Paolo Desogus. In difesa dell’umano. Pasolini tra passione e ideologia. Recensione e intervista.
- Città Pasolini

- 5 lug
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A un secolo dalla nascita di Pier Paolo Pasolini e in vista del cinquantesimo anniversario della sua tragica scomparsa, che ricorrerà nel novembre del 2025, l’interesse nei confronti della sua figura, tanto in ambito accademico quanto in quello mediatico, non accenna a diminuire. Il suo percorso intellettuale, contraddistinto da una persistente tensione controcorrente, continua infatti a suscitare studi, riflessioni e nuove interpretazioni.
In questo contesto si colloca la recente pubblicazione del volume In difesa dell’umano. Pasolini tra passione e ideologia, edito da La nave di Teseo e firmato da Paolo Desogus. L’opera si presenta come un contributo rilevante e originale nel dibattito critico pasoliniano, soprattutto in un momento in cui si assiste a una tendenza diffusa a ridimensionare il valore della poesia di Pasolini in favore della sua produzione saggistica. Parallelamente, si osserva un tentativo di distanziarlo dalla vicenda del Partito Comunista Italiano e persino dalla sua peculiare ricezione di Gramsci, spesso sottovalutata.
Desogus, al contrario, si propone di ribaltare tale prospettiva. Il suo studio ambizioso attraversa l’intero arco della produzione pasoliniana, soffermandosi su snodi cruciali che permettono una rilettura dell’autore alla luce di una più profonda coerenza ideologica ed esistenziale. I diversi capitoli analizzano il dialogo implicito e talvolta esplicito che Pasolini intrattiene con figure centrali della cultura italiana ed europea: da Gramsci a Dante, da de Martino a Fortini. Ma l’indagine non si esaurisce in questo perimetro: Desogus estende la riflessione anche ad autori come Dostoevskij e Proust, e, soprattutto, ai filosofi della Scuola di Francoforte — Marcuse, Horkheimer, Adorno — la cui elaborazione di una "ragione impura" offre a Pasolini strumenti decisivi per comprendere la condizione umana nella modernità avanzata.
Va detto che la poliedrica attività pasoliniana ha sempre rischiato di oscurare l’aspetto fondamentale della sua vocazione originaria, che rimane quella poetica, anche in senso cronologico. È infatti come poeta che Pasolini si è rivelato, e la sua attività poetica ha costantemente accompagnato quella di regista, critico e romanziere. Proprio perché non si limita alle sue prese di posizione esplicite o alla sua adesione al marxismo, la politicità di Pasolini va ricercata nella sua costante ricerca dell’espressività artistica assunta nel suo complesso, come mezzo per comprendere e criticare la realtà sociale.
Il primo capitolo del libro, che costituirà il nostro punto di riferimento, è intitolato Contraddizioni e critica della ragione impura e propone una lettura innovativa del rapporto di Pasolini con diverse discipline umanistiche, quali la filosofia, l’antropologia e la psicoanalisi. Secondo alcuni autorevoli studiosi, tra cui Walter Siti, Pasolini sarebbe una figura priva di teoria e soprattutto di filosofia. Da questa prospettiva, egli non dovrebbe essere preso troppo sul serio, in quanto «vittima e complice del suo stesso narcisismo». Ne consegue che la forza interpretativa della sua opera risulterebbe priva di rigore metodologico, fondata piuttosto su conflitti interiori e tensioni presenti nel suo universo poetico.
Si tratta di una posizione che ha avuto altri sostenitori. È quanto, ad esempio, ha affermato un antropologo come Alfonso M. di Nola, secondo Pasolini sarebbe animato da un forte irrazionalismo: «la sua diagnosi è carente, mistificata, non intenzionalmente, da un sentimentalismo romantico o post-romantico che si traduce in nostalgia e rimpianto». Analoghe critiche sono state mosse in ambito psicoanalitico, dove a Pasolini è stato rimproverato di un certo dilettantismo. Già all’epoca aveva risposto a queste accuse con forza: «Ho "divorato" Freud, Jung: essi hanno avuto molta importanza nella mia vita. Lo studio dei problemi psicoanalitici in genere è stato per me fondamentale: mi ha dato coscienza di me stesso, ha riportato nel mio "io" un equilibrio che minacciava di rompersi, di frantumarsi al contatto con la realtà». Particolarmente significativa, in questo senso, è una lettera indirizzata a Siti e datata 1970, nella quale Pasolini contesta duramente l’accusa di basarsi su nozioni errate, di cui il critico si dichiarava detentore della corretta interpretazione: «Perché tutte le espressioni che nella psicoanalisi sono puramente enunciative – scientifiche – tu le hai colorate di una tinta o positiva o negativa […] Ne è uscita una lavata di capo, una tirata d’orecchie, chiamala come vuoi, che è la stessa che mi sento ripetere da vent’anni».
A seguito della pubblicazione dell’opera omnia di Pasolini curata da Mondadori, sia Walter Siti, curatore dell'edizione, sia i numerosi autori a carico delle introduzioni tracciano un’immagine di Pasolini decisamente polemica. Nei volumi Romanzi e racconti, Siti recupera una dichiarazione fatta dal poeta a «Paese Sera» risalente al luglio 1960: «Io, in fondo, non sono un romanziere; ho scritto quei due romanzi perché avevo alle spalle un mondo che sentivo». Da qui Siti ha preso le mosse per la sua critica. A Pasolini mancherebbe il senso dell'intreccio, il «gusto di passare da una situazione A ad una situazione B». I suoi personaggi non sarebbero tridimensionali: c'è sempre lui sulla scena, non riesce ad annullarsi in un personaggio, perché per farlo dovrebbe rinunciare alla vita: «Mentre la passione per la vita presente è in Pasolini un fuoco che brucia tutto». Da un’ottica più prudente secondo Dario Bellezza Pasolini sarebbe stato un vero narratore soltanto in alcuni momenti concreti della sua carriera, come per esempio con Petrolio.
Con la pubblicazione dei volumi Saggi sulla letteratura e sull’arte e Saggi sulla politica e sulla società, Cesare Segre e Piergiorgio Bellocchio inaugurarono una nuova fase di «attacchi a Pasolini»: non più espliciti e diretti, come quelli provenienti dalla neoavanguardia e da Fortini, ma più subdoli, velati, mascherati da dichiarazioni oggettive di stima, temperate da qualche riserva, apparentemente parziale. L’obiettivo era smascherare il «tuttologo» Pasolini. Come rilasciato da loro a Ferdinando Camon «Non sapeva cos’era il Cattolicesimo, cos’era il Comunismo, cos’era il Pci: ne aveva una visione personalistica; cos’era la sua famiglia, cos’era suo padre, sua madre, suo fratello: ne aveva una concezione mitica; cos’era la psicoanalisi: ne aveva una concezione culturale, non psicologica». L’accusa finale arrivò da Pier Vincenzo Mengaldo, sul «Corriere della Sera», a proposito di questi due volumi dei Meridiani: Pasolini sarebbe stato un mito noioso, privo di metodo.
Una sentenza che certamente richiama le parole dello stesso poeta nel 1962: «Ora sta nascendo un nuovo tipo di critica: quello presupposto dal neocapitalismo per le masse consumatrici. Sarà divertente vedere la critica farsi più chiara e accessibile e imporre alle masse quello che le masse sono presupposte imporre. In questo giro di cultura aprioristica e preordinata i critici si ridurranno ad essere degli inventori di slogan». Non per caso Pasolini avvertì di questa situazione in tempo così precoci. Nel 1973 condanna di nuovo gli inventori di slogan: «È il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato». È interessante notare che, proprio nell’introduzione al Meridiano dedicato alla Letteratura e all’Arte, Cesare Segre sottolinea come la formula sintetica "passione e ideologia" sia divenuta ormai uno slogan.
I celebri articoli pasoliniani, pubblicati su vari mezzi, tra cui il «Corriere della Sera», devono essere letti come espressioni di un’azione poetica. Si tratta infatti di articoli di attualità politica scritti «come un vero poeta, sebbene sotto l'apparenza di giornalista». Questo non è privo di critica, poiché, come lo stesso Pasolini aveva dichiarato, il suo vero peccato consisteva nell'aver esercitato la professione di giornalista come polemista e poeta, in totale insubordinazione.
Quali sono le implicazioni di questa visione? Come osserva Paolo Desogus: «Si è costruita l’immagine di un Pasolini irrazionale, ostile a ogni forma di concettualizzazione, che scrive i suoi testi… per la forza di un impulso, di un’ispirazione che nasce direttamente dai sensi, dalla febbre del corpo, senza il peso della riflessione e dello studio».

Domande:
Come è nato questo libro?
Questo libro per molti versi è nato da sé, come conseguenza del lavoro che avevo intrapreso in precedenza. Da tempo desideravo pubblicare la mia tesi di dottorato, di cui avevo dato alle stampe solo una parte nel 2018, in un volume pubblicato in Francia e intitolato La confusion des langues. Avevo come obiettivo di ampliare il lavoro in un nuovo volume, questa volta in italiano, e per realizzarlo mi ero imposto uno studio preliminare molto approfondito, dedicato soprattutto alle fonti e ai dibattiti che avevano nutrito l’opera di Pasolini. Ho cominciato così a scrivere alcuni brevi saggi su alcune figure chiave della formazione pasoliniana, come ad esempio Dante e Gramsci. Ho anche lavorato molto sulle amicizie e sui conflitti con autori come de Martino, Fortini e Sciascia. Avevo poi iniziato a raccogliere del materiale sul rapporto tra Pasolini e Montale, ma mi sono fermato a causa di una scoperta che ha modificato profondamente il corso della mia ricerca. Da alcuni indizi sono riuscito a risalire a un fatto apparentemente minore della biografia di Pasolini relativo alla sua iscrizione alla Facoltà di filosofia di Bologna avvenuta alla fine del 1945, mantenendola attiva sino al 1947, senza però laurearsi. Attraverso la consultazione di alcuni archivi ho però scoperto alcuni nuovi dati, decisivi per approfondire un tema cruciale in Pasolini, ovvero il tema della contraddizione, presente in molti passaggi dell’opera pasoliniana, ad esempio nel rapporto con Gramsci («con te e contro te») o anche nel titolo del suo volume intitolato Passione e ideologia. Ho in particolare messo in evidenza come nella sua opera il conflitto nasce da una fortissima tensione, che vede opporsi un’attitudine votata all’esistenzialismo e alla valorizzazione della singolarità e dei suoi tratti irriducibili e vitali, e un’attitudine legata al marxismo che invece pone lo scrittore nel divenire storico. Il rilievo che ho potuto così dare al tema della contraddizione ha quindi modificato di molto i miei progetti. Ho infatti rimandato sine die l’idea di pubblicare la mia tesi, perché mi sono reso conto di avere qualcosa di più urgente, ma soprattutto perché il tema della contraddizione mi permetteva di unire e dare forma proprio a quegli studi che avevo considerato solo come preliminari. In particolare le ricerche su Dante, Gramsci, Fortini e De Martino, a cui poi avrei aggiunto gli approfondimenti su Leopardi, Dostoevskij e Horkheimer e Adorno, mi hanno permesso di tracciare l’itinerario della contraddizione in Pasolini e di dare vita a una monografia che sino a un anno e mezzo fa non avevo minimamente in mente. In questo lavoro ho purtroppo dovuto lasciare da parte solo il mio studio su Sciascia e rimandare al futuro l’approfondimento sul rapporto con Montale.
Qual è stato il tuo approccio nei confronti della figura di Pasolini?
Il mio studio su Pasolini prende sempre le mosse da un’analisi di tipo storico-filologico. Anche i momenti più fortemente orientati verso l’interpretazione non possono prescindere da questa premessa. Nel caso di Pasolini il lavoro di scavo è però spesso molto complesso, dato che la sua opera rimanda sempre al contesto in cui ha operato attraverso questioni e problemi che però, inevitabilmente, finiscono per interrogare anche il presente. La sua stessa ricerca stilistica è sempre connessa al momento storico nel quale è intervenuto o ha assunto una posizione attiva e trasformatrice che in qualche modo prosegue attraverso lo studio della sua opera. A questo proposito va sottolineato un problema molto delicato: tale approccio non può rinunciare alla figura dell’autore. Non può isolare l’opera. Allo stesso tempo però l’opera non può essere affatto ridotta alle intenzioni dell’autore. Proprio per questo il lavoro di studio deve sempre tenere vivo il conflitto tra l’autore e la sua opera, la non coincidenza tra le intenzioni e il lavoro concreto. Tale approccio credo che sia indispensabile per Pasolini, proprio perché ciò che sta nelle profondità delle sue motivazioni è spesso oggetto di gravi fraintendimenti che nascono proprio dall’incapacità di cogliere questa tensione. Lo si vede proprio nelle forme di manipolazione e di appropriazione della sua figura mediatica, non di rado piegata alle ragioni interpretative più tendenziose. Per usare le parole del mio amico Marco Gatto, per Pasolini occorre un metodo che contrasti duramente contro ogni forma di superficializzazione del senso e di riduzione delle forme espressive a dato immobile, privo di profondità, partecipe dunque di quella rimozione politica e culturale che invece l’opera pasoliniana custodisce e che necessita di essere riscoperta. Vorrei però ribadire un punto e vorrei farlo anche ricordando un altro importante studioso e amico a cui mi sono spesso rivolto, ovvero Gian Luca Picconi. Il lavoro di scavo non deve prescindere da uno sguardo filologico che contempli la collocazione storica dell’autore e che non trascuri tutte le implicazioni, linguistiche, teoriche e culturali, che lo pongono anche in contraddizione con la propria epoca. Come dicevo, questo non cancella affatto la mia vocazione interpretativa, orientata a vedere Pasolini nel presente. Ma la premessa di qualsiasi interpretazione è lo studio ad ampio raggio dell’autore. Purtroppo, come purtroppo mi capita di dover constatare, Pasolini è invece un autore più interpretato che studiato.
Nel tuo libro, ribalti l'interpretazione critica di Pasolini come "poeta incompiuto" e "poligrafo senza capo né coda". Qual è la tua visione complessiva della sua opera e come rispondi alla critica che spesso riduce Pasolini a una figura "incoerente"?
Si tratta di una critica che effettivamente ricorre spesso, ma che fa cilecca proprio perché si ferma alla superficie del lavoro pasoliniano, senza riuscire ad andare oltre i dati di questa presunta “incoerenza”, senza dunque scendere nelle profondità testuali e dare valore proprio a quel tema della contraddizione che, visto da una diversa prospettiva, assume un aspetto più coerente, appare cioè come il luogo in cui si consumano i conflitti tra la dimensione vitale dell’autore e quella storica. Mi rendo conto di fare un’affermazione che può generare fastidio in chi crede ancora nelle armi spuntate della critica postmoderna, ostile alle ricostruzioni generali, ma in tutta l’opera di Pasolini, dai primi scritti friulani sino a Salò si osserva questo conflitto. Pasolini ne fa addirittura una bandiera fino al punto da far coincidere l’umano con la stessa contraddizione.
Nel tuo libro esplori il dualismo tra passione e ideologia nella poesia di Pasolini. Cosa pensi della dichiarazione di Cesare Segre, secondo cui passione e ideologia funzionano come uno slogan?
Nonostante il grande talento critico e la profonda cultura letteraria, ritengo che anche Segre si sia fermato alla superficie di quella opposizione. Questo limite è forse dovuto a un’assenza di distanza critica. Molti critici che hanno conosciuto Pasolini e che lo hanno visto da troppo vicino restituiscono di lui un’immagine estremamente parziale. Lo stesso Fortini, su cui mi soffermo a lungo, ha espresso giudizi limitati, espressi da uno sguardo troppo parziale, nati sul terreno delle battaglie culturali del suo tempo e privi della tensione che rimanda al presente. E tuttavia lo stesso Fortini, poco dopo la morte del suo antico sodale di «Officina», ha lanciato un appello importante, ha invitato tutti a leggere Pasolini, a entrare nei meccanismi dell’opera invece di limitarsi a parlare del personaggio mediatico. Vorrei aggiungere che Fortini ha anche un altro grande merito, che recentemente è stato ripreso dal già ricordato Marco Gatto: Pasolini va studiato come una totalità o, per dirla appunto con Fortini, come un “autore da opere complete”. In quella formula c’era forse una venatura polemica, ma anche la necessità di esprimere un paradosso: la contraddizione per essere pienamente compresa necessita di uno sguardo che rinuncia alla parzialità. È questo il motivo per cui ho ripreso nel sottotitolo del mio libro le parole del volume pasoliniano Passione e ideologia. Questo titolo esprime una delle principali chiavi per accedere al corpus pasoliniano, ai problemi poetici e politici posti dai suoi film, le sue poesie e le sue prose. La critica, incapace di vedere in Pasolini l’espressione di una totalità, ha invece spostato tutta l’attenzione verso la dimensione passionale con risultati in qualche caso molto pericolosi, perché hanno anche tentato di rendere questo elemento estetico autonomo, riducendo il portato della sua opera a un fatto irrazionale, frammentario e appunto incoerente.
5. Torniamo alla formazione di Pasolini e al fatto biografico che ha modificato la tua ricerca. La scoperta del registro degli esami di filosofia di Pasolini all'Università di Bologna rappresenta un aspetto affascinante del suo percorso intellettuale. In che modo questa fase della sua formazione accademica, in particolare l'incontro con la filosofia esistenzialista, ha influenzato la sua poetica?
Ricordo la grande delusione quando riuscii ad aver accesso al libretto di Pasolini risalente agli anni in cui era iscritto alla Facoltà di filosofia. Era bianco, per cui ne concludevo che non avesse superato alcun esame. Eppure nelle lettere risultava che aveva preso accordi per la tesi con Felice Battaglia, docente di filosofia del diritto e di filosofia morale, all’epoca una vera e propria autorità dell’Università di Bologna. Com’era possibile che un uomo così importante avesse concesso la tesi a uno studente che non aveva superato nemmeno un esame? Grazie al lavoro d’archivio sono riuscito a risalire ai registri dove risultava che in realtà Pasolini aveva superato quattro esami, tra cui i due con Battaglia. Questa scoperta mi sembrava già molto importante per la biografia pasoliniana. Poi però ho scoperto che nella scelta del relatore si nascondeva qualcosa di decisivo. Battaglia, negli anni in cui Pasolini studia filosofia, vive una profonda crisi filosofica che chiama in causa il suo pensiero dialettico risalente a Giovanni Gentile e da Gentile a Hegel. Per affrontare questa crisi Battaglia in quegli anni decide di approfondire gli studi dell’esistenzialismo che gli consentono di riconoscere l’esistenza di qualcosa di estraneo alla logica dialettica, qualcosa di irrazionale, ovvero di non riducibile al divenire storico. Proprio negli anni in cui Pasolini è iscritto a filosofia, Battaglia decide dunque di dedicare i suoi corsi all’esistenzialismo per comprendere questo “irrazionale”. Se ne trova traccia nelle due dispense di filosofia che pubblica per gli studenti e che ho potuto consultare. Ecco, anche in Pasolini la contraddizione prende le mosse dall’opposizione tra esistenzialismo e pensiero dialettico, tra attaccamento alla vita, all’«estetica passione» e alla dimensione storica, che con la mediazione di Gramsci passa sotto il segno dell’ideologia, termine che come nel pensatore sardo non ha una connotazione negativa. Anzi, in Pasolini l’ideologia coincide spesso con il logico, il razionale, là dove invece la passione indica l’irrazionale, inteso appunto come eccedenza rispetto al divenire ad esso tuttavia legato proprio in quella tensione su cui si fonda la poetica pasoliniana. Aggiungo a questo proposito che, osservando la parabola del suo percorso, questa tensione tra passione e ideologia esprime anche qualcosa di tragico. La passione non può staccarsi dalla storia, dalle determinazioni del divenire. Non può più illudersi dell’autonomia dell’estetico in cui rifugiarsi. Vive esposta alle contraddizioni della storia. È questo il motivo per cui Pasolini abbraccia «l’estetica passione». Abbraccia ciò che è precario, cioè che è destinato a passare.
È interessante l'idea che Leopardi sia una delle fonti principali della poesia pasoliniana. Potresti approfondire il legame tra Pasolini e Leopardi, e in che modo la filosofia leopardiana si intreccia con la sua ricerca poetica?
Lo studio di Leopardi e Pasolini è in realtà ancora da portare a termine. Se ne sono occupati alcuni studiosi, come ad esempio Alessandro Banda, che è riuscito a ottenere ottimi risultati. Ma c’è ancora molto da fare. Io mi sono limitato a studiarne solo una piccola porzione che riguarda un punto cruciale nella mia riflessione, ovvero l’atto creativo. Leopardi consente a Pasolini di mettere in evidenza un dato troppo spesso trascurato e frainteso, che si colloca tra i tanti paradossi della sua poetica. In Pasolini l’atto di scrittura è un atto razionale, profondamente razionale. Non è il mero prodotto della passione che per un impulso mistico si trasfigura nella scrittura poetica. Attraverso lo studio delle varianti dell’Infinito Pasolini osserva come in Leopardi la scrittura necessiti di una fortissima presa di coscienza che, però, si presenta tanto più forte e razionale quanto più non inaridisce il testo e anzi è capace di accogliere e fare luce sulla dimensione irrazionale o per l’appunto «passionale». L’atto di scrittura in questo senso non è razionale perché riduce a logica ogni aspetto della parola, ma perché dà forma e splendore a ciò che rifugge dalle astrazioni della ragione. Da questo punto di vista credo che Pasolini sia un autore che ha fatto uso di quella che Leopardi chiamava «ultrafilosofia», che corrisponde proprio a quella forma di pensiero che sa agganciare la scrittura al concreto, l’universale al singolare, la ragione alla passione. L’ultrafilosofia come la poesia in Pasolini è data dalla compenetrazione di immaginazione e ragione. Sa vivere la pienezza tragica del poetico. Trasforma l’espressione in un luogo di conoscenza, di immersione che accetta le contraddizioni in seno all’umano, anche le più profonde, anche quelle originarie che mettono in opposizione l’io e il mondo, il tempo della vita e il tempo della storia.
Nella tua analisi, ti esprimi in controtendenza rispetto a quella parte della critica accademica colpevole di semplificare Pasolini. Come vedi il futuro della critica letteraria nei confronti di un autore così complesso, che non si presta a facili categorizzazioni?
Ecco, nella critica letteraria la morte di Pasolini ha contribuito a spostare l’attenzione sul personaggio distaccandolo dall’opera. Non voglio dire che dal 1975 ad oggi non ci siano studi importanti e significativi. Tuttavia prevale l’attenzione sulla figura dello scrittore e sulla sua biografia che negli ultimi anni si è espansa attingendo dagli influssi postmoderni che hanno concentrato la ricerca sul carattere così detto performativo dell’opera. Questa operazione ha coinciso con la spoliticizzazione di Pasolini e con la riduzione del suo impegno a quella di gesto privo di contenuti. Permettimi allora un appunto. Nella tua premessa sottolinei come la centralità di Gramsci nel suo lavoro di scrittore e intellettuale sia stata trascurata. Questo è dovuto proprio all’eccesso di attenzione verso il personaggio che ha prodotto una monumentalizzazione vuota, destorificata, priva di concretezza politica che si compiace delle forme di superficializzazione del senso tipiche delle andature postmoderne. In quelle letture, la passione ha preso il sopravvento sull’ideologia. Tutte le componenti legate alla corporeità, all’eros e alla gestualità hanno occupato interamente la ricerca a discapito dell’elemento storico, dialettico e politico, cioè dell’elemento dell’ideologia. La mia tesi è che queste due componenti non possano essere separate. Come dice di sé in un’intervista, Pasolini è dialettico e antidialettico allo stesso tempo. In lui coabiatano passione e ideologia. E senza questa contraddizione sparisce l’umano.
Come hai affermato Pasolini ha sempre cercato di intrecciare la filosofia con la poesia, facendo della sua arte una forma di conoscenza. Come descriveresti il suo approccio filosofico e quale ruolo ha avuto la sua formazione filosofica nella sua poetica?
Oltre a Battaglia, negli anni della formazione con quello che potremmo definire un imprinting filosofico, accompagnato dallo studio dell’esistenzialismo (e a proposito, Pasolini includeva Leopardi tra gli esistenzialisti), oltre poi al decisivo apporto di Gramsci, credo che abbia occupato una posizione centralissima la lettura della Dialettica dell’Illuminismo. Altri studiosi hanno menzionato questo influsso. Nel mio libro ho però cercato di mostrare come questo importante testo filosofico abbia agito in profondità fornendo allo scrittore gli strumenti per riflettere sulla crisi del moderno e sulla società dei consumi in termini che non sono semplicemente sociologici. La vittoria del capitalismo per Pasolini non si limita a imporre nuovi stili di vita, ma agisce sui modi in cui gli esseri umani vivono e rappresentano se stessi. Agisce materialmente sull’esistenza e sul simbolico fino a compromettere lo stesso concetto di storia. Come ho detto nel libro insisto molto sul concetto di contraddizione e sugli sforzi che Pasolini compie, anche in contrasto con molti marxisti, per difendere la necessità che questa contraddizione resti aperta. La chiusura della contraddizione, la risoluzione in un’unica sintesi è per Pasolini da osteggiare con tutte le forze perché porterebbe proprio a quell’astrazione dell’umano che il suo antico docente di filosofia, Felice Battaglia, aveva intravisto nella deriva del pensiero dialettico incapace di confrontarsi con l’esistenziale. Se infatti si segue l’itinerario pasoliniano, il film Salò dà espressione alla sintesi che si chiude, alla storia che raggiunge il suo compimento una volta spazzata via qualsiasi opposizione. Quando dunque tu mi chiedi come si intrecciano filosofia e poesia in Pasolini, ti rispondo richiamando ancora una volta l’opposizione tra passione e ideologia, dunque la contraddizione tra il difficile equilibrio espresso da queste due componenti. La piena vittoria dell’ideologia e dell’astrazione dell’umano produce, come si vede in Salò, il suo rovescio, la passione sfrenata e l’irrazionale incapace di farsi poesia, foriero di terrore, repressione e orrore, proprio come si vede nelle violenze esercitate sui giovani riprese nel film. Si tratta della caduta in un nuovo fascismo. Il film infatti riflette pienamente la lettura che Horkheimer e Adorno nella loro Dialettica dell’illuminismo fanno del Marchese De Sade, la cui opera esprime il vero della «ragione strumentale».
Pasolini è noto per il suo rapporto complesso con il marxismo. Pensi che questo rapporto venga studiato oggi in modo adeguato o soltanto superficialmente?
Direi di no. In parte questo è dovuto alla posizione marginale del marxismo nell’italianistica e ancor più nella critica letteraria. Con rammarico devo però riconoscere che nello studio di Pasolini ha avuto una forte responsabilità anche Franco Fortini. Ho già ricordato il ruolo importante che ha occupato. Fortini ha scritto pagine decisive, ad esempio sulle Ceneri di Gramsci, ma alcune sue affermazioni, nate da un contesto militante, legato all’occasionalità della critica letteraria e politica del momento, sono state usate in modo sbagliato. Direi anzi che si è venuta a creare una curiosa convergenza tra alcune posizioni di Fortini e le letture postmoderne alle quali tuttavia lui era estremamente ostile. Mi spiego meglio, Fortini ha individuato per primo il problema della contraddizione in Pasolini. Le ha dato addirittura un nome: «sineciosi». Tuttavia, a questa scoperta non è seguito alcun approfondimento. Anzi, Fortini a un certo punto ha usato la sineciosi per sganciare la contraddizione pasoliniana dal marxismo, sebbene, come mostro nel libro, essa prendesse le mosse da Gramsci e da ciò che il pensatore sardo dice della filosofia della praxis, da lui intesa come filosofia della contraddizione. Il mancato riconoscimento del rapporto tra la sineciosi e Gramsci ha aperto la strada alle cattive interpretazioni spoliticizzanti. Va in ogni caso detto che da parte di Fortini vi era un’attitudine fortemente sfidante. Fortini voleva che il suo antico compagno di «Officina» risolvesse ogni ambiguità e accettasse un pensiero pienamente dialettico e progressivo, capace di porsi nella traiettoria storica che avrebbe dovuto generare il mondo liberato, il comunismo. Probabilmente non ha ben compreso come invece anche in Pasolini sia fortissima l’aspirazione al comunismo e questo nonostante le tante proteste (“io sono marxista come lo sei tu”). Pasolini accetta il marxismo. Si riconosce nella lotta di classe. Lo fa però a partire dall’idea che la lotta politica non emendi l’umano, non lo privi delle sue componenti costitutive prepolitiche ed esistenziali. Pasolini rifiuta l’immagine dell’uomo nuovo, liberato delle lacerazioni originarie, sollevato da quel conflitto primo tra io e mondo su cui invece si concentra sin dagli anni friulani. La rivoluzione per lui non dà luogo alla conciliazione. Su questo è più vicino a de Martino, che in molti passi della sua ultima fase ammette che la società socialista dominata dalla ragione non cancella il dolore, non emenda la morte, non risolve il tragico dell’esistenza che pone ogni singolo di fronte alle inquietudini della vita, del tempo che passa e delle trasformazioni che trascendono il singolo. Proprio per questo in Pasolini la dialettica non si può chiudere. E non si può chiudere soprattutto se poi le redini di questa ragione vengono prese dal neocapitalismo, come Pasolini è costretto ad ammettere dagli anni Sessanta in poi. Il suo marxismo, da questo punto di vista è vicino anche a quello di Adorno: non cerca la conciliazione. Deve tenere aperta la lacerazione. Ecco, il fatto che questa non-conciliazione non sia stata spiegata in termini marxisti ha aperto le porte alle interpretazioni postmoderne che hanno visto nella sineciosi e nelle parole di Fortini la prova che Pasolini non era veramente marxista, ma era come detto in precedenza un autore che viveva l’impegno nella gestualità, nell’estetizzazione dell’esistenza, nella riduzione ad atto performativo della politica svuotata di contenuti. La sineciosi ha infatti giustificato la separazione di passione e ideologia, della dimensione estetica da quella politica. In Pasolini, benché non conciliabili, queste due componenti restano sempre interconnesse finché è vivo l’umano.
Nel libro adotti un linguaggio accessibile pur mantenendo un’analisi puntuale. Come riesci a bilanciare la profondità dell'analisi con un linguaggio più fruibile senza sacrificare la rigorosità critica?
Questa è una domanda che rimanda a una dimensione mia più personale e anche una politica. Rispondo solo su quest’ultima parte. Credo che in questa fase storica il lavoro intellettuale debba mirare alla chiarezza. E debba fare lo sforzo di spogliarsi di molti inutili orpelli, come il citazionismo esasperato e il ragionamento libresco, fortemente condannato da Gramsci perché si rivolge esclusivamente a un presunto pubblico di eletti. La critica letteraria vive una fase di grave declino proprio per questa torsione autoreferenziale. Le ragioni sono tante e non c’è lo spazio, né sono sufficientemente preparato per affrontarle. In ogni caso credo che una delle vie per arrestare questa china sia quella di uscire dalla mera dimensione accademica o dalle piccole cerchie intellettuali. Del resto, da marxista, ritengo che la critica letteraria abbia un senso solo se si pone come obiettivo quello di contribuire, seppure da una posizione limitatissima, alla costruzione del soggetto della storia che aspira alla gramsciana “nuova civiltà”, una civiltà anche pasoliniana, capace di integrare l’umano in tutte le sue parti. Da qui discende l’esigenza di aprire il dialogo riallacciandomi, nel mio piccolo, alla tradizione italiana, che è quella di De Sanctis, Croce, Gramsci e di molti altri autori che hanno lavorato nel segno del rigore e della chiarezza. Come poi si vedrà nel mio libro, «chiarezza» è proprio una delle parole chiave di Pasolini proprio perché esprime la compenetrazione di passione e ideologia.
Silvia Martín Gutiérrez.
Informazione sul volume: https://lanavediteseo.eu/portfolio/in-difesa-dellumano/



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