aspettarsi.[21]  Tuttavia, Pasolini capì che esisteva una sottile linea che univa spazi geografici diversi, quella linea, che partiva dalle porte di Roma e si estendeva in India per arrivare in Africa: «Questo concetto, se si identifica l’Africa con l’intero mondo di Bandung, che, diciamocelo chiaramente, comincia alla periferia di Roma[22]»: «In tutta l’India, in tutta l’Africa ho trovato delle situazioni sociologicamente simili a quelle del sottoproletariato romano e meridionale: la fine di una società agraria feudale che viene immediatamente a contatto con una società moderna in crisi».[23]


L’allontanamento di Pasolini da accurate indagini storiche e culturali gli consente di presentare acute interpretazioni di fenomeni socio-culturali. Questo spiega perché l’autore non condanni la rassegnazione del popolo indiano alla povertà: «Dall’India si torna grondanti, bagnati, sporchi di pietà.[24] Per Moravia, invece, millenni di miseria li hanno abituati alla miseria»[25]:


Già il fenomeno dell’accattonaggio suggerisce il sospetto che la povertà in India non sia un fatto contingente e rimediabile bensì addirittura un tratto costituzionale così che modificarla o cercare di annullarla vorrebbe dire cambiare addirittura il carattere del popolo indiano. Ciò infatti che colpisce di più nei mendicanti di questo Paese non è tanto il loro numero che pure è grandissimo, quanto la maniera tutta naturale e necessaria con la quale essi si inseriscono nell’ambiente sociale, quasi membri di diritto di una società che ne giustifica e richiede l’esistenza.[26]


Pasolini, dunque, istituisce in India un concetto, a modo di cronotopo, che altro non è che una nozione panmeridionalista: «Il vero paesaggio indiano è quello della riproduzione di una «cartolina esotica dell’ottocento, arazzo di Porta Portese».[27] Una tipologia, questa, che lui definisce come appartenente al mondo dei sogni: «È il paesaggio che ho scoperto viaggiando: direi l’India, ma soprattutto l’Africa. Ed è il paesaggio che in questo momento amo di più».[28] Sono questi, spazi fortemente connotati e già presenti nel suo lavoro poetico fin dagli anni Cinquanta: «Si entra nel cuore di uno dei più stupendi paesaggi d'Italia. È la terra arancione. Qualcosa che sta tra quello che deve essere il Medio Oriente attuale e quello che deve essere stata l’Itaca di Ulisse»[29]:


Il concetto Africa è il concetto di una condizione sottoproletaria estremamente complessa ancora inutilizzata come forza rivoluzionaria reale. E forse si può definirlo meglio, questo concetto, se si identifica l’Africa con l’intero mondo di Bandung, l’Afroasia, che, diciamocelo chiaramente, comincia alla periferia di Roma, comprende il nostro Meridione, parte della Spagna, la Grecia, gli Stati mediterranei, il Medio Oriente. [30]


È proprio questo l’argomento sul quale ci concentreremo adesso, l’equivalenza che Pasolini stabilisce fra l’India e l’Italia. Una peculiare duplicità che era presente già nella poesia pasoliniana, come abbiamo appena accennato, e che arriverà fino alle sue ultime opere: «I giovani che dal contado di Heydeabad vanno a cerca lavoro a fortuna a Mumbai, o, i giovani che emigrano da Karatina o Kangundo per Nairobi, sono estremamente simili ai pugliesi e ai calabresi che vengono a Roma».[31]


Prima di questo viaggio in India, Pasolini aveva usato questa operazione linguistica, creando analogie fra l’Italia e altri luoghi, come la Russia. Inviato di «Vie Nuove» al VI Festival Internazionale della Gioventù e degli Studenti a Mosca nel 1957, lui vide nella capitale sovietica una sintesi dei suoi miti, il mondo contadino e le borgate romane: «Mosca è una immensa Garbatella […] una città di contadini».[32] Nelle prime due terzine della poesia Alla Francia, del 1958, troviamo la formula ossimorica «negro proprio come era biondo Rimbaud». Pasolini, attraverso un dispositivo identificatorio diventerà il negro presidente della Guinea, Sekou Touré, ma al contempo il biondo Arthur Rimbaud. Ciò che interessa a Pasolini di Touré, così come di Rimbaud, sono gli aspetti simbolici accomunati dal fatto di esprimere il puro spirito selvaggio.[33]


In alcune sue descrizioni delle città indiane, oppure di monumenti, sembra che Pasolini volesse allontanarsi dalla realtà italiana ma non è così affatto: «Per me: che sento la vita di un altro continente come un’altra vita, senza relazioni con quella che io conosco, quasi autonoma, con altre sue leggi interne, vergini».[34] Nelle sue analisi c’è un punto di riferimento fisso, cioè la realtà sociale italiana. È attraverso questa realtà che Pasolini riesce a configurare il concetto Pan meridionalista del terzo mondo. Nella cronaca indiana elaborata da Pasolini, il Malabar Hill[35] a Mumbai è un quartiere simile al Parioli; Il Taj Mahal è il San Pietro dell’India eppure[36] Tagore è un poeta dialettale come Pascarella[37]:


Nella stessa Mumbai, dove c’è una parvenza di vita normale, c’è un quartiere, Kamatiepura, di uno squallore indicibile. È il quartiere della malavita e della prostituzione, grande almeno come il quartiere Prati a Roma, e tutto come il Mandrione: eppure il più fantasticamente orientale che si possa immaginare. Non glielo posso stare a descrivere, così, oralmente. Occorre un forte impegno stilistico, per poter dare una idea di quelle case di legno, cadenti, marce, trapelanti di luce, quei vicoli di una sporcizia che arriva al sublime, quelle decine di migliaia di dormenti sul marciapiedi, quel brulichio...[38]


Appare chiaro, dunque, che Pasolini costruisca il terzo mondo in modo poetico e libero ma non geografico. La manipolazione pasoliniana del Sud si troverà sempre idealmente a sud del mondo borghese e industrializzato. Sarà questa una categoria che permetterà a Pasolini di far riferimento in modo sincronico ad aree geografiche e temporali molto lontane.[39] Per Alberto Moravia invece l’India è l’India, nient’altro: «Dovresti sentirla, laggiù, a oriente, al di là del Mediterraneo, dell’Asia minore, dell’Arabia, della Persia, dell’Afghanistan, laggiù, tra il Mare Arabico e l’Oceano Indiano, che c’è e ti aspetta».[40]


Nonostante questo dispositivo letterario e la profonda conoscenza della realtà indiana, Pasolini crede di non poter ambientare un suo romanzo, simile a Ragazzi di vita (1955) o Una vita violenta (1959) in India. Il motivo è che i suoi personaggi appartengono a un sottoproletariato, da lui definito, come pre-cristiano che spinge all’azione contro il mondo della cultura superiore, mentre che quello indiano, in parte dovuto alla religione indù, ha uno spirito così mite, da permettere la strategia della non violenza de Mahatma Gandhi:


I miei personaggi appartengono a un sottoproletariato pre-cristiano, stoico, che spinge in qualche modo all’azione, a lottare, se non altro per mangiare, contro il mondo della cultura superiore. Nasce perciò, la durezza, la delinquenza, la coscienza anche confusa di certi diritti. In India la maggioranza della popolazione è indù: l’induismo è una stupenda religione, che ha reso gli uomini miti, dolci, ragionevoli (anche se spesso i riti di tale religione sono degenerati e un po’ immondi): è tale spirito di mitezza che ha reso possibile la stupenda azione politica di Gandhi: la non violenza.[41]


Quando Pasolini visita Tangiore, nello stato federato del Tamil Nadu, è ospitato insieme ai suoi colleghi Moravia e Morante, in una Resthouse coloniale, posto che gli sembra allo stesso tempo decrepito ed sporco.[42] Lui non è per niente interessato all’architettura coloniale, e non solo in India, anni dopo, quando girerà Il fiore delle Mille e una Notte, respingerà gli edifici coloniali in Eritrea: «Non esistono nella lingua italiana, che io sappia, termini per descrivere l’aspetto architettonico dell’Asmara, di Cheren o di Agordat: lo stile coloniale italiano è perfettamente inesprimibile».[43]


Questo primo viaggio in India, finisce nel racconto di Pasolini con i roghi de Benares[44], con le fiamme che scaldano i corpi degli spettatori nella notte indiana, un rituale: «Senza impazienza, senza il minimo sentimento di dolore, pena o curiosità».[45] Quello di Moravia invece, si chiude con le statue di Khajuraho, visita definita da Pasolini come «la tappa più attesa e il pomeriggio più bello di tutto il nostro soggiorno indiano».[46]


Dopo l’addio all’India, è il momento dell’Africa, con un breve soggiorno nel Kenia e nello Zanzibar e, infine, il ritorno in Italia da Nairobi a bordo di un Comet. Pasolini fa fatica a rientrare nel suo Paese: «L’evasione era in atto. Adesso, tornando con la velocità del Comet, vedevo quella cosa piccola e insignificante, ingrandirsi, ingigantirsi, ingoiarmi. E il mio unico sentimento era quello di tornare indietro».[47] Dopo questo primo incontro con il terzo mondo, l’autore ha trovato molte equivalenze nel problema che si porre nella fine delle società agrarie feudali che vengono immediatamente a contatto con delle società moderne in crisi:


Insomma, mentre il borghese italiano, con la sua televisione e i suoi rotocalchi è un ignoto provinciale i cui problemi sono talmente ai margini, il contadino italiano, specie del Sud, e indivisibilmente e inesprimibilmente legato alle immense masse contadine sottosviluppate dell’Africa, del Medio Oriente e dell’India, e i suoi problemi si presentano come problemi mondiali.[48]


Questo stato di delusione è molto rilevante in Pasolini, e non è l’unico momento in cui lui afferma di voler allontanarsi dalla realtà italiana: «Giuro sul Corano che io amo gli arabi quasi come mia madre. Sono in trattative per comprare una casa in Marocco e andarmene là». [49] Nel 1967, cioè sei anni dopo il primo viaggio in India e Africa, lo scrittore incontra Jonas Mekas e Giden Bachmann nella sua casa di via Eufrate 9, lì dirà a Mekas:


Sono appena tornato dal Marocco, dove ho girato il mio ultimo film, e al ritorno sono stato tentato di mollare tutto, abbandonare i film, abbandonare la mia vita precedente e tornare a vivere in Marocco. E non perché amo il Marocco, ma perché il mio arrivo in Italia è stato così terribile, così sconvolgente, insopportabile. Non c'è segno di speranza, nessuna luce, niente. Era come arrivare in un manicomio di veri matti; cioè, calmi pazzi. Ho passato dieci giorni di terrore; era come se non potessi più vivere in Italia. Per quei dieci giorni ho pensato di lasciare l'Italia. E la cosa peggiore è che gli italiani non si accorgono di nulla. E dopo quello che mi dici di New York, forse rinuncerò a tutto e andrò a vivere in un deserto del Marocco, dove i problemi sono semplici, noti, preindustriali: pigrizia, sottosviluppo, ritardo, povertà - cose che abbiamo imparato affrontare.[50]


Fra il primo viaggio in India del 1961 fino al suo rientro nel continente indiano, sei anni dopo, Pasolini fa diversi viaggi nei paesi del terzo mondo. Nel 1962 in Senegal, Ghana, Nigeria e Kenya; l’anno seguente, in Oriente prossimo, Israele, Palestina e Siria; e fra il 1965 e 1967, in Marocco. Ma non solo, c’è un’altro viaggio molto importante per quello che sarà il progetto cinematografico Appunti per un film sull’India e l’ulteriore Poema sul Terzo mondo, si tratta del primo viaggio negli Stati Uniti nel 1966[51]. Tornato in Italia, l’entusiasmo americano continuerà a essere presente in Pasolini. Lo si vede ancora vivo nel testo apparso il 16 novembre 1966 su «Paese sera», intitolato L’America di Pasolini, poi conosciuto come Guerra Civile. L’incontro con lo Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC) e lo Student for a Democratic Society (SND) spiega chiaramente la sua posizione e le ragioni del suo interesse e del suo entusiasmo:


In America, sia pure nel mio brevissimo soggiorno, ho vissuto molte ore nel clima clandestino, di lotta, di urgenza rivoluzionaria, di speranza, che appartengono all’Europa del ’44, del ’45. In Europa tutto è finito: in America si ha l’impressione che tutto stia per cominciare. Non voglio dire che ci sia, in America, la guerra civile, e forse neanche niente di simile, né voglio profetizzarla: tuttavia si vive, là, come in una vigilia di grandi cose.[52]


Nasce nel pensiero pasoliniano, quindi, un ampio campo semantico, molto elastico, per il quale la rivoluzione futura dovrà comprendere sia il problema dell’emancipazione degli indiani, che dei neri in America che quello «dei piccoli, sublimi Vietcong nel Vietnam, tutti componenti della società degli emarginati»[53]: «È l’odio che nasce dal conformismo, dal culto della istituzione, della prepotenza dalla maggioranza. È l’odio per tutto ciò che è diverso, per tutto ciò che non rientra nella norma, e che quindi turba l’ordine borghese».[54]


Infatti Pasolini è fermamente convinto che nel pensiero di Malcolm X, nel potere dei negri d’America, lui parli come leader di tutti i popoli sottosviluppati, di tutti i popoli preindustriali del mondo.[55] Infatti, il capitolo che vuole dedicare ai ghetti del Nord America, dentro del suo progetto del Poema per il Terzo mondo, avrebbe come protagonista il leader afroamericano: «L'episodio racconterà, sempre per interposta persona, la vita di Malcolm X e nel tempo stesso sarà un documentario sulla vita dei negri in America, e su ciò che essi pensano di se stessi».[56]


Il 20 dicembre 1967, Pasolini torna in India, in un viaggio che si svolgerà fino al 10 gennaio 1968. Questa volta lo fa attratto dalla possibilità di dirigere un film-inchiesta sul subcontinente indiano. L’India significava per lui ritornare sui due grandi temi dell’intero terzo mondo: la religione e la fame. [57]


Non considero i poveri del passato subumani solo perché non hanno avuto coscienza di classe e si sono ribellati solo saltuariamente attraverso ribellioni di carattere sottoproletario e contadino. Non condanno né disprezzo la loro rassegnazione e la loro passività. Sono anche queste forme di vita.[58]


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Pier Paolo Pasolini durante le riprese del documentario "Appunti per un film sull'India" (1968) © Federico Zanni, Roberto Nappa/Cineteca di Bologna/Tutti i diritti riservati

Prima di lui erano stati in molti i registi che avevano fissato il loro sguardo in India[59], come Jean Renoir nel 1951 con The River, primo film a colori del regista francese oppure Peter Brook e il suo lavoro The Mahabharata del 1989. Nel contesto italiano, nel 1957, anche Roberto Rossellini si era spostato in quel Paese per girare un film di meditazione poetica, India Matri Bhumi (1959). Un film che altro non è che un viaggio contemporaneamente interiore e geografico:


Rossellini ha voluto darci un'India girata en artiste, respirata piuttosto che perlustrata; ha voluto non cercare lui le cose ma che le cose cercassero lui. Quindi niente di geografico e di scienitifico, niente di istruttivo. Quelli che come noi sanno poco della conformazione di quel Paese non hanno imparato nulla. Il punto era di sentire l'India, di esserci tout court.[60]


L’idea originaria che Pasolini ha per il suo film sarà modificata dopo la polemica scatenata con la giornalista Liliana Madeo, del giornale «La Stampa». L’intervista rilasciata da Pasolini a questo giornale il 6 dicembre 1967, è intitolata La TV è peggio della guerra in Vietnam ma in realtà, in essa, è soltanto nell’ultimo paragrafo in cui Pasolini polemizza contro televisione. Questo fatto mette in grave rischio il suo progetto indiano:


Ma mi sarà difficile, perché purtroppo, per mia natura, non sono capace di disprezzare il produttore — in nome della mia poesia! — ed è difficile appunto che io trovi un produttore in grado di sostituire la Tv per dare corpo a questo mio progetto. Vede, dunque, caro Direttore, che cosa è significato per me rilasciare una intervista al suo giornale e che responsabilità si sono presi il titolista e l’autrice del pezzo.


È vero, poiché io ho sempre avuto molta stima per «La Stampa» (che si è comportata sempre nei miei riguardi nel modo più corretto, obbedendo, direi con grazia e naturalezza, alle regole del fair-play, anche quando il disaccordo tra le mie idee e quelle da essa rappresentate fosse sostanziale) ho parlato con assoluta sincerità con la signora Madeo. Come si parla con un amico. Quindi senza misurare le parole, senza diplomazia, con totale confidenza. Credo, dunque, di aver detto tutte le frasi, le parole e le espressioni riportate dalla Madeo, ma - ed ecco quello che voglio precisare - in un altro contesto. Un contesto dove lo slogan «La televisione è peggio del Vietnam» è una figura retorica, che sta tra la «boutade» e la «sineddoche»: io parlavo cioè della televisione di Partitissima (ossia, magari dell'80 per cento della televisione).[61]


Il progetto che Pasolini ha in mente è una storia che è partita da uno spunto suggeritogli dall’amica Elsa Morante[62]: il mito indiano di un maharaja che, alla vista di un tigrotto affamato, sceglie di offrirsi a lui in sacrificio per sfamarlo, con la conseguenza di abbandonare la sua famiglia e lasciarla in estrema povertà, costretta a vagare per l’India come nomade alla ricerca di cibo.


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Il momento storico di tale vicenda, secondo Pasolini, sarebbe stato quello degli anni immediatamente antecedenti e immediatamente successivi alla liberazione dell'India. Cioè, il film si sarebbe svolto, in parte, prima della partenza degli inglesi, e in parte, dopo. Avrebbe, dunque, una prima parte preistorica e una seconda, storica:


ll capo della famiglia - che sarebbe divenuta protagonista della mia storia - avrebbe dovuto essere un «maraja» e si sarebbe dato in pasto a dei tigrotti morenti di fame, in una landa coperta dalla neve, per pietà e per sublime disprezzo per la propria carne. Nell'India storica, successiva a questo episodio introduttivo, la famiglia del maraja, impoverita durante una carestia, appunto, storica, avrebbe vissuto la tragica vicenda che ho detto, scandita dalla morte per stenti e fame di tutti i suoi componenti.[63]


Pasolini scrisse una sinossi di questo progetto e la intitola Storia indiana. Fermiamoci un momento su questo scritto. Pasolini afferma nel primo paragrafo di aver fatto soltanto un primo embrione: «Un’idea del “fatti” ma soprattutto del senso che include anche la fattura, la tecnica e lo stile». [64] I riferimenti culturali sono, naturalmente, la sua esperienza indiana del 1961 raccolta nel volume di Longanesi del 1962 e poi, un film-documentario del 1934, quello intitolato l’Uomo di Aran di Robert J. Flaherty. Flaherty è un regista statunitense nato nel Michigan, nella fine del XIX secolo. Il suo lavoro influì in modo determinante sullo sviluppo del cinema in quanto nuovo mezzo espressivo grazie a un approccio al documentario che ruppe con tutte le convenzioni stabilite dai processi produttivi dell'epoca. L’intensità dei suoi film e la purezza dello stile, definì la sua produzione come documentari lirici. A Pasolini interessa la sua opera Man of Aran, girato in Irlanda in una delle inospitali isole Aran, presso una famiglia di pescatori. La lotta dell'uomo contro le avversità della natura era parte della quotidianità dei loro abitanti.


Per quanto riguarda la tecnica, si tratta di un progetto che, nelle parole di Flaherty: è una struttura più lirica che di prosa.[65] I motivi del carattere lirico del film sono vari, aspetti come la posteriore inserzione di pezzetti di dialogo post-sincronizzati, la libertà d’uso della musica oppure il ruolo capitale dello sguardo del regista attraverso la macchina da presa, sono elementi che ci ricordano certi discorsi di Pasolini sul cinema di poesia:


Parlando di cinema e poesia, io intendevo sempre parlare di poesia narrativa. La differenza era tecnica: anziché la tecnica narrativa del romanzo, di Flaherty o di Joyce, la tecnica narrativa della poesia. Osservate il montaggio de L'uomo di Aran. Ecco, avrete un'idea del montaggio piegato a una tecnica narrativa di cinema di poesia: sia pure di una poesia esiodea, come dicono gli agiografici.[66]


Quando Pasolini parla del montaggio del documentario di Flaherty parla della rivelazione estetica dei Sopralluoghi in Palestina, 1963, che gli consentì un uso combinato di luoghi di diverso carattere nei film. Questo vuol dire che lui lavora con un ideale poetico più alto, come attua come articolatore del film, dello stile o del discorso e che gli permette di unire diversi spazi geografici. Nel Vangelo secondo Matteo (1964) vediamo come l'azione si svolge in luoghi diversi come la chiesa seicentesca di San Bonaventura a Monterano (Lazio), il castello normanno di Lagopesole ad Avigliano (Basilicata) o il castello di Monte (Puglia), tra gli altri.[67] È proprio quell'idea poetica unificante, la che consente a Pasolini la libera manipolazione degli spazi per creare, attraverso il montaggio, un senso di unità. Lo stesso accade, per sempio, nel film Edipo re (1967) Gli esterni dei palazzi reali si trovano in edifici chiave dell'architettura marocchina nell'Alto Atlante. La somiglianza estetica dei due luoghi rende difficile distinguerli nel film, e Pasolini utilizza frammenti di queste e di altre kasbah in modo casuale.[68] Nella sinossi Storia indiana, Pasolini fa riferimento a una scena del film Edipo re[69] quella in cui Edipo uccide tutti i soldati del re Laio: «si presenta, figurativamente, come un ponte, le cui arcate, regolari, sono le agonie e le morti di fame dei protagonisti».[70]


Nel dicembre 1967 Pasolini prende l’aereo che lo porta in India. Finalmente è riuscito a firmare un contratto con la Rai e lo accompagna una piccola troupe televisiva, composta da due operatori alla macchina, Federico Zanni e Roberto Nappa, un fonico, Gianni Barcelloni e anche Ninetto Davoli e Romano Costa, quest’ultimo incaricato dai servizi culturali radiofonici Rai. Costa aveva il compito di realizzare in parallelo un documentario radiofonico, dal titolo In India con Pier Paolo Pasolini. Appunti per un film.[71] Se già, come dichiarato da Pasolini, il suo film avrebbe dovuto essere «un film su un film sull’India», quello che farà Costa sarà un documentario sul lavoro pasoliniano, che ha il pregio di insinuarsi tra i vuoti e gli interrogativi lasciati senza risposta dall’opera cinematografica pasoliniana.


Pasolini effettuò le riprese cinematografiche per le strade di diverse città indiane, principalmente Mumbai e nelle sue estreme, poverissime periferie, con la cinepresa in spalla, riprendendo gente comune e dialogando con alcuni intellettuali indiani. L’obiettivo non era quello di realizzare un documentario, ma di verificare la propria concezione poetica del film. Pasolini, come al solito, aveva le idee molto chiare: «Se alla fine di questo sopraluogo la mia India non reggerà, non farò il film». Recupera l’idea del 1963, Il padre selvaggio, e crea un modello che si ripeterà con Appunti per un’Orestiade africana [72]: «Può darsi che anziché fare Il padre selvaggio faccia un altro film che mi è venuto in mente, sempre però su questa linea, cioè un’Orestiade ambientata in Africa.»[73] Pasolini pensava anche di realizzare un film sullo sviluppo della coscienza politica in alcune nazioni del terzo mondo, alcune delle quali si erano affrancate dal colonialismo e stavano avviando forme di gestione democratica.


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Nel inizio del filmato di Pasolini, la prima immagine che vediamo è quella dell’uomo che potrebbe recitare il ruolo del maraja. Poi, la macchina da presa ripercorre la via del re o Rajpath, la sede del Parlamento indiano e le acque del Gange, con il Rishikesh nello sfondo. Intercalate, vediamo alcuni immagini di cadaveri animali divorati dai corvi, il regista ci mostra anche alcuni straccioni che trova sulla strada e ci sono dei piani che ci fanno vedere le loro mani lebbrose. Questo tipo di montaggio lo aveva già usato nell’ Edipo re (1967).  Quando nel film si passa dalla seconda parte alla terza, del mito alla tragedia, Pasolini utilizza il racord per unire due spazi in disgiunzione distale. L'ultima inquadratura della parte mitica ci mostra il letto della camera di Giocasta e Edipo dove è stato consumato l'incesto. La scena successiva, già dalla terza parte, è quella di un cadavere in decomposizione, vittima della peste che devasta Tebe.


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Tutto quanto vediamo è narrato dalla voce in off di Pasolini. Un fotogramma del poeta che avverte lo spettatore: «Io non sono venuto qui per fare un documentario, una cronaca, un'inchiesta sull'India, ma per fare un film su un film sull'India». È rilevante che Pasolini si diriga allo spettatore con un libro in mano, questo volume gli servirà per illustrare alcune delle sue scelte visive bel filmato. Per esempio, quando lui si trova nel Rishikesh, ci fa vedere alcune illustrazioni del libro che hanno la sua corrispondenza nella realtà attraverso i fotogrammi. Dobbiamo ricordare la folgorazione figurativa, il nesso fra Pasolini e la pittura, ormai presente dagli anni formativi a Bologna con il professore Roberto Longhi. [74]


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Dopo l’introduzione, Pasolini fa la prima intervista a un ragazzo che si trova nel Rishikesh, un luogo molto noto come sede dell'ashram, un luogo di meditazione e insegnamento indù, sia religioso che culturale. I primi dialoghi di Pasolini con il popolo indiano si concentrano sulla storia del maraja. Dopo, si sposta a Mumbai per parlare con un maraja contemporaneo e sua moglie. Loro non credono che la storia che ha spinto Pasolini a tornare in India possa avverarsi dell’India moderna.


La fermata successiva è a Jaipur, capitale dello stato federato del Rajasthan, città famosa per i suoi edifici di arenaria rosa. Prima vediamo il Chandra Mahal e poi il Jal Mahal o Palazzo dell’acqua, nel lago Udaipur. Pensa a quale palazzo sceglierebbe come residenza del maraja. Finalmente Pasolini si decide sul Hawa Mahal ovvero il Palazzo dei Venti, un importante punto di riferimento di Jaipur e poi, la moschea di Haji Ali a Mumbai. Di fronte alla contaminazione tra mondo antico e mondo moderno, una situazione da lui vissuta come degenerazione irreversibile[75] ed equiparata a quella già sperimentata in Italia, Pasolini è alla cerca dei luoghi non contaminati dalla modernità:


Perché i palazzi che abbiamo visto sono bellissimi, anzi, forse il palazzo rossa di Jaipur è una delle cose più belle che io abbia mai visto nel viaggio, però è immerso dentro una città moderna, invece ho bisogno di qualcosa di più preistorico, di più mitico, di più lontano nel tempo, di più fantastico insomma.[76]


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Adesso siamo a Mumbai, e qui Pasolini cambia l’argomento delle sue inchieste. Adesso vuole interrogare diversi cittadini sul progetto di legge sulla sterilizzazione obbligatoria. Dopo intervistare una signora sulla realtà degli intoccabili, Pasolini afferma che la difficoltà di parlare con loro è dovuta «al pudore da parte sua e non tanto alla resistenza da parte loro».[77] Subito dopo, nei dintorni della Porta dell’India, troviamo un ragazzo al quale interroga sulla possibilità che un cittadino come lui possa diventare presidente della Repubblica dell’India.


Poi, si sposta di nuovo a Delhi, ripercorriamo le affollatissime strade della città, tra i quali la Sheikh Memon Street, il bazzar Zaveri e vediamo sullo sfondo la Jama Masjid, tra le più famose moschee dell'India. Adesso, la macchina da presa si ferma sulla bandiera del Partito Comunista della città. Uno dei funzionari del partito parla con Pasolini. Il signore M.Farooqi, leader chiave del movimento studentesco durante la lotta per l'indipendenza indiana, esprime la sua opinione personale sul controllo della natalità. Per quanto pare, tutta l’intellettualità indiana è favorevole a questa legge. Ma cosa pensano altri strati sociali?


Pasolini rivolge il suo sguardo verso il villaggio rurale di Bhavarli. Sebbene una gran maggioranza degli intellettuali in città si mostri favorevole alla sterilizzazione, non è così nei villaggi. Qui, i contadini si rifiutano anche di parlarne:


Ecco il villaggio di Bhavarli. Ci siamo entrati quasi clandestinamente, timorosi di rompere chissà quale incanto. Il villaggio era immerso in una profonda pace meridiana. Una pace preistorica che non è priva di una certa dolcezza, quasi elegiaca. Gli abitanti del villaggio ci hanno accolto sorridendo. Con grande dolcezza e uno spirito di ospitalità addirittura commovente, essi ci hanno accolto e sorriso. Ci hanno mostrato come lavorano, quali siano le loro tecniche, che sono le stesse di due, tremila anni fa. Ma quando abbiamo chiesto loro di parlarci sulla sterilizzazione non hanno voluto saperne. […] Sono estranei a questo problema. [78]


Poi, la macchina da presa si concentra sui visi dei bambini in cui il regista cerca i futuri figli del maraja. La dolcezza e l’umiltà sono due delle doti fondamentali di questo popolo per Pasolini che lo descrive ricorrendo ad un lessico di tipo religioso, mediante il quale attribuisce alla miseria indiana i caratteri di una religiosità evangelica. Già nella sinossi, Pasolini racconta che l’unica morte che ha chiara è quella della giovinetta.[79] Poi, in Appunti, si soffermerà su una ragazzina che trova Bhavarli: «E quanto alla bambina, potrebbe essere sicuramente questa, questo tenero e dolce agnellino».[80]


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Mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura (mentre quella del borghese è volgare), perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita), perché è pazza (mentre quella del borghese è prudente), perché è sensuale (mentre quella del borghese è fredda), perché è infantile (mentre quella del borghese è adulta), perché è immediata (mentre quella del borghese è previdente), perché è gentile (mentre quella del borghese è insolente), perché è indifesa (mentre quella del borghese è dignitosa), perché è incompleta (mentre quella del borghese è rifinita), perché è fiduciosa (mentre quella del borghese è dura), perché è tenera (mentre quella del borghese è ironica), perché è pericolosa (mentre quella del borghese è molle), perché è feroce (mentre quella del borghese è ricattatoria), perché è colorata (mentre quella del borghese è bianca).[81]


Qui finisce la prima parte del filmato, la storia dell’India antica. Il fotogramma che prosegue ci va vedere di nuovo la città di Jaipur. Pasolini cambia argomento e si interroga sull’industrializzazione e le sue conseguenze in un paese come l’India, si sposta a Mumbai. Prima, e poi in un villaggio dove i suoi abitanti si occupano di agricoltura e poi nella fabbrica della Fiat-Dodge, Pasolini ribadisce la sua idea di un gran divario fra contadini e sottoproletariato urbano. Alcuni dei lavoratori della fabbrica preferirebbero vivere nei loro vilaggi, nella loro terra. La differenza con i contadini si percepisce sia nella religione che nella politica.


Poi, a rispondere le domande di Pasolini, sono i giornalisti del Times of India, «quotidiano equivalente al Corriere della sera in Italia».[82] L'edificio del Times si trova di fronte al Victoria Terminus, nel cuore di Mumbai, è tra i migliori esempi di architettura indo-saracena. Pasolini conversa con il redattore capo del gironale indiano, Mr. Matthew e il vice direttore, Mr. Gupta:


-PPP: Dunque eravamo rimasti agli dei della pioggia e ai monsoni no... Secondo lei certe... Se la parola religione coincide, grossomodo, con l’India tradizionale, mentre questo nuovo atteggiamento religioso coincide con l’India moderna, l’India industrializzata, a proposito di questo vorrei farle questa domanda: secondo lei, per una nazione come l’India che si sta industrializzando, è fatale che questo comporti anche un’occidentalizzazione?


- Intervistati: Non necessariamente perché se per occidentalizzazione intende che l’uso dei mezzi di produzione che l’Occidente ha avuto negli ultimi cent’anni modifichi la struttura mentale degli indiani in tutti gli aspetti della sua vita, no, perché rimane attaccata a delle forme che non penso possano essere eliminate nell’immediato futuro, due, tre generazioni rimarrà come è adesso. Non penso che l’industrializzazione possa modificare l’atteggiamento spirituale indiano, insisterei molto sull’aspetto religioso, perché la religione come manifestazione esteriore esiste, la religione come analisi, introspezione è al di fuori della portata di questa gente.[83]


Per Pasolini è importate indagare sulla correlazione fra industrializzazione e occidentalizzazione. Poi, chiede il loro parere sulla violenza, su quei casi di episodi violenti che si sono scatenati nella società della non violenza promulgata da Ghandi. Gli intervistati lo negano categoricamente visto che molti problemi in Madras o Mumbai partono da problemi linguistici e non da differenze fra il livello di insdustrializzazione dei luoghi geografici. Pasolini parla de Gramsci e del problema linguistico che, nasconde un problema sociale ma gli intervistati chiariscono che in India, il problema linguistico, cioè la non conoscenza dell’hindi nel Sud fa sì che alcune parti della società non abbia accesso ai posti di lavoro pubblici.


Finalmente, è il momento degli intelletuali. Pasolini intervista a Mumbai al regista Khwaja Ahmad Abbas, al romanziere Rajinder Singh Bedi e allo sceneggiatore Jagmohan "Jag" Mundhra. La conversazione torna al tema dell’inizio, la storia del maraja. Piano piano, vediamo fotogrammi di corvi, alcuni stanno divorando dei cadaveri di mucche.


Poi, la scena dei funerali a Benares. Pasolini finisce questo filmato così come aveva chiuso il suo volume L’odore dell’India. La cremazione dei corpi avviene in molti luoghi sacri in India e in Nepal, ma Varanasi è il luogo più noto ed importante. I cadaveri arrivano trasportati dai parenti su una lettiga di tronchi di bambù, vengono immersi nel Gange- per essere purificati - e poi adagiati sulla riva, ad aspettare il proprio turno:


Dietro, il cieco luccichio del Gange. In fondo, brillano dei fuochi. Arriviamo sotto i fuochi: sono questi i roghi dei morti: tre: due alti, come in cima a una scalinata, e uno più in basso, a pochi metri dal pelo dell’acqua. Intorno ai roghi vediamo accucciati molti indiani, coi loro soliti stracci. Nessuno piange, nessuno è triste, nessuno si dà da fare per attizzare il fuoco: tutti pare aspettino soltanto che il rogo finisca, senza impazienza, senza il minimo sentimento di dolore, o pena, o curiosità. Così, confortati dal tepore, sogguardiamovi più da vicino quei poveri morti che bruciano senza dar fastidio a nessuno. Mai, in nessun posto, in nessuna ora, in nessun atto, di tutto il nostro soggiorno indiano, abbiamo provato un così profondo senso di comunione, di tranquillità e, quasi, di gioia. [84]

 

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Pasolini finisce i suoi Appunti con una domanda allo spettatore: «Un occidentale che va in India ha tutto, ma in realtà non dà niente. L’India, invece, che non ha nulla, in realtà dà tutto. Ma che cosa?»[85] Nella sinossi, scrive:


E queste sono cose che ho visto e descritto: quegli estranei, poveri, sporchi, laceri, scavati dal digiuno e dalla lebbra, sono angelici e fraterni. Compiono i gesti funebri quasi con grazie, con una indifferenza che è simile all’indifferenza per il proprio corpo con cui il padre è dato in paste alle tigri. Non c’è del resto nulla di angoscioso o funereo nei riti indiani della cremazione: c’è anzi qualcosa di consolante e sereno. La visione del fiume torbido e atroce in cui le ceneri sono gettate - visione con cui il film dovrebbe concludersi - è piena di una profonda e astratta dolcezza. [86]


L’India che Pasolini incontra nel 1967 altro non è che una nazione postcoloniale che abbraccia l’industrializzazione e il capitalismo. Era, ai suoi occhi destinata, a diventare altrettanto contaminata quanto l’Italia, perciò il suo Uomo di Bandung, era condannato all’estinzione. Insomma, nei suoi Appunti, Pasolini ci restituisce l'immagine di un terzo mondo che non è più incontaminato e puro, anzi sta per subire una metamorfosi. Da uno spazio precedentemente utopico sta diventando lentamente una realtà distopica.


Durante il lavoro in India, Pasolini dirà a Romano Costa che il progetto non gli interessa più, che addirittura non ha più voglia di farlo:


Questo film da farsi l’ho sperimentato in India qualche tempo fa. Anche in India sono andato con un soggetto di film, la storia di un maraja il quale, secondo una leggenda mitica indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle (questo, idealmente, prima della liberazione dell’India); e, dopo la liberazione dell’India, sempre idealmente, cioè implicando i problemi moderni dell’India, la famiglia di questo maràgia scompare perché i suoi membri muoiono ad uno ad uno di fame durante una carestia. Questa era l’idea del film.


Così sono andato in India a fare una specie di inchiesta per verificare se questa idea era attendibile o no. Per sentire dagli indiani, i più diversi, da un maraja stesso ad alcuni santoni, dalla gente del popolo a degli scrittori, se questo film poteva essere fatto o no. Ora ne è venuto fuori un film che ha tuttavia questa trama: la trama rimane, la storia rimane, però appunto, come trama «da farsi». Questa esperienza, fatta senza volerlo in India, vorrei allargarla, e girare un episodio simile per ognuno dei luoghi che sono tipici del Terzo mondo; e uno di questi forse sarà appunto Il padre selvaggio (a meno che non sia sostituito dall’Orestiade).[87]


Insomma l’autore si è accorto dell'enorme vastità degli argomenti possibili per un film sul Terzo mondo e decide di trasformare il suo progetto indiano in un Poema sul Terzo mondo:


Come dice il titolo, il tema di questo film è il terzo mondo: nella fattispecie, l'India, l'Africa Nera, i Paesi Arabi, l'America del Sud, i Ghetti negri degli Stati Uniti [...] I temi fondamentali del Terzo mondo sono gli stessi per tutti i paesi che vi appartengono. Perciò tutti questi temi saranno presenti, implicitamente o esplicitamente, nei cinque episodi.[88]


In questo nuovo progetto, per quanto riguarda l’India, l'episodio avrà come temi i temi di quel mondo preindustriale in via di sviluppo, la religione e la fame, cioè Pasolini non modifica l’idea originale. L'immensa quantità di materiale pratico, ideologico, sociologico, ideologico, politico che viene a costituire un film del genere, impedisce obiettivamente la manipolazione di un film normale: «e il “sentimento” che collegherà questi cinque episodi costituirà anche la ragione prima del film, il suo aspetto soggettivo e il suo stile».[89]


Niente come fare un film costringe a guardare le cose. Lo sguardo di un letterato su un paesaggio, campestre o urbano, può escludere un’infinità di cose, ritagliando dal loro insieme solo quelle che emozionano o servono. Lo sguardo di un regista – su quello stesso paesaggio – non può invece non prendere coscienza – quasi elencandole – di tutte le cose che vi si trovano. Infatti, mentre in un letterato le cose sono destinate a divenite parole, cioè simboli, nell’espressione di un regista le cose restano cose.[90]


Alcuni anni dopo, nel 1973, Pasolini comincia un lungo viaggio per molti paesi dell’Oriente alla ricerca dei volti e dei luoghi in cui ambientare il suo nuovo film. Il fiore delle Mille e una notte parte di una lettura critica del romanzo arabo in cui lo scrittore compensa la mancanza di conoscenza della letteratura arabica con una gran competenza del mondo arabo: «Posso dire di conoscere più gli arabi che i milanesi. (Cosa che si inquadra in una mia ex-stravagante competenza del terzo mondo). Ho quindi potuto storicizzare le Mille e una notte per ciò che esse sono adesso nel loro contesto popolare».[91]


Questa sua padronanza è un resoconto di tutti i suoi viaggi nel terzo mondo, sulla base del primo viaggio in India e Africa del 1961 fino alle diverse esperienze della sua carriera. Il percorso pasoliniano per i sopralluoghi gli porterà a ripercorrere una enorme quantità di paesi come lo Yemen, del nord e del sud, Eritrea, Iran, Nepal, Etiopia, Persia e anche l’India. Alla disparità dei luoghi corrisponde una diversità degli stili, dei generi e persino degli esiti letterari.[92] Lo schema del film sarà uno schema di viaggio, così come era stato sia per Uccellacci e uccellini che nel Vangelo[93]:


L’enorme maggioranza dei racconti delle Mille e una notte consistono in un viaggio. Quando il racconto è talmente breve da non consentire la possibilità della descrizione di un vero e proprio viaggio, allora si tratta di un aneddoto successo a un viaggiatore: e quindi, anche se il racconto è tutto lì, in quel crocevia, in quel mercato, siamo comunque in un altrove.[94]


Alcuni giorni prima della partenza di Pasolini, il giornalista del settimanale Tempo illustrato si reca nella casa dello scrittore a via Eufrate 9, nel quartiere EUR, a Roma, per intervistarlo. Pasolini spiega in dettaglio tutte le tape del suo progetto, nell’ultimo paragrafo spiega cosa ha pensato per l’India.[95] L'Etiopia, la Persia, lo Yemen, l'India, il Nepal forniscono incredibili scenari, di antica bellezza, al film e concorrono a descrivere un mondo di sogni e di emozioni che è anche la rappresentazione di ciò che per Pasolini è il terzo mondo:[96]


Non sono stato fedele alla lettera alle Mille e una notte: ho fatto delle cose arbitrarie. Ma quello che mi interessava non era rappresentare, sia pur indirettamente, la cultura araba, o siriana ecc., ma era una forma, diciamo così, drammatica, fantastica, di cultura popolare; la mia polemica era contro la cultura della classe dominante eurocentrica.[97]


L’itinerario di Pasolini è una grande epopea di diecimila chilometri, all ricerca di scenari che sono rimasti intatti nel tempo.[98] Questi luoghi sono accomunati da una categoria metadiscorsiva che è il terzo mondo perciò gli servono lo stesso le città di Shibam o Sana’a nello Yemen, Kano in Nigeria o Kathmandu nel Nepal: «Le varianti sono necessarie per ricreare quelle narrazioni a scatole cinesi – due, tre racconti contenuti uno nell'altro – che sono tipiche di Le mille e una notte. Ogni volta bisogna cambiare città, però mantenendo l'analogia».[99]


Non sono stato fedele alla lettera alle Mille e una notte: ho fatto delle cose arbitrarie. Ma quello che mi interessava non era rappresentare, sia pur indirettamente, la cultura araba, o siriana ecc., ma una forma, diciamo così, drammatica, fantastica, di cultura popolare; la mia polemica era contro la cultura della classe dominante, eurocentrica.


Tra le numerose interviste di Pasolini su questo film dobbiamo concentrarci su quella pubblicata sulla rivista Playboy[100], edizione italiana, nel 9 settembre 1973. Questo testo, intitolato Le mie Mille e una notte, è un diario di viaggio del regista per tutte le città che visitò per poter portare avanti il film. Pasolini aveva concepito tre brevi racconti ambientati nella zona tra Nuova Delhi e Benares: «Ho scelto i dintorni di Agra e Fatehpur Sikri[101], dove c'è una popolazione mista musulmana-indù».[102]


In tutte le schede tecniche e artistiche[103] che riguardano Il fiore delle Mille una Notte, appare il continente indiano come luogo di riprese ma nell’articolo di Playboy, non ci sono tracce né di Delhi né di Benares. Nel montaggio finale, della prima parte del film, Pasolini toglie circa un quarto d’ora. Non sappiamo se questi scarti appartengano ai provini fatti in India.


L’inizio del film è diventato graffiato e un po’ sommario anche perché ho tolto un quarto d’ora. Per esempio, alla scena della vendita della schiava, che è «rubata», ci arrivavi in un disegno più pacato, più costruito. Questo accorciare ha reso l’inizio più impressionistico. Nella seconda parte, e questo non è più casuale, scatta l’invenzione a scatole cinesi. Una serie di figure realistiche, che man mano vedi essere incastrate in altre figure realistiche, diventa serie di figure di finzione.[104]


La presenza travolgente delle città eritree occupa tutto il primo tempo del film:


Sempre per ragione pratiche, mi conveniva girare in Eritrea [...] È stato improvvisamente che ho deciso di girare in questi episodi tutto il primo blocco [...] Una volta deciso di girare tutto il gruppo di frammenti di Harun in Eritrea, si moltiplicava di conseguenza il numero di personaggi da trovare lì.[105]


Dopo Eritrea è lo Yemen ad avere una prevalenza nelle scene del film. Era questo un paese molto conosciuto da Pasolini, la prima volta che misse i piedi a Sana’a fu nel 1970 nelle riprese del film Il Decameron, per una scena poi scartata. Pasolini dichiarerà che una furia devastante contro il proprio recente passato e i suoi costumi, considerati vergognosi, suppone un Fantasma che percorre l’Oriente.[106]


La prima volta che Pasolini venne a Sana'a non uscì dalla cerchia delle mura. Era schivo, di poche parole. Girava per la città col fotografo a ricercarvi, per Il Decameron, sofisticati punti di visto La straordinaria interezza delle architetture, la loro singolare prestanza lo spinsero a filmare, entro lacerchia di fango allora quasi intatta, una sequenza delle più sconosciute e efficaci. Quando Pasolini tornò qui per realizzare gli estemi del Fiore delle Mille e una notte, fu tutt'altra cosa. Il Paese gli si presentava tutto da scoprire come scenario. Mi chiese di indicargli spazi diversi... voleva un'antica porta davanti alla quale far agire molti personaggi. Gli suggerii Manaka, Ibb, Djobla, Thula, città in pietra, intatte.[107]


I riferimenti alla cultura indiana si trovano nel film Il fiore delle Mille e una notte in un modo scarso e figurativo. È il caso nell’episodio di Aziz che, nella sceneggiatura, perché sono scene che non sono mai state girate appaiono cenni alle miniature erotiche e le sculture dei tempi dei dintorni di Agra: «Una trentina di coppie si congiungono davanti agli occhi del principe, nei modi più folli e impensati: così come esse sono rappresentate nelle miniature indiane o nelle sculture dei templi di Kajurao o di Madras».[108]


E così, la presenza dell’India svanisce. Adesso fa parte di un affresco di migliaia di fotografie, tessere del mosaico di un mondo remoto e indecifrabile, probabilmente in buona parte scomparso o comunque di arduo accesso agli sguardi occidentali.


Silvia Martín Gutiérrez, Pier Paolo Pasolini. La presenza dell’India: dalla scoperta del continente indiano fino al Fiore delle Mille e una notte, su Città Pasolini Archivio, 18 ottobre 2025.

[1] P.P.PASOLINI, Appunti per un film sull’India, in Sceneggiature (e trascrizioni), in Id., Per il cinema, a cura di W.SITI e F.ZABAGLI, Mondadori, Milano, 2001, vol.I, p.1072.

[2] Si tratta di un importante monumento nazionale dedicato ai soldati caduti durante i conflitti belici. Attraversando la Porta dell'India si arriva a Rajpath (la via del Re), un viale per cerimonie costeggiato da alberi, prati e laghetti ornamentali. All'altra estremità del viale rispetto alla Porta dell'India si arriva al Palazzo Presidenziale (Rashtrapati Bhavan), la residenza ufficiale del presidente indiano.

[3] Per gli inglesi che arrivavano in India nel XIX secolo, la porta, quindi, era un simbolo della potenza dell’impero britannico e quando il paese ottenne l’indipendenza, le ultime truppe britanniche, passarono proprio dal portale, in una cerimonia che segnò definitivamente la fine della dominazione coloniale

[4] P.P.PASOLINI. L’odore dell’India, Garzanti, Milano, 2009, p.14.

[5] P.P.PASOLINI. Viaggio in Marocco, 1965, pubblicato per la prima volta su «Vie Nuove», n. 16, 22 aprile 1965, ora in Dialoghi con i lettori, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W.SITI e S.DE LAUDE, Mondadori, Milano, 1999, pp. 1056-1057.

[6] P.P.PASOLINI. Io e...: Pasolini e... la forma della città, 1974, Rai, andato in onda per la prima volta il 7 febbraio 1974.

[7] La mappa che traccia il percorso di Pasolini e Moravia in India appartiene al libro A.MORAVIA. Un’idea dell’India, Bompiani, Milano, 1962.

[8] P.P.PASOLINI, L’odore dell’India, p.14.

[9] P.P.PASOLINI, Lettera a Franco Fortini, datata 31 dicembre 1960 in Id., Lettere II, 1955-1975, a cura di N.NALDINI, Einaudi, Torino, 1986, p.486.

[10] Sugli evento per commemorare  Tagore nel 1961 consiglio la pubblicazione  Rabindranath Tagore: a universal voice, a cura di Vittorino Vernose, The UNESCO Courier, 1961.

[11] D.DAS, Lettera indirizzata ad Alberto Moravia, datata 23 dicembre 1960, in Letter on All-India Bengali Literary Conference (UNESCO), p.66-68.

[12] Il Pandit Nehru (1889-1964) combatté a fianco di Gandhi per l’indipendenza dell’India, e dopo l’indipendenza fu Primo Ministro dell’Unione Indiana dal 1947; fu tra i promotori, nel 1955, della conferenza di Bandung, che avviò il movimento dei paesi non allineati.

[13] P.P.PASOLINI, L’odore dell’India, p.78.

[14]P.P.PASOLINI, Pier Paolo Pasolini. C'è un abisso fra Nehru e gli indiani. A colloquio con lo scrittore da rientro dall'Oriente,  intervistato da A.CHIESA, su «Paese sera», 20-21 settembre, 1961.

[15]P.P.PASOLINI, L’odore dell’India, pp.84-85.

[16]A.MORAVIA, Pasolini: le ceneri di Benares. Ma la sua Bombay era solamente un mito, un’illusione sentimentale, ed.  R.PARIS, su «Il Corriere della Sera», domenica 7 gennaio 1990, p.6.

[17] Moravia in effetti aveva preparato quel viaggio con molta meticolosità, specie culturale: non solo per aver una idea, ma anche semplicemente per apprezzarla, non ci si può recare da sprovveduti.

[18] A.MORAVIA, Pasolini: le ceneri di Benares, p.6.

[19] P.P.PASOLINI, Pier Paolo Pasolini. C'è un abisso fra Nehru e gli indiani.

[20] P.P.PASOLINI, L’odore dell’India, p.9.

[21] A.MORAVIA, Pasolini: le ceneri di Benares, p.6.

[22] P.P.PASOLINI. La resistenza negra, 1961, Id., Tutte le poesie, a cura di W.SITI, Mondadori, Milano, vol. II, pp. 2344-2355.

[23] P.P. PASOLINI. Pier Paolo Pasolini. C'è un abisso fra Nehru e gli indiani.

[24] Ibidem.

[25] Ibidem.

[26] A. MORAVIA, pp.78-80.

[27] P.P.PASOLINI, L’odore dell’India, p.16.

[28] P.P. PASOLINI, La poesia secondo Pier Paolo, ed A.MILLO, su «La Repubblica», 24 febbraio 1990, p.3.

[29] P.P.PASOLINI, Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, Guanda, Parma, 1955, p.18.

[30] P.P.PASOLINI, La resistenza negra, pp. 2344-2355.

[31] P.P.PASOLINI, Pier Paolo Pasolini. C'è un abisso fra Nehru e gli indiani.

[32] P.P.PASOLINI, Appunti di viaggio in Urss, su «Paese Sera», 11-12 settembre, 1957.

[33] Ho la lieta sorpresa di vedere che assomiglio/a Sekou Touré il Presidente della Guinea:/il naso schiacciato e gli occhi vivi./Anche lui risalito al grigiore della storia/da baratri di puro spirito selvaggio: negro proprio come era biondo Rimbaud./Forse a chi è stato nella selva, da pura madre,/a essere solo, a nutrire solo gioia,/tocca rendersi conto della vita reale:/rinunciare a obbedire al sesso per pensare,/finire di essere fanciullo per diventare cittadino,/tradire gli Dei per lottare con Marx.

P.P.PASOLINI, Alla Francia, 1958, in Id., Le poesie. Le ceneri di Gramsci - La religione del mio tempo - Poesia in forma di rosa - Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano, 1976, p.259.

[34] P.P.PASOLINI, L’odore dell’India, pp.11-12.

[35] Ivi, p.97.

[36] Ivi, p.8.

[37] Ivi, p.84.

[38] P.P.PASOLINI, Pier Paolo Pasolini. C'è un abisso fra Nehru e gli indiani.

[39] Nel poema La Guinea Pasolini continua con la creazione di parallelismi tra la povertà dei luoghi italiani e quelli africani: La Guinea… polvere pugliese o poltiglia/padana, riconoscibile a una fantasia/così attaccata alla terra, alla famiglia,/com’è la tua, e com’è anche la mia:/li ho visti, nel Kenia, quei colori/senza mezza tinta, senza ironia.

P.P.PASOLINI, La Guinea, 1962, in Id., Poesia in forma di rosa, 1964, in Bestemmia. Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1993, vol. II, p.620.

[40] A.MORAVIA, Un’idea dell’India, pp. 5-6.

[41] P.P.PASOLINI, Pier Paolo Pasolini. C'è un abisso fra Nehru e gli indiani.

[42] Ibidem.

[43] P.P.PASOLINI, Le mie Mille e una notte, apparso per la prima volta nella rivista «Playboy» edizione italiana, anno II, n.9 settembre 1973, pp. 43-52:47, poi in Id., Romanzi e racconti, a cura di W. SITI e S.DE LAUDE, Mondadori, Milano, 1998, vol. II, pp. 1884-1892.

[44] Roghi dei morti sulle rive del Gange, rito antico dell’oriente che infonde serenità. I corpi bruciano lentamente, cosparsi di fiori e di profumi.

[45] P.P.PASOLINI, L’odore dell’India, p.110.

[46] Ivi, p.103.

[47] P.P.PASOLINI, Pier Paolo Pasolini. C'è un abisso fra Nehru e gli indiani.

[48] Ibidem.

[49] P.P.PASOLINI, Israele, su «Nuovi Argomenti», n.6, aprile-giugno 1967, p.278.

[50] P.P.PASOLINI, Conversazione con Pasolini, 1967, in J.MEKAS, Scrapbook of the sixties: writings 1954-2010, Spector Books, Leipzig,  2015, pp.157-164.

[51] S.MARTÍN GUTIÉRREZ, I due viaggi a New York, 1966-1969 in Pier Paolo Pasolini. Sotto gli occhi del mondo, ed. M.A.BAZZOCCHI e S.MARTÍN GUTIÉRREZ, Contrasto, Roma, 2022, pp.158-182.

[52] P.P.PASOLINI, Guerra Civile, 1966, in Id., Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, p.144.

[53] S.MARTÍN GUTIÉRREZ, Pasolini e la guerra del Vietnam, «Città Pasolini»,15 febbraio 2022.

[54] P.P.PASOLINI, La rabbia del poeta, su «Vie Nuove», n.38 del 20 settembre 1962, ora in Le belle bandiere, ed. C.FERRETTI, Editori Riuniti, Roma, 1997, p.223.

[55] R.COSTA, In India con Pier Paolo Pasolini. Appunti per un film, 1968, RAI.

[56] P.P.PASOLINI, Appunti per un Poema sul Terzo mondo, in Id., Per il cinema, vol.II, pp. 2677-2686.

[57] Nel 1962 il regista effettuò una serie di provini ambientati nella borgata del Mandrione, presso le baracche addossate all'acquedotto romano dove, secondo lui, si trovava la sua Africa. Era sua intenzione trasformare in film un trattamento da lui scritto ambientato in Congo durante la guerra civile seguita all'indipendenza dal Belgio ottenuta nel 1960. È la storia della scoperta della propria identità da parte di un ragazzo negro, Davidson 'Ngibuini: un adolescente come tanti altri, che venuti dalle tribù lontane vivono e studiano tra i cortili e le baracche-dormitorio della scuola di Kado, in Africa. Il regista non trovò finanziatori, spaventati dalla sua libertà di pensiero, e il progetto non si realizzò.

A. BINI, I primi passi del regista Pasolini, capitolo II, Il padre selvaggio, su «L'Europeo», 28 novembre 1975, p.53.

[58] P.P.PASOLINI, In due locali torinesi il film dello scandalo: Il fiore delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini, ed. P.PERONA, su «La Stampa», giovedì 29 agosto 1974, p.6

[59] G.GRAZZI, L’India vista dai grandi registi, sul «Corriere della Sera», martedì 28 settembre 1999, p.52.

[60] L. PESTELLI, L'India di Rossellini a Cannes, su «La Stampa», domenica 10 maggio 1959, p.7.

[61] L. MADEO, Pasolini: La TV è peggio della guerra in Vietnam, in «Stampa Sera», 6 dicembre 1967, p.3.

[62] Elsa Morante in quegli anni era molto influenzzata da Simone Weil e la sua passione per le antiche leggende indiane.

[63] P.P.PASOLINI, Lettere al direttore. Pasolini e la televisione, su «La Stampa», 12 martedì dicembre 1967, p.3.

[64] P.P.PASOLINI, Storia Indiana, in Id., Appendice ad ‘Appunti per un film sull’India’, 1075.

[65] R. FLAHERTY, Robert Flaherty,ed H.AGEL. «Seghers, Cinéma d’aujourd’hiu», Parigi, n.32. 1964.

[66] P.P.PASOLINI, I segni viventi e i poeti morti, 1967, pubblicato per la prima volta su «Rinascita», n.33, 25 agosto 1967, in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972, p.253.

[67] S.MARTÍN GUTIÉRREZ, Edipo re di Pier Paolo Pasolini: al di là dell'autobiografia. UAM, Madrid, 2019, pp.93-96.

[68] Ivi, pp.213-124.

[69] Nel film, Edipo ha appena appreso la profezia dell'Oracolo di Delfi e vaga per i paesaggi desertici. All’improvviso intravede il carro su cui viaggia un re, Edipo e Laio si sfidano con lo sguardo. Per quanto riguarda il montaggio della scena, Edipo attacca il carro di Laio entrando da sinistra a destra, è in controluce ma per il colpo finale il sole inonda l'intero piano. L'inquadratura è invertita e la telecamera passa sopra, improvvisamente Edipo non guarda nella direzione in cui l'azione era iniziata ma piuttosto nel contrario. In questa scena anche i principi basilari del campo-controcampo vengono scossi, la luce spezza gli anelli di congiunzione. Si tratta di una scena in cui le inquadrature si ripetono ma girate con obiettivi diversi in un effetto di insistenza visiva. Un'insistenza che mira a rafforzare il peso rituale dell'omicidio di Laio per mano del figlioIvi, p.328.

[70] P.P.PASOLINI, Storia Indiana, p.1077

[71] P.P.PASOLINI, In India con Pier Paolo Pasolini. Appunti per un film, ed. di R.COSTA, con il titolo L’India di Pasolini, su «Vie Nuove», n.4, 25 gennaio 1968, ora in Pier Paolo Pasolini sconosciuto, ed. di F.FRANCIONE, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2013, pp.20-39.

Il documentario è stato trasmesso il 22 marzo 1968 sul Terzo Programma per la Serata e soggetto, ora su RAI TECHE.

[72]Girato in due tempi, nel dicembre 1968 e poi nel febbraio 1969,  è una sorta di diario di viaggio, un saggio per immagini per un film da farsi.

[73]L.PERONI, Incontro con P.P.P., su «Inquadrature – rassegna di studi cinematografici», n.15-16, autunno 1968, pag. 33-37.

[74] Nel 1962, Pasolini dedicherà la sceneggiatura di Mamma Roma Roberto Longhi, dichiarando esplicitamente d’essergli debitore della (sua) folgorazione figurativa.

[75]P.P.PASOLINI, Una trasformazione sacrilega, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, p.1194.

[76]P.P.PASOLINI, In India con Pier Paolo Pasolini. p.33.

[77]P.P.PASOLINI, Appunti per un film sull’India, p. 1066.

[78] P.P.PASOLINI, Appunti per un film sull’India, p. 1068.

[79] P.P.PASOLINI, Storia Indiana, cit., p.1078.

[80] P.P.PASOLINI, Appunti per un film sull’India, p. 1068.

[81]P.P.PASOLINI, Quasi un testamento. Un’intervista di Peter Dragadze, su «Gente», 17 novembre 1975 pp.25, 26, 29, 31, 32, 35.

[82] P.P.PASOLINI, Appunti per un film sull’India, p. 1069.

[83] P.P.PASOLINI, In India con Pier Paolo Pasolini, p.36.

[84] P.P.PASOLINI, L’odore dell’India, p.146.

[85] P.P.PASOLINI, Appunti per un film sull’India, p.1072.

[86] Ivi, p.1078.

[87] Ibidem.

[88]P.P.PASOLINI, Appunti per un Poema sul Terzo mondo, in Id., Per il cinema, vol.II, pp. 2677-2686.

[89] L'elemento centrale del cinema di poesia teorizzato da Pasolini è stato lo stile. L'autore stesso affermò molte volte che se nel cinema di prosa i protagonisti, come nei romanzi classici, erano i personaggi, la loro storia e il loro ambiente, nel cinema di poesia il protagonista era lo stile. P.P. Pasolini, Appunti per un Poema sul Terzo mondo, cit., pp. 2677-2686.

[90] P.P.PASOLINI, Impotenza contro il linguaggio pedagogico delle cose in Lettere luterane, Garzanti, Milano, 2010, p.50.

[91] P.P.PASOLINI In due locali torinesi il film dello scandalo: Il fiore delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini, ed. P.PERONA, su «La Stampa», giovedì 29 Agosto 1974, p.6.

[92] Di origine indiana è, ad esempio, la storia-cornice di Shahrazàd e della morte evitata continuamente attraverso la curiosità destata nel re per i racconti che, di notte in notte, la ragazza gli narra.

[93] Ibidem.

[94] P.P.PASOLINI, Il mio lungo viaggio, su «Tempo illustrato», Milano-Roma, 31 maggio 1974

[95] L. MADEO, Pasolini, da Chaucer alle Mille e una notte, su «La Stampa», sabato 24 giugno 1972, p.7.

[96] D.Maraini, In due settimane scrivemmo Il fiore delle mille e una notte in Cinecittà News Paper n. 4, 2005

[97] P.P.PASOLINI, Dalla conferenza stampa tenuta a Cannes, nel maggio del 1974, Office national de radiodiffusion télévision française; cit. in Pier Paolo Pasolini: il cinema in forma di poesia, ed. R.BASANO e R.CHIESI, Museo Nazionale del Cinema, Torino, 2009, pp. 103-104.

[98] P.P.PASOLINI, In India con Pier Paolo Pasolini. Appunti per un film, p.33.

[99] F.PEREGO, Con Pasolini alla ricerca delle "Mille e una notte, su «Tempo illustrato», n. 8-9, Roma, 11 marzo 1973.

[100] P.P.PASOLINI, Le mie Mille e una notte, pp. 1884-1892.

[101] Fatehpur Sikri è forse l’esempio architettonico più eloquente del sincretismo tra mondo persiano e mondo indiano. I suoi edifici rappresentano una sintesi unica di motivi e metodi di lavorazione indiani posti al servizio del monarca musulmano Akbar.

[102] Ibidem.

[103] Il fiore delle Mille e una notte. Scheda tecnica e artistica in Pier Paolo Pasolini. Le regole di un’illusione, ed. L.BETTI e M.GULINUCCI, Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma, 1991, p.301.

[104] P.P.PASOLINI, Con Pier Paolo Pasolini, ed. E. MAGRELLI, Bulzoni, Roma, 1977, pp. 109-110.

[105] P.P.PASOLINI, Le mie Mille e una notte, pp. 57-58.

[106] P.P.PASOLINI, Conferenza stampa della Lega italo-araba, Roma, ottobre 1974, in Id., Pasolini. Per il cinema, vol.II., p.2123

[107] F.SERAPIONI, Lo Yemen che sedusse Pasolini, ed. M.L.TIBIEN, su «La Stampa», 5 settembre 1988, p.3.

[108] P.P.PASOLINI, Il fiore delle Mille e una notte in Id., Per il cinema, vol.II, pp. 1702-1703.

 

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