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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Incontro col Living, un testo di Pasolini su Tempo, 1969.


Pier Paolo Pasolini a New York, 1969 © Duane Michals/Admira Photography/Tutti i diritti riservati

Sono corso, alle otto di sera, attraverso quella città sublime che è Nuova York, per raggiungere "The academy of music" a Brooklyn, un grosso e vecchio teatro dove c'era una rappresentazione del Living Theatre. Ecco il palcoscenico in fondo alla platea ancora semivuota, gli attori del Living: Ben Israel, Rufus, e, con la faccia bianca, il piccolo cranio calvo scintillante, e i capelli tirati, lunghi dietro le orecchie, Julian Beck. Meditano, provocatori, nel loro rito estetico che vuol farsi pragmatico, iniziazione a una coscienza fondata su una idea "riflessa" della religione: protesta e non-violenza. Freud e i santi indiani. Sono commoventi, cari, mi vien voglia di salire sul palcoscenico e abbracciarli. La platea a poco a poco si riempie: è piena. É la misteriosa gente di Nuova York, che non ha equivalenti in Italia: intellettuali disperati, coi segni di una degenerazione fisica cercata, di una protesta ostentata e codificata, generosi, ingenui, apparentemente senza ambizioni, e nel tempo stesso falliti e disperati, estranei gli uni agli altri, fino alla crudeltà di chi è inattingibile e inavvicinabile, e nel tempo stesso perduti nel bisogno degli altri, verso cui sono disponibili in modo quasi imbarazzante, indifesi portatori di valori di estraneità e insieme di omertà; il loro modo di vestirsi non ha limiti, ormai "tutto" rientra nella norma (anche se in questi giorni c'è un certo prevalere della moda "india" con bende rosse che cingono la testa, ecc.).


Comunque sia, i "destinatari" del Living sono un numero enorme, benché più "off" di così, quanto a decentramento, non si possa essere. La crescita smisurata dei destinatari ha fatto diminuire il potere di provocazione del Living, e quindi la sua oggettiva necessità e purezza. Inoltre, lo spettacolo obbligatorio a Nuova York è oggi "Hair" (passata a Broadway, dopo una lunga permanenza "off", tra gli hippies, ecc., e dunque integrata e assimilata). É una rivista musicale molto graziosa e priva di volgarità, con tutti attori giovanissimi e, come si dice in gergo, "straordinari", ecc'. Veramente struggenti, dal ragazzo negro col giubbotto corto di pelo, al ragazzino biondo coi capelli sempre sugli occhi, ecc'. "Hair" è una specie di carosello nuovaiorchese, piuttosto folcloristico, che passa in rassegna tutto ciò che di ribelle accade nella città: tutto con molta grazia, e, alla fine, la morte del soldatino nel Vietnam è commovente.


Ma tutto è dunque andato a finire così? Nuova York resta una città sublime, è certo, il vero ombelico del mondo, dove il mondo mostra ciò che in realtà è. Tuttavia rispetto a tre anni fa, tutto sembra sospeso e come morto. Dov'è scomparso Ginsberg? E Bob Dylan? É solo questione di una moda passata? E dove sono scomparsi i cortei di pacifisti e i ragazzi che cantano sulla chitarra, come se questo accadesse per la prima volta nel mondo, canzoni contro la guerra? Dov'è la tragedia spettacolare, vissuta pubblicamente e perciò trascinante, vitale, esaltante? Tutto è cessato: ne è rimasto il folclore come la stupenda squama di un serpente sgusciato via, sottoterra, underground, a lasciare capelloni spenti, piccoli gangster, folle di disperati a popolare l'America di Nixon.


Pier Paolo Pasolini. Incontro col Living, Tempo, n. 16 a. XXXI, 19 aprile 1969. Ora nel volume Il caos, 162-163

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