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L'ispirazione poetica. Un testo di Pier Paolo Pasolini del 1947


Pier Paolo Pasolini immortalato da Francesco Krivec (1947) © Pro Casarsa della Delizia / Riproduzione riservata

L'intervento della ragione nello scrivere poesia è talvolta una spinta persuasiva, cosciente verso l'irrazionale. Si sa che l'abbandonarsi al sentimento (all'ispirazione) è una ebbrezza privata in cui limiti moralistici o estetizzanti sono al di qua della poesia appunto perché non vi interviene la critica. La presenza di questa durante una stesura di versi è qualcosa di estremamente delicato, in quanto è essa che deve suggerire la sintassi, le immagini, gli attributi, ecc. che non distruggano con la loro natura materiale, e quindi serena, imperturbabile, la severità e l'impegno morale della confessione.


È evidente che con "critica", "ragione" intendo parlare di quella coscienza poetica su cui ha posto per primo mano Baudelaire. In seguito a questa coscienza l'irrazionale si libera diligentemente, diviene un nuovo mito assai diverso da quello che per i romantici era l'ingenuità. La liberazione avviene, è naturale, in modo diverso dei diversi poeti: l'oeil double di Verlaine gli suggerisce "les lueurs musiciennes", il "sommeil noir" ecc., cioè la sua musicale escarpolette. È utile poi parlare del valore di tale coscienza di Mallarmè e in Valéry. Un punto saliente di questo processo è la rinuncia e la disistima dell'ispirazione, in quanto al distacco del poesta dalla sua "vicissitudine" prestabilito, e non più dovuto a quel sentimento che potrebbero ancora accampare i romantici a questo fine, l'ironia, ma a una rigidità critica, al senso dell'assoluto che pervade la volontà di Eupalino. La presenza di questo nuovo elemento, la coscienza della poesia, distrugge le illusioni romantiche, annulla quella irrazionalità che era sempre rimasta latente in ogni poesia anteriore, e che si era attuata più che altrove, in quelle opere primitive, così vagheggiante dai romantici, così incomprese.


L'irrazionale dei poeti puri è più vicino di qualsiasi altro a quello della poesia delle origini, come la intendeva e la tratteggiava al Vico. Non vuol dir nulla se tale irrazionalità è, ora, cosciente. L'analogia è uno dei fatti più probatori sulla natura di ispirati dei poeti puri, in quanto, benché postulata e accettata dalla volontà, è dovuta a un meccanismo irreversibile della fantasia, e il poeta deve passare attraverso a un momento di cecità per scoprire fuori dal mondo di cui è passabilmente cosciente, un rapporto fra due immagini o concetti che l'abitudine con concatena. Questa testimonianza che il processo poetico dell'analogia ci presta ha valore naturalmente in sede empirica, quando non si permetta una nozione generale di poesia, e semplicemente la si intenda come presenza: presenza materiale. E ciò è consentito dall'atto che col procedere della scoperta della poesia pura, si sviluppa il concetto della poesia come tecnica, che è appunto quello che determina la svalutazione del "poeta ispirato".


Novalis, Coleridge, Shelley, Keats scoprono come ricerca a sè il mezzo esteso dell'arte, la parola, che è suono, colore. Già Burke aveva pensato: "La poesia è sempre una sostituzione di cose con suoni". Ed ancora Novalis: "L'indicazione per mezzo dei suoni e dei segni è un'estrazione degna di ammirazione. Con tre lettere mi si mostra Dio". E Shelley: "C'è un doppio rapporto dei suoni coi pensieri e con le cose che essi rappresentano...". "Una percezione - chiarisce l'Anceschi ("Autonomia ed eteronomia dell'arte") - dell'ordine di questa relazione fu sempre trovato comune ad una percezione dell'ordine dei pensieri: c'è una spezie di rapporto costante tra pensiero e musica, tra parola e suono". A simili riflessioni così remote e quasi ermeneutiche, quei poeti erano mossi da un comune furor poeticus, cioè un anormale senso di bellezza. E Keats dice per tutti: " ... è che per un gran poeta il senso della bellezza domina ogni altra considerazione". Questo dedicare la vita alla letteratura; questo assottigliare il proprio pensiero in estreme finezze poetiche; questo addentrarsi avventuroso nelle ragioni dello spirito, non testimoniano una reale "autonomia" di quei poeti? E quindi, in gran parte, l'ispirazione poetica della loro poesia. Certo, il riconoscere il mezzo poetico come qualcosa di assolutamente diverso, e, nello stesso tempo, isolabile, tangibile, era un separare, se non del tutto consciamente, la poesia da ogni altro fatto spirituale, e, in fondo, dallo spirito stesso. Quando Novalis nei frammenti pensa che bisogna scrivere come se si componessi musica, o propone di inventare le leggi di una "Fantastica", che ponga le ragioni universali della bellezza delle parole; o quando Wordsworth si impegna di "adattare alle leggi metriche una scelta del linguaggio reale degli uomini in uno stato di vivida sensazione"; o Coleridge paragona l'illuminazione rivelatrice e rinnovatrice della poesia all"improvviso incanto che gli accidenti di luce e omabra diffondono sopra un paesaggio conosciuto e famigliare"; noi vediamo tutti questi poeti immersi in una stato che non è più umano, o logico, o filosofico, ma puramente poetico. E si potrebbe identificare questa pratico leavoro, questo indistinto indugio sulla tecnica, a quella che Shelley definiva "poesia in senso ristretto", estremo affinamento del mezzo espressivo, che finiva col distrarre tanto il poeta da divenire esso stesso il vero, unico scopo del poetare. Shelley non poteva sboccare ancora, naturalmente, al concetto della purezza; ma già forse, in segreto, vedeva in quella poesia in senso ristretto, cioè lavoro creativo, scelta delle parole, il suo solo, dolce fine. È così che quei poeti romantici preparano la strada a Baudelaire, a Mallarmé ...


Ponendo la questione in tali termini non è avvertibile qualcosa di patologico nella nascita della nozione dell'autonomia della poesia in sè? (Non si dimentichi che da quegli stessi poeti del pieno ottocento nascerà, per altre vie, il decadentismo. E si legga a questo proposito l'esauriente libro di Praz su "La morte, la carne e il diavolo nella letteratura romantica"). Infatti nasceva da un errore, da una passione. E poiché l'antinomia fra autonomia ed eteronomia è, fatalmente un dilemma universale e non contingente dello spirito, e , come tale irrisolvibile in teoria, ma risolvibilissimo momento per momento, ecco che quei poeti cadevano con tutta naturalezza dal loro fantastico, delirante, appartato desiderio di pura bellezza, ad filosofica e convenzionale dichiarazione della moralità dell'arte, riconsocendo in essa, una parte, non del tutto lo spirito umano. Sono i soliti inevitabili ritorni da un polo all'altro dell'antinomia, che si ripetono on ogni poeta, e, sotto forma di movimenti estetici su alternano nelle epoche letterarie. Tuttavia per opera di Edgar Allan Poe la malattia inoculata del mezzo della poesia è già in grado avanzato e, con Baudelaire, si avvia a trasformare completamente quel mezzo in fine " ... è dunque capitato che a forza di scrutare in sè la coscienza dell'arte, si pe finito per metter mano su qualcosa di scottante, che vi sta ranicchiata in fondo, e che l'arte non riesce a contenere in sè, più di quello che il mondo non riesca a contenere Dio", (J.Maritain). Da questo discorso è facile constatare quanto si sia lontani dalla concezione della poesia come assenza (si ricordino alcune parole di Carlo Bo) concezione che si presenta a prima vista come l'estrema e coerente conseguenza della poesia pura. Per noi la poesia di Mallarmé non è nella pagina bianca (nel bianco eterno della pagina, proprio del cielo intatto...) ma nella sua parola. E la Poesia è davvero "il nostro più vero presente", sì, ma in quanto siamo terreni, ed essa stessa è presente, tangibile, res extensa. Lo sforzo di tutti i poeti che vengono dopo il momento in cui la "poesia comincia a prender coscienza di se stessa in quanto poesia" non è vero il silenzio, è, al contrario, verso una resa straordinariamente perspicua del valore sensibile della parola. Si vedano - testimonianza esemplare - i rifacimenti ungarettiano, e, tra le alte, le seguenti, nitidissime righe di Eugenio Montale: "Ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto". Era naturale quindi che si guardasse sorridendo al poeta ispirato, come a colui che affidandosi a un'ingenua irrazionalità, cadesse più facilmente nei vizi da cui l'irrazionale sembrerebbe invece salvaguardarlo, cioè il discorso logico, il moralismo, ecc. Ma abbiamo delle ragioni sufficienti per pensare che anche i poeti puri fino a Ungaretti beneficino del soccorso dell'ispirazione, in quanto il sentimento della poesia pura, della pagina bianca da violare, è anch'esso un sentimento, e come tale suscettibile di distensioni e di tensioni. Come si vede, dunque, riferiamo positivamente a questi poeti un argomento usato di solito per dimostrare il loro errore, il quale consisterebbe - dopo il rifiuto di tutti i sentimenti in quanto "impuri" - nell'affidare la poesia a un altro sentimento, quello teorico della poesia pura, "impuro" quindi anch'esso. Ma se così non fosse, Bo avrebbe davvero ragione, e il silenzio sarebbe davvero la loro poesia. Noi riconosciamo pertanto in quel sentimento un aspetto dell'ispirazione, poiché può giungere ad un acme, ad una specie di furor poeticus, che consente a scrittura, una particolare scrittura il cui irrazionale è vagliato dalla ragione. Vagli che tuttavia è fatalmente limitato: per nulla Valéry scrive che il primo verso una lirica ci è regalato dal Cielo. Dalla presenza dell'inspirazione (il babau di Ungaretti, e insomma, almeno a parole, di tutti i moderni), quando per ispirazione si intenda l'acuirsi della speranza di potersi approssimare alla purezza, deriva la possibilità di raccogliere in antologia l'opera di uni di questi poeti; scelta che altrimenti non sarebbe nemmeno concepibile. Anche Ungaretti, come Pascoli, D'Annunzio, ecc., annovera i suoi momenti felici.


Ora, ciò che è veramente difficile è definire in cosa questi consistano, a meno che non si voglia scadere a certi giustificazioni abitudinarie, come per esempio, che si tratti del risultato di una lunga esperienza. Meno pedestre sarebbe il richiamarsi a quella "serenità" che i rondisti hanno scoperto in Leopardi (e che il Contini ridefinisce allegria); ma come si vede la questione non si risolve per avere adottato un nome più esatto. Noi saremmo tentati, in un clima freudiano, di ricordare la teoria di Hevelok Ellis, che attribuirebbe alla nostra sensualità un moto periodico di tensione e di distensione; e certo non ci mancherebbe il coraggio, se fossimo più esperti in questa materia di legare a quella periodicità l'efficienza dell'ispirazione. Chi usa scrivere versi, del resto, avverte a priori una disponibilità alla scelta delle parole. (È sempre la poesia intesa come tecnica, come materia, la shelliana poesia in senso ristretto, che ci importa; così che davvero le parole "aderenti", quasi in un senso fisico, riescono le parole pure). L'ispirazione sarebbe dunque uno stato, quasi fisico di disponibilità a riudire nelle sillabe qualcosa di vigoroso, di corporeo, cioè la loro verginità, la loro equivalenza al reale?


Questo ci sembra abbastanza soddisfacente, se interpretato nell'ambito della concreta scrittura; altrimenti, come Valéry a proposito di Mallarmé, abolito in concetto romantico di ispirazione, dovremmo parlare di una illuminazione (anteriore alla tecnica?), la quale non sarebbe altro che un'ispirazione pagana, come i classici la invocavano alle Muse. Così il primo verso donato da Dio verrebbe ad essere semplicemente il salto sella prima stesura, quella che nasce dall'urgere di un sentimento umano e non estetico. Insomma noi non sapremo mai com'è nato il "meriggio d'un fauno" o "Il cimitero marino", perché le prime stesure sono rimaste bruciate dalla coscienza, mentre ci si presenta chiara la storia dell'"Infinito", ed è una storia veramente significativa. Dapprima l'onda dei sentimenti, l'emozione, cerca una forma falsamente filosofica, e "L'infinito" si intitola "Sopra l'infinito" (O quanto a me gioconda quanto cara fummi quest'erma sponda...), indi moraleggiante, intitolandosi "Della natura", ed è veramente la stesura sentimentale, la stesura-sfogo:


Sempre adorata mia solinga sponda

Deh perché agli occhi miei furi la vista

Dell'incantevole e magico effetto

Che natura concede alle creature ...


Infine, dopo un breve appunto in prosa, già molto puro, abbiamo l'ultimo "Infinito", che è semplicemente lirico, senza nessuna altro pretesto. Così, mentre nelle prime stesure, che nel senso consumato della parola, sono ispirate, abbiamo dei versi filosofici, moraleggianti (cioè razionali) nell'ultima stesura, che rivela una calma immensa, quasi una fatale impassibilità, si scatena tutto l'irrazionale (musica, ritmo, ineffabile) della poesia. È questa seconda ispirazione, non sentimentale, ma propriamente "poetica" che non ha cessato di essere valida e che aspetta di salire alla coscienza di coloro che usano ancora relegarla, nel suo senso minore, fra gl'idoli sconsacrati.


Pier Paolo Pasolini L'ispirazione nei contemporanei, in La fiera letteraria, 06.03.1947
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