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Pasolini alla scoperta del Marocco. L'Alto Atlante nel film Edipo re.


Pier Paolo Pasolini con Alberto Moravia a Fez, Marocco, 1965 © Mohamed Melehi/Fondo Alberto Moravia/Tutti i diritti riservati

Sono appena tornato dal Marocco, dove ho girato il mio ultimo film, e al ritorno sono stato tentato di mollare tutto, abbandonare i film, abbandonare la mia vita precedente e tornare a vivere in Marocco. E non perché amo il Marocco, ma perché il mio arrivo in Italia è stato così terribile, così sconvolgente, insopportabile. Non c'è segno di speranza, nessuna luce, niente. Era come arrivare in un manicomio di veri matti; cioè, calmi pazzi. Ho passato dieci giorni di terrore; era come se non potessi più vivere in Italia. Per quei dieci giorni ho pensato di lasciare l'Italia. E la cosa peggiore è che gli italiani non si accorgono di nulla. E dopo quello che mi dici di New York, forse rinuncerò a tutto e andrò a vivere in un deserto del Marocco, dove i problemi sono semplici, noti, preindustriali: pigrizia, sottosviluppo, ritardo, povertà - cose che abbiamo imparato affrontare.[1]


Con queste parole Pasolini rispondeva una domanda fattagli da Gideon Bachmann in una conversazione anche con Jonas Mekas. Nel giugno del 1967 Mekas era venuto a Roma con una ventina di programmi del New American Cinema, presentati al Centro Sperimentale di Cinematografia. Durante il suo soggiorno, Gideon Bachmann, un suo vecchio amico che lavorava con Pasolini, organizzò un incontro tra loro nella casa di via Eufrate 9. Nell'aprile si erano svolte le riprese del film Edipo re in Marocco e per quanto pare, il rientro in Italia era stato traumatico per il poeta. Pasolini cerca così di entrare in relazione con un altro orizzonte di civiltà come unica salvezza per la società moderna. Già nel giugno dello stesso anno dichiarò:


Giuro sul Corano che io amo gli arabi quasi come mia madre. Sono in trattative per comprare una casa in Marocco e andarmene là. Nessuno dei miei amici comunisti lo farebbe, per un vecchio, ormai tradizionale e mai ammesso odio contro i sottoproletariati e le popolazioni povere. Inoltre, forse tutti i letterati italiani possono essere accusati di scarso interesse intellettuale per il Terzo Mondo: non io.[2]


Durante la ricerca delle location per le parti centrali del film Edipo re (1967), Pasolini fece diversi viaggi. In primo luogo si recò in Romania, alla ricerca di ambienti lontani dalla realtà borghese, ma trovò un paese altamente industrializzato e questo lo costrinse a trasferire le trame mitologica e tragica nei deserti e nelle città marocchine.


Nel marzo 1965 Pasolini compie il suo primo viaggio in Marocco, episodio che troverà riscontro nel testo di Vie Nuove con il titolo Viaggio in Marocco. Questo scritto è un elemento privilegiato per comprendere la configurazione dei sopralluoghi nella parte centrale del film, poiché secondo lo stesso autore nel primo paragrafo: naturalmente, quando visiti un paese nuovo, hai già dei progetti interpretativi. E ogni scoperta è una lotta contro questi progetti, che a poco a poco cadono, e vengono sostituiti da altri, quelli veri. [3] Si tratta di un viaggio che si discosta dal lavoro svolto in Sopralluoghi in Palestina (1963) perché Pasolini ormai non cerca luoghi specifici per le riprese. Tuttavia, attraverso il testo pubblicato su Vie Nuove possiamo ricostruire, secondo le descrizioni dell'autore, quegli elementi che lo interessano e che in futuro faranno parte del film.


Uno degli aspetti più rilevanti della scrittura è la sua visione del paesaggio marocchino. Nel testo si legge che il Marocco è un'estensione dei paesaggi mediterraneo-africani e anche che il lavoro dei contadini è paragonabile a quello svolto da alcune società contadine italiane in Toscana e Veneto. Pasolini conferma in questo viaggio la sua concezione panmeridionale dell'Africa, e non solo, le scene dell'agricoltura che ha contemplato e che trova dotate di grande bellezza visiva, costituiranno un valore di resistenza contro il processo di industrializzazione.[4]


Una volta scelto il Marocco come location per le riprese del film, Pasolini fece un secondo viaggio nell'autunno del 1966, per individuare le location del suo Edipo nelle regioni desertiche del sud del Paese. Accompagnato dal giovane regista marocchino Souheil Ben Barka, Pasolini visitò l'Alto Atlante per scegliere le location del film a Ouarzazate, Zagora, Amezrou e Aït-Ben-Haddou.


La kasbah di Aït-Ben-Haddou è un esempio lampante di architettura del Marocco meridionale.Lo ksar è un gruppo di abitazioni per lo più collettive. All'interno delle mura difensive, che sono rinforzate da torri angolari e forate da un cancello a setti, le case sono ammucchiate, alcuni modesti, altri che ricordano piccoli castelli urbani con le loro alte torri angolari e le parti superiori decorate con motivi laterizi, ma ci sono anche edifici e aree comunitarie. Si tratta di uno straordinario insieme di edifici che offre una panoramica completa delle tecniche costruttive in fango del Sahara. Gli edifici più antichi non sembrano risalire a prima del XVII secolo, anche se la sua struttura e tecnica si diffuse fin da un periodo molto antico nelle valli del sud del Marocco.

Le indicazioni di Ben Barka sugli usi e i significati dei luoghi in cui si svolgerà il film avvenire, ha senza dubbio segnato la scelta di Pasolini. Nel film, l'autore ci mostrerà un paesaggio africano fortemente connotato e paragonabile alla sua idea poetica di natura barbarica, che già covava fin dalle descrizioni che l'autore aveva fatto nel Canzoniere Italiano: Antologia della poesia popolare (1955) sul paesaggio sardo e pugliese: Si entra nel cuore di uno dei paesaggi più meravigliosi d'Italia. È una terra arancione. Qualcosa che sta tra quello che dovrebbe essere l’attuale Medio Oriente e quella che avrebbe dovuto essere l’Itaca di Ulisse.[5]


Il legame tra le tecniche poetiche e cinematografiche si manifesta in Pasolini anche nell'instaurazione di un rapporto simbolico tra gli spazi. Se il Friuli era diventato un luogo mitologico nella poesia dell'autore, altri luoghi della sua successiva produzione artistica avrebbero seguito la stessa strada. È proprio dal rapporto tra il Friuli e il mito, da cui nasce lo spazio come inteso come cronotopo. Questa unità ideale e metafisica dello spazio e del tempo sarà un concetto chiave per la futura costruzione degli spazi dell'Edipo re pasoliniano.


Parliamo di spazi che si intersecano e diventano visibili allo spettatore da un punto di vista estetico. Nella stessa storia convivono diversi cronotopi che si articolano e si relazionano nell'intreccio testuale, creando così un'atmosfera speciale e un certo effetto, stabilito dallo stile. Vediamo, quindi, che dalla sperimentazione linguistica con il casarsese nasce un linguaggio senza tempo e senza luogo, si passa dunque ad una libera manipolazione dello spazio-tempo cinematografico da parte del regista:


Il friulano di Casarsa si è prestato quietamente a farsi tramutare in linguaggio poetico, che da principio era assolutamente divelto da ogni abitudine di scrittura dialettale […]. Per me era semplicemente una lingua antichissima eppure del tutto vergine […].Così la lingua stessa, la pura parlata dei Casarsesi poté divenire linguaggio poetico senza tempo, senza luogo.[6]


Nel film Il Vangelo secondo Matteo (1964) Pasolini aveva segnato un cambio di paradigma nel suo cinema. Ma per quanto riguarda gli spazi, è la rivelazione estetica avvenuta durante le riprese del documentario Sopralluoghi in Palestina” (1963) che prende forma la manipolazione poetica dei luoghi. Parliamo di spazi che in fase di montaggio vengono ricostruiti secondo criteri stilistici, volti a far emergere la soggettività dell'autore come elemento unificante di componenti divergenti.


Ebbene, tornando a Edipo re, dobbiamo chiederci com’ è stato il processo di costruzione dei diversi spazi che compongono il film. La linea di lavoro di Pasolini sarà in continuità con quanto fatto nel 1964, ma ci saranno novità molto rilevanti a far diventare questo film un punto di partenza per lavori successivi. Pasolini, nel film del 1967, affrontò la costruzione di spazi-tempi diversi all'interno della stessa opera. Come ne Il Vangelo, parliamo di spazi fortemente semiotizzati. La semiotizzazione di essi, che nel film verrà presentata con forti connotazioni, ha una conseguenza fondamentale, la creazione di paesaggi di natura metadiscorsiva. Questa natura, conferita ai diversi spazi del film, configurerà diversi universi estetici che rimandano alla poesia dell'autore:


Ci sono almeno tre categorie di paesaggi: uno del passato; uno del presente che sta ingiallendo; e uno del sogno. Il primo è quello friulano. Quando dico paesaggio friulano, però, non intendo riferirmi soltanto al paesaggio tipico del Friuli, ma a quello di tutta l' Italia del Nord. E' un paesaggio che torna in tutti i miei libri di poesia. E' una specie di rimpianto, di nostalgia: le piazzette, le chiese romaniche, i prati verdi, da una parte i salici e dall' altra i pioppi. Il paesaggio del presente che sta ingiallendo è quello delle borgate romane: un paesaggio violento, meridionale, appartenente idealmente all' area del terzo mondo. E' un paesaggio che ho amato molto venendo a Roma perché, non essendo romano ma settentrionale, sono venuto a Roma un po' come un turista inglese o tedesco che scende al Sud. Il paesaggio del sogno, invece, è il paesaggio che ho scoperto viaggiando: direi l' India, ma soprattutto l' Africa. Ed è il paesaggio che in questo momento amo di più.[7]


Pertanto in Edipo ritroviamo quattro tipologie spaziali, tra le quali ne sottolineiamo due. L'universo meridionale, universo nato dall'opera di Pasolini legata alle borgate romane e che finirà per abbracciare il Mezzogiorno italiano nella sua interezza. Si tratta di uno spazio legato ad una tipologia di paesaggio violento, rappresentato visivamente nel film dal personaggio di Edipo. L’altro spazio, che chiameremo universo del Terzo Mondo, è collegato da Pasolini al mondo dei sogni La libera manipolazione di questa categoria di spazi da parte di Pasolini sarà visibile attraverso la scenografia e i costumi, secondo lo stile barbarico indistinto: Volevo ricreare il mito sotto forma di sogno; volevo che tutta la parte centrale (che forma quasi l’intero film) fosse una specie di sogno, e questo spiega la scelta dei costumi e degli ambienti, e il ritmo generale seguito. Volevo che fosse una sorta di sogno estetizzante.[8]


Dopo che abbiamo individuato due delle tipologie in cui si svolge Edipo re, occorre vedere nel dettaglio quali sono gli spazi del film e come sono stati configurati. Un tratto generale, che abbiamo già riscontrato ne Il Vangelo secondo Matteo, riguarda la libera manipolazione dei riferimenti geografici da parte di Pasolini. Non conta quindi il luogo specifico ma piuttosto l’idea poetica che deve unirli tutti nel film per creare una categoria metadiscorsiva. All'interno di queste categorie, ci sono due varianti. Da un lato gli spazi che sono le sono proprio al film e, dall'altro, altri che sono ricorrenti nei film dell'autore. Questi ultimi si costituiscono come topos ambivalenti, come portatori di un significato preciso da inserire nei diversi racconti cinematografici.


Vediamo alcuni esempi del primo gruppo, per esempio la costruzione dei palazzi di Tebe e di Corinto. Gli esterni dei palazzi reali si trovano in edifici fondamentali dell'architettura marocchina nell'Alto Atlante. Il Palazzo Reale di Corinto, in cui ivono i genitori adottivi di Edipo, Polibo e Merope, si trova nello Ksar di Ait-Ben-Haddou. Si tratta di una città fortificata, insediamento di una tribù berbera, situata lungo la strada tra il deserto del Sahara e Marrakech. Il palazzo dei re di Tebe, Edipo e Giocasta, si trova nella Kasbah Taourirt di Ouarzazate.


Questa costruzione, residenza di uno dei governatori più potenti della regione, dal punto di vista architettonico è una complessa sovrapposizione di mura merlate in mattoni crudi e torri che compongono una grande fortificazione. Tuttavia, la somiglianza estetica dei due luoghi rende difficile distinguerli nel film, e Pasolini utilizza frammenti di queste e di altre kasbah in modo casuale. Ad esempio, per la città di Tebe l'autore combina i piani della Kasbah Amezrou di Zagora e del Taourirt di Ouarzazate.


Il secondo gruppo di categorie metadiscorsive, realizzate attraverso la costruzione degli spazi, è quello che raccoglie i luoghi comuni nella filmografia di Pasolini:


Come costellazioni, questi gruppi di abitazioni, si spingevano dal deserto desolato verso costellazioni più fitte. Ma il silenzio era meno profondo che nel deserto. Negli enormi cortili di materiale povero, cemento spruzzato per parere marmo, mattoni che parevano finti, il vuoto era assoluto. In qualcuna soltanto due o tre donne stavano raccolte, profilandosi oscure contro le [pareti metalliche], con in mano sacchetti di plastica bianca, semitrasparente. C’erano anche dei bambini, lontani, silenziosi, per lo più oltre i cortili, tra i muretti di cinta e i fossati secchi e colmi di rifiuti oltre i quali si stendeva il deserto.[9]


Parliamo di casi come il deserto o la strada. Il deserto si configurerà come tema costante del cinema di Pasolini. Sebbene abbia già acquisito grande rilevanza ne Il Vangelo secondo Matteo, è a partire da Edipo che sarà un motivo ricorrente nella sua filmografia: Nel deserto io vedo l’abbandono della società e la solitudine interiore dell’individuo […] In un certo senso il deserto è una forma prestorica, ma soprattutto poi questa forma è tale che ci si ritorna nel momento in cui si abbandona la società, e cioè si riconosce la solitudine interiore.[10] Anche la strada appare come un elemento centrale nel film. Ad esempio, la scena del parricidio si svolge su una strada tra Delfi e Tebe, elemento già utilizzato da Pasolini come nodo principale in Uccellacci e uccellini (1966). Il tema dell'eterna strada verso il nulla era metafora di un'umanità senza direzione e senza scopo. Nel nostro film di analisi, la strada acquisisce connotati simbolici per diventare il luogo attraverso il quale Edipo si dirige inevitabilmente verso la catastrofe personale.


Come abbiamo visto per le location, Pasolini aveva già deciso che i luoghi in cui sarebbe ambientato il film, almeno per quanto riguarda alle parti centrali, erano i paese del Alto Atlante. Insomma, Luigi Scaccianoce non poté quindi realizzare ex novo creazioni scenografiche, tuttavia collaborò con Pasolini per adattare le ambientazioni esistenti alle sue esigenze narrative. Dal Veneto dei primi anni del Novecento, immerso in un'illuminazione tipica di una favola angosciante, alle città d'argilla di Ouarzazate e Zagora in Marocco, dove matericità e atmosfera onirica si uniscono, o i gradini di San Petronio a Bologna per l'epilogo nell’attualità, Scaccianoce dovette intervenire nella realizzazione di una scenografia fortemente condizionata dal lavoro di preproduzione del film svolto da Pasolini. L'assistente di Scaccianoce, Dante Ferretti, dichiarò che tra Pasolini e Scaccianoce il rapporto non era facile, a causa della mancanza di dialogo. Avevano un rapporto molto tecnico nel quale Pasolini non si sentiva a suo agio. Scaccianoce ha lavorato secondo il metodo classico degli scenografi e ha trascorso poco tempo sul set. Tuttavia Pasolini aveva bisogno uno scenografo con cui lavorare in modo più personale, influenzando lo sviluppo del processo creativo della scenografia.


Quando la troupe arrivò in Marocco e iniziarono le riprese, Scaccianoce aveva già sistemato la scenografia per le scene in studio, che sarebbero state girate a Roma. Ma durante le riprese, Pasolini aveva modificato la concezione generale del film perché, come è stato commentato, aveva rielaborato in situ una Grecia totalmente lontana dai canoni classici (assimilandola a un'estetica barbarica senza tempo ispirata alle kasbah marocchine). In quel periodo Pasolini inviò Dante Ferretti a Roma per rivedere il lavoro svolto da Scaccianoce e adattarlo ai cambiamenti decisi in Marocco.[11]


Pasolini durante le riprese di "Edipo re" in Marocco (1967) © Bruni Bruni/Reporters Associati/Tutti i diritti riservati

Le modifiche apportate da Dante Ferretti erano indirizzate ad annullare l'eccesso di teatralità dell'opera di Scaccianoce. Los scenografo intervenne sulla scena per renderla più reale, più vicina all'architettura che realizzerebbe un muratore marocchino e più lontana dal lavoro di un teatro:


Il mio è stato un intervento appunto, sui materiali; cioè, togliere tutto quello che era architettura pensata per farla diventare una cosa più vera, più casuale, più nata dall’immaginazione del muratore marocchino, anziché dell’architetto. Il modello cioè è stata l’arte povera, e non i canoni dell’architettura greca. Poi ho ricostruito la stanza del ’30: cioè l’inizio del film, sempre in teatro di posa; quell’ambiente era già più semplice perché non era legato al Marocco; ma anzi era legato un pò alla memoria sua, un tipo di borghesia italiana de quel periodo. Infatti era una casa borghese, era una stanza da letto borghese. Alcuni elementi richiamavano però la stanza di Giocasta, della madre: la stessa pianta, le stesse apertura di finestre, la stessa carta da parati che ricordava il colore dei muri delle costruzioni del Marocco, rosso mattone, e poi la stessa decorazione interna greca, nella stanza del ’30, con una greca liberty: invece nella stanza di Giocasta con una greca greca. Mi ricordo, che nella stanza di Giocasta c’era un braciere con un fuoco rosso; nella stanza, sempre della madre, del ’30, c’era, invece, un portavasi con un enorme vaso di gerani rosso. Cioè, c’erano certe puntualizzazioni, richiami precisi in questo senso. Poi, per il resto, era una camera vuota, un po’ come gli ambienti che ha fatto sempre lui, così, assoluti.[12]


Pasolini rifiutò alcune scene girate in studio perché il risultato era molto lontano dall'idea generale del film che aveva girato in Marocco. A suo avviso lo sfondo su cui era ambientata una delle scene mitologiche somigliava un pezzo di falso muro vecchio, un rudere ricostruito.[13] L'acquisizione di rilevanza della scenografia nel cinema pasoliniano parte del lavoro svolto in Edipo re, e si tradurrà in un maggiore coinvolgimento da parte del regista, che avrà bisogno di uno scenografo al suo fianco con cui collaborare direttamente per creare la complessa scenografia delle opere successive.


Uno dei principali cambiamenti che Pasolini adottò nel nostro film d’analisi fu quello di girare un lungometraggio a colori. Sebbene nel 1967 lui avesse la precedente esperienza dell'episodio La ricotta (1963) l'uso del colore si evolverà nel 1967 per essere integrato nelle risorse narrative del film. I colori in Edipo re sono associati ad una funzione narrativa molto chiara, sia nei diversi blocchi che compongono la pellicola, che nei diversi piani della pellicola. La riduzione del numero di colori in ciascuno dei fotogrammi ha la funzione di presentare una chiarezza compositiva. Il colore acquista così un valore significativo e favorisce la lettura degli elementi che compongono la cornice. In un’intervista del 1970 Pasolini dichiarò a questo proposito:


In tutti i miei film a colori ho fatto in modo che i paesaggi e i luoghi scelti fossero già cromaticamente selezionati. Quando ho girato "Edipo re", ad esempio, ho scelto il Marocco per una serie di ragioni ideologiche, ma anche perché il paesaggio era formato da alcuni colori particolarissimi: il rosa, l'ocre ed un verde speciale in tutte le sfumature. Sempre, in seguito, ho scelto paesaggi con pochi colori dominanti.[14]


Il passaggio dal bianco e nero al colore porta con sé un altro cambiamento, quello del direttore della fotografia. L'indisponibilità del collaboratore abituale di Pasolini, Tonino Delli Colli, nonché gli impegni di Giuseppe Rotunno (come seconda scelta del regista) fecero sì che la responsabilità della fotografia dell'Edipo di Pasolini ricada infine su Giuseppe Ruzzolini. Anche se questo era il primo lungometraggio in cui non aveva accanto a se Delli Colli, Pasolini era assolutamente soddisfatto del risultato del suo lavoro su Edipo re Re. Nelle parole del regista: è un Delli Colli un po' più grezzo ma con le stesse caratteristiche.[15]


Sul piano tecnico Edipo discosta dai primi lavori di Pasolini. Se nei primi film i fotogrammi e i movimenti lenti erano la nota predominante della macchina da presa, ora il regista si esprime con una ricerca di immagini sempre più elaborate, con l'inserimento di alcuni piani sequenza e notevoli soluzioni espressive, a cui contribuiscono i movimenti di macchina. Otello Spila, l'operatore della macchina da presa del film, ricorre all'uso di obiettivi grandangolari così come di grandangoli o teleobiettivi. L'uso di obiettivi ampi influenzerà la cattura dell'ambiente chiaro in cui si svolgono le scene, a cui si aggiunge la decisione di Pasolini di utilizzare campi ampi, lasciando molto spazio attorno all'oggetto ripreso. La risorsa del grandangolare favorirà il distanziamento percettivo e il teleobiettivo verrà utilizzato per impreziosire i primi piani.[16]


In generale Pasolini e Spila introducono in questo film un effetto di contrasto visivo, se da un lato l'uso degli obiettivi grandangolari mostra più chiaramente lo sfondo dell'immagine, l'uso del teleobiettivo con il grandangolare sfocerà lo sfondo. Risorse tecniche destinate a catturare immagini che, attraverso il montaggio, permettono a Pasolini di conferire loro un carattere autoriflessivo: falsi collegamenti, violazione della regola dei 180º, la successione di una serie di fotogrammi da una distanza diversa e con la stessa angolazione, o la inserimento di primi piani senza rispettare l'unità d'azione.


Il rapporto simbolico di Pasolini con gli spazi avrà necessariamente una forte influenza sullo sviluppo dei costumi e del lavoro sartoriale di Edipo re. Come abbiamo già sottolineato nel film Il Vangelo secondo Matteo Pasolini inaugurava un tipo di cinema in cui i costumi assumevano una chiara funzione narrativa. Ebbene, nel film del 1967, Pasolini continua questa linea di lavoro ma aggiungendo alcune importanti novità. Dalla premessa di creare costumi dal carattere narrativo deriva il fatto che esistono stili assolutamente diversi a seconda della parte del film.


Da un lato, prologo ed epilogo faranno riferimento a modelli storici facilmente identificabili, mentre dall'altro, nelle parti del mito e della tragedia troveremo costumi realizzati a partire da riferimenti eterogenei con il chiaro intento di comporre un modello preistorico impossibile da individuare storicamente. Il contrasto tra mito e storia, così rilevante in Pasolini, si rifletterà anche nei costumi del film. Per la parte centrale, quella in cui si dipanano mito e tragedia, Donati e Pasolini presero come punto di partenza l'arte Inca.[17] Tuttavia Pasolini andò oltre il singolo riferimento, ideando con esso alcuni brani in cui si mescolavano fonti azteche, sumere o africane. Il principio creativo dei costumi era quello di realizzare disegni dotati di un indistinto carattere barbarico che è sinonimo della libera manipolazione dei riferimenti di operata nelle sue opere dall'autore:


I costumi sono inventati quasi arbitrariamente. Ho consultato opere sull'arte azteca, sui Sumeri; altri provengono direttamente dall'Africa nera, perché la preistoria è stata praticamente la stessa ovunque. E avrei voluto insistere su questa linea, rendere i costumi ancora più arbitrari e preistorici, ma non ho avuto tempo per approfondire... [18]


Il nostro autore sposta l'idea di una Grecia barbarica basata sulla rappresentazione eschilea avvenuta al Festival di Siracusa del 1960. Rifiuta così il collegamento della tragedia di Edipo con la Grecia classica e crea il proprio mondo mitologico, in cui collocare il testo di Sofocle. Per fare questo Donati dovrà recuperare un classicismo paradigmatico, adatto a diventare un topos transnazionale e utilizzabile in luoghi e tempi diversi. Ci riuscirono creando un costume genericamente primitivo, primordiale e ancestrale, basato sulla scenografia che Teo Otto realizzò per la rappresentazione dell'Orestiade al Festival di Siracusa.[19] Otto, attraverso una serie di elementi totemici, divini e demoniaci per l'opera eschilea, esaltò il ruolo centrale dalla danza diretta da Mathilda Beauvoir.


In linea con la scenografia e la musica, i costumi di Donati esaltarono il senso di straniamento dello spettatore nell'assistere allo svolgersi della tragedia di Edipo in un luogo senza coordinate precise. Edipo re il lavoro della sartoria Farani cambiò completamente rispetto al lavoro precedentemente. Per dare forma alle idee di Pasolini per il film, sia i tessuti che gli strumenti con cui furono realizzati a mano (escludendo l'utilizzo di materiale commerciale). In Edipo vollero lavorare con tessuti di grande consistenza, per i quali fu utilizzato un misto di lana e cotone per conferire agli abiti una sensazione di pesantezza. A questi tessuti fu aggiunta la maestria artigianale di Donati per scegliere gli accessori che compongono il guardaroba. Con questo film il lavoro sartoriale diventò un vero e proprio laboratorio.[20]


Silvia Martín Gutiérrez. Pasolini alla scoperta del Marocco. L'Alto Atlante nel film Edipo re, 12 settembre 2023. Tutti i diritti riservati.

[1] Mekas, Jonas. Conversazione con Pasolini (1967) in Scrapbook of the sixties": writings 1954-2010. Leipzig, Spector Books, 2015, pp.157-164. [2] Pasolini, Pier Paolo. Israele in Nuovi Argomenti n. 6, aprile-giugno, 1967

[3]Siti, Walter. Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, Milano, Meridiani, Mondadori, 1999, p. 1056. [4] Ibídem, p.1057. [5] Pasolini, Pier Paolo. Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, Parma, Guanda, 1955, p.18. [6] Pasolini, Pier Paolo. Volontà poetica, Stroligut, 2 aprile 1946 in Poesie a Casarsa: Il primo libro di Pasolini, Ronzani editori, 2019, p.59. [7] Millo, Achille. La poesia secondo Pier Paolo in La Repubblica, 24 febbraio 1990, p.3. [8] Siti, Walter y Silvia De Laude. Pasolini. Saggi sulla letteratura e sull'arte, Milano, Meridiani, Mondadori, 1999, p.1361. [9] Pasolini, Pier Paolo. Petrolio, 1976, Milano, Mondadori, 2005, p.524. [10] Siti, Walter e Franco Zabagli. Edipo re, da Il cinema secondo Pasolini, in Pier Paolo Pasolini per il cinema. Milano, Meridiani, Mondadori, 2001, p.2948. [11] Bertini, Antonio. Teoria e tecnica del film in Pasolini. Roma, Bulzoni Editore, 1979, p.188. [12] Ibídem, p.189. [13] Rusconi, Marisa. Pierpaolo Pasolini e l'autobiografia in Sipario, ottobre, 26-27, 1967. [14] Pasolini, Pier Paolo. Incontro con i nostri lettori celebri: Pier Paolo Pasolini in Progresso fotografico. Anno 77 nº 9 Settembre 1970, pp.14-16. Poi col titolo L'evoluzione della mia poetica fotografica nel volume Pasolini. per il cinema, a cura di Siti e Zabagli, 2001, pp. 2790-2796. [15] Siti, Walter e Franco Zabagli. Edipo re, da Il cinema secondo Pasolini, in Pier Paolo Pasolini per il cinema. Milano, Meridiani, Mondadori, 2001, p. 2927. [16] Ponzi, Maurizio y Claudio Rispoli. 3-Esterno giorno P.P. madre (Pasolini) in Cinema and film, autunno 1967, 454-457. [17] Bertini, Antonio. Teoria e tecnica del film in Pasolini. Roma, Bulzoni Editore, 1979, p.196. [18] Quintavalle, Arturo Carlo. Atelier Farani. Pasolini: il costume del film, CSAC. Università di Parma: Skira, 1996, p.52. [19] Degani, Enzo. Eschilo, Orestiade, traduzione di Pier Paolo Pasolini in Il quaderno del teatro popolare italiano, Torino,Einaudi editore, 1960, p.178. [20] Quintavalle, Arturo Carlo. Atelier Farani. Pasolini: il costume del film, CSAC. Università di Parma: Skira, 1996, p.65.

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