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Questionario a Pier Paolo Pasolini, rivista Destino, 15 febbraio 1975.

  • Immagine del redattore: Città Pasolini
    Città Pasolini
  • 19 set
  • Tempo di lettura: 5 min
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Pasolini durante le riprese del film Il fiore delle Mille e una notte a Isfahan, Iran, 1974 © Roberto Villa/Cineteca di Bologna/Tutti i diritti riservati

Qual è, secondo lei, la funzione specifica del regista? Quali relazioni intrattiene con la propria équipe e chi sono i suoi collaboratori più stretti durante la realizzazione di un film?


Questo problema mi si pone in maniera abbastanza singolare, poiché io non sono un regista in senso tradizionale: l’idea originaria nasce da me, il soggetto nasce da me, la sceneggiatura nasce da me, la scelta delle location nasce da me, la selezione degli attori nasce da me. Quando giungo a realizzare il film, nel senso specifico e professionale del termine, il film è in buona parte già realizzato, pertanto non vi è una netta distinzione tra ideazione e regia.


D’altra parte, non ho molta esperienza di come lavorino gli altri registi che sono dei puri metteurs en scène, come li chiamano i francesi, e non autori. Io sono arrivato al cinema in maniera non professionale. Non ho seguito un percorso formale, un curriculum, e ho poca esperienza cinematografica. Conosco solo il mio cinema, quindi il mio punto di vista è necessariamente particolare.


Inoltre, sono un autore molto "dittatoriale", nel senso che faccio tutto io, ma mi avvalgo comunque della collaborazione di altri, con i quali mantengo rapporti tutt'altro che autoritari, bensì piuttosto democratici. Li scelgo con molta attenzione, e una volta scelti, tendo a non lasciarli più. Con Tonino Delli Colli, direttore della fotografia, collaboro da dodici anni, e quando ho dovuto sostituirlo, l’ho fatto con giovani che erano stati suoi allievi. Con lo scenografo Ferretti ho iniziato a lavorare nel Vangelo secondo Matteo, e da allora è sempre stato con me.


Tendo a lavorare con loro in maniera molto confidenziale, molto informale, come tra veri amici.


Seconda domanda: può un regista, partendo da una sceneggiatura debole (dal punto di vista della scrittura), realizzare comunque un film soddisfacente? O ciò non lo riguarda direttamente? Qual è la sua opinione?


Evidentemente, questo problema non mi tocca direttamente. Tuttavia, posso affermare che una sceneggiatura ha un’importanza fondamentale, non tanto per la sua somiglianza col film nella sua rappresentazione, quanto perché la struttura della sceneggiatura diventa la struttura del film, al di là dell’aspetto linguistico.


Lei sa che le strutture possono essere non linguistiche. Dunque, se la struttura della sceneggiatura è non linguistica, allora può coincidere con quella del film, anche se le due rappresentazioni sono diverse. Per me la struttura di una sceneggiatura è sempre fondamentale. Può accadere che una sceneggiatura sembri orribile, ma che ne derivi comunque un buon film. Perché? Perché magari era scritta male, ma la sua struttura era solida.


Discute prima delle riprese la messa in scena di alcune sequenze con i suoi collaboratori più stretti?


Non discuto mai in termini teorici con i miei collaboratori. Avendo pensato il film in silenzio, la discussione diventa sempre pratica. Ora, ad esempio, sto scegliendo la villa per il mio prossimo film, e lo faccio insieme al mio scenografo Ferretti. Poiché abbiamo lavorato tanto insieme, talvolta è lui a spingermi a essere più coerente con me stesso. (Risate…)


In quale percentuale si considera responsabile del risultato finale del suo film?


In altissima percentuale, perché la scelta è stata interamente mia. Inoltre, posso mettere la mano sul fuoco per il mio operatore e il mio scenografo: so che svolgono il loro lavoro in modo eccellente. Se il film risulta mal riuscito, l’unico responsabile sono io.


Qual è la sua opinione sulla “politica degli autori”?


Riesco a concepire solo il cinema d’autore. Non ho alcuna esperienza di altro tipo di cinema.


In che misura la sua formazione intellettuale ha determinato il suo metodo di lavoro?

Non avendo una formazione cinematografica, i presupposti tecnico-stilistici del mio cinema non sono esclusivamente cinematografici. Sono piuttosto di natura letteraria o, se si preferisce, figurativo-pittorica. Ho iniziato a concepire i miei inquadramenti non sulla base dell’esperienza cinematografica, ma partendo da esperienze figurative: la composizione dei quadri, i dettagli pittorici.


Il mio primo film, Accattone, l’ho girato come un pittore dipingerebbe un quadro. Vi è sempre il campo/controcampo, vi sono sempre due campi contrapposti. I personaggi sono sempre ripresi frontalmente, non escono mai dall’inquadratura, come nessun personaggio di un affresco di Masaccio uscirebbe mai dal quadro. Vi sono alcune manie stilistiche che si sono imposte da sé e che definiscono il mio cinema. Provengono dall’arte figurativa e da una certa letteratura.


Qual è l’interrelazione tra il suo metodo di lavoro e le condizioni materiali che lo rendono possibile?


Che vuole che le dica? Non c’è mai contrasto. Un regista sa fin dall’inizio quali sono le possibilità. Le condizioni materiali non sono altro che una forma di metrica. Sarebbe come chiedere a Dante: qual è il tuo rapporto con la terzina? È un rapporto naturale, perché Dante, prima di scrivere la Divina Commedia, aveva già deciso che l’avrebbe scritta in terzine. Ci fu una lotta tra ispirazione e metrica.


Accade lo stesso con il problema economico di un film. Prima di realizzarlo, so benissimo quali sono i limiti economici e li calcolo fin dall’inizio.


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In che modo le condizioni materiali di lavoro hanno influito sull’evoluzione del suo pensiero?


Tutto il cinema ha determinato una parte del mio pensiero. Innanzitutto, ha contribuito a formulare una mia teoria linguistica, che ho raccolto in un libro intitolato Empirismo eretico. In secondo luogo, ha modificato la mia Weltanschauung, perché da quando faccio cinema, vedo il mondo in modo diverso.


Il cinema, per me, è stato un po’ come la scrittura per l’umanità: nel momento in cui l’uomo ha visto la propria scrittura, ha acquisito una maggiore coscienza della propria lingua. Vedendo la mia scrittura cinematografica, ho acquisito coscienza della mia lingua. E la mia lingua si è rivelata a me come una sorta di rivelazione, poiché ho constatato che il codice cinematografico e quello linguistico coincidono.


Questo significa che il codice della realtà e quello del cinema coincidono: quando la vedo, la leggo. Lei è un segno vivente di sé stesso, e la lettura che faccio di lei nella realtà è pressoché identica a quella che farei se lei apparisse sullo schermo. Il codice è lo stesso: guardo i suoi occhi, i capelli, il modo di vestire, il colore degli abiti, il tono della voce, le espressioni mentre parla… tutte queste regole con cui la leggo nella realtà mi servono anche per leggerla nel cinema.


È stato abbastanza impressionante scoprire questa identità tra i due codici, perché ciò mi ha fatto comprendere che se il cinema è una lingua, allora ha un codice, e questo codice è lo stesso che ci serve per interpretare la realtà. Il che vuol dire che anche la realtà è una lingua. Ma la lingua di chi? E questa domanda mi ha aperto a certe soluzioni teologiche che prima non avrei mai immaginato.


È una dicotomia un po’ arbitraria, ma in quale delle due definizioni inserirebbe il suo lavoro: arte-espressione o comunicazione-ricerca?


Sono due distinzioni che non conosco. (Risate…)


Mi riferirei piuttosto alla distinzione tra comunicazione ed espressività. Ora noi due stiamo comunicando, e il 90% del nostro linguaggio è comunicativo; il restante 10% è espressivo, fatto di mimica, di aggettivi inventati sul momento… che non sono comunicativi, ma poetici.


In un’opera d’arte accade il contrario: il 90% è espressivo e solo il 10% comunicativo. I linguisti distinguono due tipi di linguaggio: quello comunicativo, usato per scambiare informazioni, detto anche referenziale, e quello espressivo, tipico delle opere d’arte.


Quando faccio un film, cerco evidentemente di usare il linguaggio espressivo al massimo.


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Cuestionario a Pier Paolo Pasolini, intervista di Valentí Gómez Olivé e Ramón Herreros, su «Destino», 15 febbraio 1975, pp.22-25. Traduzione all'italiano, Silvia M.Gutiérrez

 

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