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Pasolini recensisce "La dolce vita" di Federico Fellini


Marcello Mastroianni, Anouk Aimée e Pier Paolo Pasolini durante le riprese del film "La Dolce vita" (1960) © Reporters Associati srl

C'è una profonda scissione, nel nostro mondo culturale, tra la critica letteraria e la critica cinematografica. Sem­bra strano ma il crocianesimo - abolendo la distinzione dei generi e instaurando la sola possibile distinzione tra poesia e non poesia - ha favorito una critica tecnicistica, che implica necessariamente i generi, magari non come distinzioni retoriche, ma come distinzioni stilistiche.


Poiché per i crociani - ossia per i critici borghesi - l'operazione artistica è un dato unico, inimitabile e me­tastorico, l'esame di un'opera d'arte tende a diventare tutto interno: e quando, con la critica stilistica - che di­scende per li rami da Croce - l'esame, disperatamente interno, si propone come funzione ultima quella di leg­gere nell'opera d'arte singola un'intera epoca letteraria, finisce poi per risultare soltanto un contributo a una cri­tica sociologica o marxista.


Così, poiché la critica italiana letteraria e «special­mente» quella cinematografica sono tuttora - a livello nazionale o di massa - crociane e borghesi, ecco che il loro esame è sempre specialistico, tecnicistico, per gene­re: come se l'opera d'arte fosse il prodotto di un prodi­gio individuale, in un laboratorio puro. E non, invece, un prodotto culturale, e storico. L'informazione lettera­ria e quella cinematografica sono come due fiumi che scorrono paralleli, e non confluiscono mai: quasi che in Italia ci fossero due culture, due storie. E la critica comparata, se c'è, è tutta di carattere giornalistico, informa­tivo. Il ricambio tra letteratura e cinema, questi due mezzi espressivi diversi di una stessa cultura, di una stes­sa storia, avviene nel più puro e casuale disordine, senza mai una luce interpretativa.


Il rimedio a questa assurda coesistenza? È uno solo, e consiste nell'impiantare criticamente, con gli stessi inte­ressi estetici e ideologici, lo studio su un libro o su un film, tenendo conto appunto che la differenza è sempli­cemente tecnica, e che l'analisi descrittiva - pur descri­vendo processi espressivi diversi - ha la stessa funzione critica.


La dolce vita di Fellini è troppo importante perché se ne possa parlare come si fa di solito di un film. Benché non grande come Chaplin, Eisenstein o Mizoguchi, Fel­lini è senza dubbio «autore», non «regista». Perciò il film è unicamente suo: non vi esistono né attori né tecni­ci: niente è casuale. Nella Dolce vita, infatti, non è rico­noscibile lo stile di nessuno: non lo stile di un attore (il bravissimo Mastroianni, la stupenda Anita, sono un al­tro Mastroianni, un'altra Anita), non lo stile di un opera­tore, non lo stile di un montatore, non lo stile di Flaiano e di Pinelli, gli sceneggiatori. Forse si avverte appena lo stile del musicista, Rota, che, appunto, fuoresce un po' dal sistema stilistico generale: come insomma se un Ca­ravaggio fosse incorniciato in una cornice rococò. Poco importerebbe, del resto.


Ecco, ora, se si trattasse dell'opera di uno scrittore, io partirei subito da un esame stilistico: magari mi prende­rei il mio bravo campione linguistico, una frase «tolta a caso» (come si dice) dal contesto, la metterei sul tavoli­no del laboratorio, la smonterei e l'analizzerei. Dall'ana­lisi stilistica potrei così lecitamente giungere alle impli­cazioni psicologiche, ideologiche e storiche.


Esiste infatti una soddisfazione «descrittiva» (grazie specialmente alla critica di Spitzer e Auerbach e ai grammatici post-crociani) per le opere letterarie: ma non esiste quasi affatto per le opere cinematografiche. Tuttavia, al­meno irrelata, vive, in tutti noi, un'idea stilistica, formata­si intuitivamente, del mondo espressivo di Fellini e ad essa dovrò un poco affidarmi. Intanto va osservato che, nell'autore cinematografico, esiste un doppio piano di la­voro espressivo: uno strato che consiste nella preparazio­ne degli oggetti da riprendere, e un secondo strato che consiste nella vera e propria ripresa e nel montaggio. Sa­rebbe come a dire che uno scrittore dovesse prima am­massare un enorme coacervo, prestabilito, di materiale lessicale, e poi lo coordinasse nella sintassi e lo montasse nel seguito narrativo. Il che in parte avviene, ma solo idealmente.


Osserviamo un'inquadratura della Dolce vita: Polidor che suona la tromba. È chiaro che qui si sovrappongono due successive operazioni stilistiche: la prima è appunto la preparazione dell'oggetto da riprendere (Polidor, truccato in quel dato modo, con il gilet, la tuba, la trom­ba, i gesti che deve fare, l'altezza a cui deve portare la tromba quando fa l'acuto ecc.), la seconda che avviene in un secondo momento: inquadratura, movimento del­la macchina da presa, coordinazione con le altre inqua­drature.


Tutti conosciamo la serie di scelte che compie Fellini lungo quello che ho chiamato il primo strato stilistico della sua opera: quello della preparazione degli oggetti da riprendere. Descriviamone qualcuna, di tali scelte:


1) Fellini usa gli attori sempre in modo stravagante, inatteso, tale da violentare la loro personalità alle radici e da costringerla a una totale reinvenzione (esempi? A doz­zine: dall'ex Tarzan, all'ex cattivo Enrico Glori, dall'ex dannunziano Annibale Ninchi all'ex sexy girl Anita Ekberg). Tuttavia, con questi interpreti del tutto stravolti e deformati, coesistono interpreti di un tipo totalmente op­posto: ossia dei personaggi presi tali e quali, come in un nudo documentario, dalla realtà, e innestati, con la vio­lenza del più violento naturalismo, nell'organismo com­plicato della lingua felliniana. Mi riferisco a persone vere, come Laura Betti, Leonida Repaci, Anna Salvatore ecc.


2) Fellini usa una continua dilatazione espressionisti­ca dei costumi e degli ambienti: ma di questa dilatazione si possono distinguere almeno tre tipi: a) dilatazione pu­ramente vignettistica (angoli caricaturali, con signore dai cappellini esageratamente singolari, con mantelli in­giustificati); b) dilatazione «d'atmosfera», tipica del ci­nema e della letteratura decadente (si vedano quasi tutti gli esterni di Roma, dai più eleganti ai più abbietti); c) dilatazione puramente espressiva, formalistica (si veda­no le stupende immagini del miracolo, con le lampade e gli ombrelli sotto la pioggia sferzante).


Ma anche stavolta, accanto a tale dilatazione defor­mante, va notato che permane un certo quantitativo di naturalismo assai documentario, da far venire in mente certi pezzi della Settimana Incom. Questo per quel che riguarda il primo strato. Quanto al secondo, quello della vera e propria ripresa e del montaggio, cerchiamo ugualmente di descrivere - sempre, purtroppo, con una terminologia approssimativa - qualche caratteristica:


1) L'inquadratura e i movimenti di macchina creano sempre intorno all'oggetto una specie di diaframma, che ne complica e rende il più possibile irrazionale e magica la sua immissione e la sua concatenazione di rapporti con il mondo che lo circonda. Quasi sempre, all'attacco di un episodio, la macchina da presa è in movimento, e i suoi movimenti non sono mai semplici: paratattici, come si direbbe parlando di letteratura. Però, spesse volte, succede che nel contesto dei movimenti di macchina si­nuosamente e parenteticamente subordinati, si inserisca brutalmente una inquadratura semplicissima, quasi do­cumentaria: una citazione di lingua parlata... Si veda per esempio l'arrivo della diva all'aeroporto di Ciampino.


2) Il fraseggio delle sequenze è ampio, spesse volte lento e circostanziato, come una pagina proustiana: ma ancora una volta va osservato che a questa operazione ne corrisponde una uguale e contraria, che spesso si giu­stappone. Si veda per esempio l'incontro nella chiesa tra Marcello e Steiner, che, dopo essersi dilungato fino alla lentezza narrativa quasi esasperante con cui Marcello ascolta suonare l'organo, si conclude con una visione di una rapidità fulminea, un campo lungo - sulla chiesa vuota, con la figura di una donna che entra - che quasi non fa in tempo a essere trattenuto nella retina. Lo stes­so si verifica nell'episodio del padre, tutto così articolato e precisato: a cui si contrappone la clausola, un campo lungo sul tassì del padre che parte lasciando solo il figlio nella squallida strada.


Queste non sono che sommarle, generiche descrizioni di alcune caratteristiche della lingua felliniana: tuttavia siamo già in grado, direi, pur con tali schematiche indu­zioni di dichiarare quest'opera di Fellini, dal punto di vista stilistico, come appartenente in pieno alla grande produzione del decadentismo europeo. Di questa, essa ha tutti i connotati: la compiacenza fonica (che è il pri­mo connotato del decadentismo) ha un equivalente in Fellini in una compiacenza visiva per cui l'immagine fuoresce dalla funzione e si fa pura, con tutto l'incantesi­mo che ne deriva; la dilatazione semantica (il secondo connotato del decadentismo) è continuamente praticata da Fellini: non c'è un solo significato nel suo film che si presenti come puramente strumentale: è sempre eccessi­vo, sovraccarico, lirico, magico, o troppo violentemente veristico: è cioè dilatato semanticamente.


Continuando col parallelo che abbiamo fatto più so­pra tra il primo strato stilistico dell'operazione cinema­tografica e la raccolta del materiale lessicale, potremmo agevolmente osservare come il lessico di Fellini abbia tutte le caratteristiche del lessico decadente: è colorito, raro, bizzarro, superscritto, con pastiches espressivi pro­venienti dai più diversi gusti, presi dai più diversi mon­di. E lo stesso si dica del secondo strato stilistico, che abbiamo visto corrispondere alla sintassi: una sintassi appunto subordinata, ritardante, con rapidi, voluti brividi di interiezioni e di sintagmi semplici, parlati.


Siamo dunque di fronte a un prodotto che potremmo chiamare, più precisamente, neodecadentismo se la let­teratura impegnata, e nella fattispecie il neorealismo cinematografico, contassero tanto da rendere vecchio, su­perato, il decadentismo storico, così da dover ricorrere all'ormai rituale proclitica rinnovante. Purtroppo il pe­riodo dell'impegno è stato breve: il conservatorismo l'ha rapidamente circoscritto e respinto al margine. Ora, poi, la distensione favorisce in certo modo la reazione stilisti­ca: i comunisti stessi riscoprono il decadentismo e cerca­no di individuarne gli elementi positivi e progressivi. Non io, però: a costo di parere, ai comunisti, settario. Io, per me, dichiaro a tutte lettere che l'opera di Fellini segna e codifica il ritorno, energico, di un gusto e di una ideologia stilistica che hanno caratterizzato la letteratura europea del decadentismo, da Baudelaire, diciamo, alla Nouvelle Vague (che è reazionaria).


Tutti avrete certamente notato come la mía descrizio­ne delle caratteristiche formali del linguaggio di Fellini, avrebbe potuto esser presa quasi di peso e riferita a Gadda. Anzi, vi sarete forse meravigliati come il nome di Gadda non venisse alla luce, quale termine di parago­ne del confuso penso descrittivo.


Infatti: come Fellini, Gadda si compiace, a tratti, di sia pure ironiche compiacenze foniche; come Fellini, Gadda violenta i semantemi, sempre in funzione di un significato che reinventi i termini in un linguaggio tutto soggettivo, grottesco, violento, viscerale, deformante (con brani tuttavia di veristica realtà schiaffati con rab­bia nel dettato); come Fellini, Gadda usa una sintassi che è, per così dire, ipertassi, venata ogni tanto di clau­sole paratattiche; come Fellini, Gadda possiede un lessi­co che è il più pasticciato immaginabile.

Eppure tra i due autori c'è una sostanziale diversità, malgrado tale abbondanza di concomitanze. Scusate, devo esser rapido e sommario: ma, in poche parole, di­rei che tale sostanziale diversità consiste nel fatto che il pastiche di Gadda avviene su superfici interne, mentre il pastiche di Fellini si dispone frontalmente su superfici esterne.


È vero: anche la posizione politica di Gadda e Fellini ha qualcosa in comune, sia pure genericamente e sche­maticamente: tutti e due gli autori, infatti, accettano so­stanzialmente le istituzioni, lo Stato e la Chiesa, non ne mettono in discussione le strutture, e le accettano quasi come dati assoluti e immodificabili: salvo poi a essere addirittura anarchici, anche se di un'anarchia tutta sati­rico-grottesca in Gadda, magico-lirica in Fellini, e ad esercitare una continua opposizione fondata sugli amori individuali, infantili (moralistici in Gadda, libertari in Fellini).


È questa comune e abnorme forma di conformismo che appunto produce nei due scrittori uno stile che, ri­peto, superficialmente ha dei caratteri analoghi. E allora perché in Gadda, questa costruzione per superfici inter­ne, che implica profonde sfaccettature nella realtà, ap­profondimenti quasi vertiginosi, e perché, invece, in Fellini questa «frontalità», che giustappone le cose quasi sempre su uno stesso plano, come nei bassorilievi dei primitivi?


Il fatto è che Gadda possiede, coscientemente, un si­stema ideologico razionale: egli si è formato prima dell'Italia qualunquistica e fascista: tutta la sua forma­zione è sotto il segno del positivismo, niente affatto pro­vinciale, ma anzi, per la sua alta qualità, europeo - mol­to meno provinciale e molto più europeo di quanto sia mai stato il crocianesimo. Perciò tutta l'opera di Gadda, malgrado i folli, maniaci, ossessivi irrazionalismi che tor­mentano l'uomo, è dominata da uno spirito razionalisti­co, che sa sempre storicizzare - positivamente, magari, magari con un eccesso di ricostruzione di verità natura­listica. Egli crede nelle istituzioni statali: ma se queste vacillano continuamente davanti ai suoi occhi, sommuo­vendo senza sosta il suo enorme macchinario linguistico, è perché la mente che le osserva e dolorosamente, con­traddittoriamente, le accetta, possiede razionali stru­menti di critica per giudicarle.


Fellini, al contrario, si è formato durante l'Italia del fascismo, ignorante e stupida: e benché, quando doveva, Fellini sia stato antifascista, e lo sia tuttora, nel modo più virile e democratico, la sua formazione culturale re­sta originariamente provinciale: al contrario di Gadda - per cui le istituzioni sociali sono degli alti dati moralisti­camente civili - per Fellini sono dei miti. Contro i vizi di tali miti - visibili nella nostra società anche all'occhio più miope e indifferente - egli ricorre alla forza del mi­to: la sua opposizione politica si impianta tutta sulla irri­petibilità della fantasia individuale, sull'angoscia e sulla gioia, come patrimonio intimo e quasi mistico.


Questo tipo dí cultura - caratteristicamente novecen­tesca, come vedete, e decadente - implica come primo atto il rifiuto alla razionalità e alla critica: che vengono sostituite dalla tecnica e dalla poeticità.


Tuttavia - come sempre succede quando ci si rifiuta di avere un'ideologia - una ideologia, esiste ugualmente, benché circoscritta e come anchilosata dall'acribia di chi ne è in possesso.


L'ideologia di Fellini si identifica così con un'ideolo­gia di tipo cattolico: l'unica problematica ravvisabile alla lettera, o quasi, nella Dolce vita è il rapporto non dialet­tico tra peccato e innocenza: dico non dialettico perché regolato dalla grazia. Ed è per questo irrazionalismo cattolico, e, in un certo senso ingenuo, quasi infantile, che si verifica in Fellini quello stile che abbiamo definito frontale, senza prospettive interne, senza graduazione di valori morali: il «fanciullino» che è dentro Fellini - e a cui Fellini con astuzia diabolica cede tanto volentieri la parola - è un primitivo, e quindi un aggiuntivo, non un soggiuntivo, non sa coordinare e subordinare: complica­re, questo sì. Da ciò il barocco semplicistico di Fellini.


In questo barocco i personaggi sí aggiungono ai per­sonaggi, i fatti ai fatti, i particolari ai particolari, senza mai variazioni interne, di giudizio: tutto è pacificato e li­vellato da una parte dall'infantilismo irrazionale e lirico di Fellini, dall'altra dalla sua ideologia non critica.


Da parte mia, come uomo di cultura e come marxista, stento ad accettare come base ideologica il binomio pro­vincialismo-cattolicesimo, sotto il cui tetro segno opera Fellini. Soltanto delle goffe persone senza anima - come quelle che redigono l'organo del Vaticano - soltanto i clerico-fascisti romani, soltanto i moralistici capitalisti milanesi, possono essere così ciechi da non capire che con La dolce vita si trovano davanti al più alto e al più assoluto prodotto del cattolicesimo di questi ultimi anni: per cui i dati del mondo e della società si presentano co­me dati eterni e immodificabili, con le loro bassezze e abbiezioni, sia pure, ma anche con la grazia sempre so­spesa, pronta a discendere: anzi, quasi sempre già disce­sa e circolante di persona in persona, di atto in atto, di immagine in immagine.


Ritorno a quello che dicevo in principio, aprendo queste note: l'opera di Fellini richiede un'impostazione critica che non si differenzi affatto da quella richiesta da un libro di Moravia, mettiamo, o di Gadda. È un'opera che pesa nella nostra cultura, e ne segna una data. Io, come critico-filologo non posso che registrarla, con tut­ta l'importanza che essa dimostra di avere: si tratta della riapertura di un periodo contrassegnato dalla forza pre­valente o eccedente dello stile: il neodecadentismo.


Come il neorealismo cinematografico ha preceduto il neorealismo letterario, così vedrete che il neodecadenti­smo felliniano precederà un periodo di neodecadenti­smo letterario. Ripeto che ce ne sono tutte le premesse: e la distensione, ripeto, ne favorisce il ritorno.

Questo osservo come critico-filologo: come autore io stesso, e come marxista, sia pure settario, sarei meno og­gettivo, tenderei a entrare in polemica non tanto con l'opera di Fellini, quanto con la poetica che la presiede. Dico che il rapporto intimistico tra peccato e innocenza, la presenza circolante della grazia, l'osservazione analiti­ca e amorosa di un mondo livellato dalla metafisica, a me personalmente sembra un problema sterile, come sterile sembra il memento che risuona, così terribile, del resto, e così sincero, a ogni acme del film.


Mi resta tuttavia ancora da dire perché il film mi pia­ce, talvolta fino all'emozione più profonda. E allora do­vrò spostare il punto di vista su un terreno franco, su una waste land, se volete, dove reperire in me i resti (quanto abbondanti!) di decadentismo, e in Fellini i presupposti (quanto abbondanti!) di realismo.

Ho detto dell'acribia ideologica di Fellini, del suo di­sperato bisogno di affidarsi all'istinto e alla vocazione: devo aggiungere che in tale acribia restano involute e confuse anche le sue aspirazioni razionali, e proprio in senso marxista, che irrompono, e quanto spesso, nella sua opera.


Ma non direi, però, che il titolo maggiore di merito sia qui: ciò che conta in Fellini è ciò che di eterno e assoluto permane nella sua ideologia genericamente cattolica: l'ottimismo, amoroso e simpatetico. Guardate la Roma che egli descrive: è difficile immaginare un mondo più perfettamente arido. Un'aridità che toglie vita, che ango­scia. Vediamo passare davanti ai nostri occhi un fiume di personaggi umilianti, in un umiliante spaccato della capi­tale: tutti cinici, tutti meschini, tutti egoisti, tutti viziati, tutti presuntuosi, tutti vigliacchi, tutti servili, tutti impau­riti, tutti sciocchi, tutti miserabili, tutti qualunquisti: è la mostra della piccola borghesia italiana in un suo ambien­te che ne esalta gli aspetti, che la brucia in una tetra luce evidenziante. Ad essa si mescolano, dall'alto e dal basso, dei mostri, irrelati, irriferibili: dall'alto i nobili, dal basso i sottoproletari, e vi portano una ventata che a suo modo è pura, è vitale. Ma come essere riusciti a vedere purezza e vitalismo anche nella massa piccolo-borghese che brulica in questa Roma arrivista, scandalistica, cinematografara, superstiziosa e fascista, mi sembra una cosa incredibile.


Eppure non c'è nessuno di questi personaggi che non risulti puro e vitale, presentato sempre in un suo mo­mento di energia quasi sacra.


Osservate: non c'è un personaggio triste, che muova a compassione: a tutti tutto va bene, anche se va malissi­mo: vitale è ognuno, nell'arrangiarsi a vivere, pur col suo carico di morte e di incoscienza.


Non ho mai visto un film in cui tutti i personaggi sia­no così pieni di felicità di essere: anche le cose dolorose, le tragedie, si configurano come fenomeni carichi di vi­talità, come spettacoli.


Bisogna davvero possedere una miniera inesauribile d'amore, per arrivare a questo: magari anche d'amore sacrilego ... Il neodecadente Fellini è colmo di tale amore indifferenziato e indifferenziante. Ed è questo amore che - se, per essere irrazionale, e quindi «per contraddi­zion che no'l consente», non ha dato un capolavoro - ha dato però degli altissimi frammenti di capolavoro.


Marcello Mastroianni, Anouk Aimée, Pier Paolo Pasolini e Federico Fellini durante le riprese del film "La Dolce vita" (1960) © Reporters Associati srl
Pier Paolo Pasolini "La dolce vita": per me si tratta di un film cattolico" in "Il Reporter" 23 febbraio 1960
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