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"Non riusciva a scrivere la morte di Pasolini". Moravia raccontato da Alain Elkann.

Aggiornamento: 17 nov 2020


Alberto Moravia nella casa di Roma, al lungotevere della Vittoria © Mimmo Frassineti

Alberto Moravia, negli ultimi anni veniva sovente a Parigi: per l'uscita di un suo libro, per la Conferenza dei diritti dell'uomo, per una manifestazione pasoliniana o semplicemente per ritrovare i suoi amici. Di solito, la sera si stava insieme e andavamo di preferenza a cena in un ristorante cinese della Rue de Tournon dove prima di noi veniva sempre Roland Barthes con i suoi allievi.


Moravia prediligeva la cucina cinese perché viene servita con un scodella di riso bianco bollito, un alimento che gli piaceva e gli dava sicurezza. Per lui era importantissimo, dovunque si trovasse nel mondo, mangiare cibi sani, senza condimenti e se possibile a ore fisse. Voleva digerire bene la cena per essere sicuro di essere in forma la mattina appena sveglio e mettersi subito a scrivere.


Un sera era con noi Marie Hèléne Orban, una editrice francese che lavora per la casa Christian Bourgois e Moravia era allegro e raccontava il viaggio che aveva fatto, tanti anni fa, in Bolivia con Dacia Maraini per cercar di scarcerare l'allora rivoluzionario francese Régis Debray che era in prigione a La Paz.


La missione non ebbe l'esito positivo che Moravia desiderava e così con la sua compagna ripartì e raggiunsero Pier Paolo Pasolini e Maria Callas in Africa per fare con loro uno dei tabti viaggi africani dello scrittore. Pochi mesi dopo sarebbero scoppiati i fatti del maggio '68.


La signora Orban, entusiasta di quel racconto, ci propose subito di scrivere un libro a quattro mani, una lunga intervista di uno scrittore giovane a uno scrittore anziano sulla sua vita. In Francia questo genere di libri si chiama "entretiens" e sono un genere letterario assai diffuso.


Dapprima fummo reticenti; Moravia non voleva parlare di sé ed entrambi stavamo finendo un romanzo. Poi quasi per gioco a Capri, durante i giorni in cui veniva dato il premio Malaparte (di cui Moravia era presidente) a Nadine Gordimer, incominciammo a registrare su un magnetofono l'attacco di quello che sarebbe stato il nostro libro. Iniziò così un rapporto quasi quotidiano vissuto tra Sabaudia, Roma e Parigi in cui ci si vedeva ogni mattina alle 11 precise. Moravia era già al suo tavolo, aveva accanto i fogli della "Villa del venerdì", del "Vassoio davanti alla porta", poi del suo romanzo inedito "La donna leopardo", poi dell'ultimo racconto di cui trovammo insieme il titolo "Palocco".


La mattina presto Moravia scriveva la sua opera letteraria o gli articoli per il giornale e poi con me parlava della sua vita. Abbiamo prima registrato 1500 pagine e quindi, vincendo la nostra pigrizia, abbiamo lavorato, tagliato, cucito, riscritto. Lui mi dettava nuovi episodi, io aggiungevo altre domande. Avevamo dimenticato l'incontro con Jung; la volta che a Berlino vide Hitler affacciarsi su un balcone. Non avevamo parlato di Malaparte, di Chiaromonte, bisognava ricordare un episodio accaduto a lui e a Elsa Morante.


Eravamo a Sabaudia sotto il caldo torrido del ferragosto nel suo studio, frugale, un tavolo di lavoro e due sedie all'ultimo piano di quella casa che lui e Pasolini fecero costruire insieme: entrambi a torso nudo, accaldati, dovevamo riscrivere l'episodio della morte di Pasolini. Lì, Moravia ebbe quasi un crollo. Vedevo la sua sofferenza disegnarsi sul volto, sbuffava, voleva abbandonare il progetto.


Molte volte ci siamo scoraggiati per la mole del lavoro, la fastidiosità della riscritture. Alberto imprecava con una frase che ripeteva sempre quando si arrabbiava: "Sono fuori di me, non voglio parlare della mia vita". Le sue arrabbiature che sbottavano per cose piccole come un autobus che intralciava il traffico o una macchia sulla giubba, sbollivano subito e lui ritrovava immediatamente il controllo di sé e talvolta subito un'allegria quasi fanciullesca. Oltre a lavorare si facevano anche lunghe chiacchierate, con lui potevo parlare di tutto, i libri letti, i film visti, i suoi rapporti con sua moglie Carmen, con gli amici, le mie storie personali, il nostro lavoro, i miei figli.


Moravia era sempre curiosissimo, voleva sapere tutto. Parlava anche di politica, dei suoi viaggi ed era sempre felice quando gli portavo in regalo una cravatta o una camicia. Gli piaceva moltissimo ricevere regali. A Parigi, circa due anni fa, uscendo dal nostro solito ristorante cinese mi disse: "Non ne posso più di vivere a Roma, c'è un traffico tremendo e poi è così cambiata. Parigi invece è una città spirituale, si sente che si sono state rivoluzioni. Forse dovrei venire a morire a Parigi, come Rossini".

Alain Elkann "L'ultimo lavoro.Non riusciva a scrivere la morte di Pasolini" © La Stampa 27 settembre 1990/ Riproduzione riservata
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