Pier Paolo Pasolini nella casa di via Giacinto Carini 45, Roma, anni Sessanta ©MARKA/Getty Images/Tutti i diritti riservati
Signor Direttore,
spero che lei accetti di pubblicare questa mia lettera aperta, a proposito di una intervista che ho rilasciato alla signora Madeo e pubblicata su «Stampa Sera» del 5 dicembre, col titolo, pressapoco, La Tv è peggio del Vietnam.
Non è una lettera di ritrattazione, ma di precisazione. E il caso, inoltre, mi pare di per sé abbastanza interessante: infatti io, proprio nei giorni in cui ho rilasciato questa intervista, mi accingevo a fare un lavoro per la Tv, e precisamente un breve documentario per «Tv 7», sotto forma di sopralluogo per un film da girarsi in India. Ero dunque pronto a prendere l'aereo per Bombay con la mia piccola troupe e con in cuore un grande programma. In seguito alla pubblicazione della mia intervista su «Stampa Sera», sapendo la giusta costernazione che essa aveva portato tra i miei datori di lavoro, ho creduto opportuno scrivere una lettera di rinuncia, per lo stesso lealismo, per cui, se avessi occupato un posto di responsabilità, avrei considerato mio dovere dare le dimissioni.
Il film che avrei dovuto fare per la Tv — in una combinazione, di recente formula, per cui il film sarebbe stato in parte consumato da spettatori normali del cinema e in parte dai telespettatori — era un film sul problema della fame. La storia di una famiglia indiana i cui membri a uno a uno muoiono di fame. Il momento storico di tale vicenda — per rispetto all'India attuale, che soffre questo problema e lotta con tanta dignità per risolverlo — sarebbe stato quello degli anni immediatamente antecedenti e immediatamente successivi alla liberazione dell'India. Cioè, il film si sarebbe svolto, in parte, prima della partenza degli inglesi, in parte dopo. Una prima parte preistorica, una seconda storica.
Nella parte preistorica, o introduttiva, si sarebbe vista in realtà un'India ideale: l'India della religione e basta. Il capo della famiglia — che sarebbe divenuta protagonista della mia storia — avrebbe dovuto essere un «maraja» e si sarebbe dato in pasto a dei tigrotti morenti di fame, in una landa coperta dalla neve, per pietà e per sublime disprezzo per la propria carne. Nell'India storica, successiva a questo episodio introduttivo, la famiglia del «maraja », impoverita durante una carestia, appunto, «storica», avrebbe vissuto la tragica vicenda che ho detto, scandita dalla morte per stenti e fame di tutti i suoi componenti.
Perché le ho raccontato la trama di questo mio film? Perché risultasse chiaro questo: che si trattava del progetto di un film assolutamente non commerciale, assolutamente puro e privo di ogni compromesso. Tale rigore, stabilito in partenza, e condizione del film, mi sarebbe stato reso possibile solo se la «produzione» fosse stata della Tv: l'unica organizzazione in grado di trovare un pubblico per tale film (io non credo che si possa fare un film senza pensare a un pubblico, qualitativamente e numericamente da film) e magari di imporlo. Ho perduto una grande occasione. Spero di girare ugualmente questa mia storia. Ma mi sarà difficile, perché purtroppo, per mia natura, non sono capace di disprezzare il produttore — in nome della mia poesia! — ed è difficile appunto che io trovi un produttore in grado di sostituire la Tv per dare corpo a questo mio progetto. Vede, dunque, caro Direttore, che cosa è significato per me rilasciare una intervista al suo giornale e che responsabilità si sono presi il titolista e l'autrice del pezzo. La mia storia di autore e di uomo può risultarne modificata. Certo il dolore che ne ho avuto è di quelli grandi, ma non le scrivo qui per sfogarmi. Ho detto che non voglio ritrattare, ma solo fare delle precisazioni. È vero, poiché io ho sempre avuto molta stima per «La Stampa» (che si è comportata sempre nei miei riguardi nel modo più corretto, obbedendo, direi con grazia e naturalezza, alle regole del fair-play, anche quando il disaccordo tra le mie idee e quelle da essa rappresentate fosse sostanziale) ho parlato con assoluta sincerità con la signora Madeo. Come si parla con un amico. Quindi senza misurare le parole, senza diplomazia, con totale confidenza. Credo, dunque, di aver detto tutte le frasi, le parole e le espressioni riportate dalla Madeo, ma — ed ecco quello che voglio precisare — in un altro contesto. Un contesto dove lo slogan «La televisione è peggio del Vietnam» è una figura retorica, che sta tra la «boutade» e la «sineddoche»: io parlavo cioè della televisione di Partitissima (ossia, magari dell'80 per cento della televisione).
Ora Partitissima e le mille altre trasmissioni dallo spirito affine sono effettivamente peggio della guerra del Vietnam, perché distruggono lo spirito di una nazione e non soltanto alcune migliaia o centinaia di migliaia di corpi. Credo che tutti gli uomini di cultura siano d'accordo su questo: se vuole, provi a fare un'inchiesta. Su questo piano massimalistico, radicale, se vogliamo, anche un po' moralistico, la collaborazione di un uomo di cultura con la televisione è effettivamente impossibile.
Resta il venti per cento (sono cifre scherzose!) della televisione: ossia tutta la parte dell'autenticità documentaria (chiamiamolo lo «specifico televisivo»!) e le poche trasmissioni di carattere autenticamente culturale, anche se, naturalmente, divulgativo (ho partecipato recentemente, come intervistatore, a una trasmissione su Ezra Pound, per esempio). Il meglio di questo tipo di trasmissioni è « Tv 7 », è ben noto.
Dunque io credo che, a patto di dire, anche con violenza, e anche auspicando una marcia di protesta, ciò che della televisione è male — ed è il peggiore dei mali perché mortifica e nega lo spirito —, gli uomini di cultura non possano, se non col risultato di rendersi prigionieri di un rigore che maschera l'aridità e una specie di autopunizione, rifiutarsi al tentativo di chi crede in buona fede di migliorare il livello delle trasmissioni televisive. Ecco dunque in cosa consiste la mia precisazione. Collaborare alla televisione così come essa è, come «un tutto indistinto», come «idea», è impossibile: collaborare al di là di questa fatalità è possibile, e anzi doveroso.
Cordiali saluti dal suo
Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini. Lettere al direttore. Pasolini e la televisione, sul giornale La Stampa, 12 martedì dicembre 1967, p.3.
Pasolini è sempre in disaccordo con se stesso (e con la sintassi: 'la 7 con me si è sempre comportata bene anche quando il disaccordo fosse (era) sostanziale'.