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  • Immagine del redattoreCittà Pasolini

Pasolini replica sull'aborto. Sul "Corriere della Sera" 30 gennaio 1975



Pier Paolo Pasolini in Vogue, maggio 1971 © Tutti i diritti riservati


Caro Moravia, sono ormai alcuni anni che io mi precludo di dare del fascista a qualcuno (anche se talvolta la tentazione è forte); e, in seconda istanza mi precludo anche di dare a qualcuno del cattolico. In tutti gli italiani alcuni tratti sono fascisti o cattolici. Ma darci a vicenda dei fascisti o dei cattolici - privilegiando quei tratti, spesso trascurabili - diventerebbe un gioco sgradevole e noioso.


Tu, certo per un vecchio, acritico automatismo - e certo non senza grazia e amicizia - ti sei appunto lasciato andare a darmi del «cattolico» (proprio del «cattolico», e non del «cristiano» o del «religioso»). E mi hai dato del cattolico cogliendo, scandalizzato, in me (mi sembra) un trauma per cui la «maggioranza» considera- consciamente o inconsciamente come Himmler - la mia vita «indegna di essere vissuta». Cioè il mio blocco sessuale che mi rende un «diverso». Corollario di tale blocco è una certa traumatica e profonda «sessuofobia», comprendente la pretesa - altrettanto traumatica e profonda - della verginità o quanto meno della castità da parte della donna. Tutto ciò è vero, fin troppo vero. Ma è anche la mia privata tragedia, su cui mi sembra un po' ingeneroso fondare delle illazioni ideologiche. Tanto più che tali illazioni mi sembrano sbagliate.


Prima di tutto l'assioma «il cattolico è sessuofobo, quindi chi è sessuofobo è cattolico», è un assioma che io trovo assurdo e irragionevole. C'è una sessuofobia protestante, c'è una sessuofobia mussulmana, c'è una sessuofobia indù, c'è una sessuofobia selvaggia. Tu ti rifai alla sessuofobia di San Paolo (che - cosa non del tutto rifiutata anche da pensatori cattolici avanzati - pare fosse omosessuale): ma la sessuofobia di San Paolo non è, appunto, cattolica, ma giudaica. Attraverso San Paolo essa passa al cattolicesimo (se di cattolicesimo si può già parlare a proposito di San Paolo), ed è tutto. Oggi, la sessuofobia cattolica, controriformistica, è quella di tutte le religioni ufficiali. Io me ne distinguo nettamente prima di tutto perché nell'infanzia non ho avuto un'educazione cattolica (non sono neanche cresimato), poi perché la mia scelta, fin dalla prima pubertà, è coscientemente laica, e infine, cosa più importante di tutte, perché la mia «natura» è idealistica (non in senso filosofico, ma esistenziale). Tu stesso mi accusi di idealismo...


E questa è un'accusa che accetto, perché è vera. Tu non sai quanto ho sempre invidiato la tua mancanza di cattivo idealismo... Ora però si dà il fatto che tutto può essere detto, oggi, della Chiesa cattolica fuori che sia idealistica. Essa è anzi il contrario che idealistica: è non-idealistica, e, in compenso, è assolutamente pragmatica. I preti sono, meglio di tutti, coloro che vedono, con profondo pessimismo, il mondo come è: non c'è nessuno più abile e acuto di loro nel cogliere lo status quo e nel formalizzarlo. Rileggiti quell'opus grandioso del più puro pragmatismo (in cui Dio non viene neanche nominato se non nelle formule) che sono le sentenze della Sacra Rota. Dunque, se io sono idealista, non sono cattolico; e se tu sei pessimista e pragmatico, sei cattolico. Come vedi, è fin troppo facile ritorcere accuse di questo genere.


Per restare poi sempre alla parte generale del tuo discorso, tu scherzi sul fatto che «da qualche tempo la mia bestia nera è il consumismo»: tale tuo scherzare mi sembra un po' qualunquistico in quanto riduttivo. Lo so bene, tu sei pragmaticamente per accettare lo status quo, ma io, che sono idealistico, no. «Il consumismo c'è, che ci vuoi fare?» sembri volermi dire. E allora lascia che ti risponda: per te il consumismo c'è e basta, esso non ti tocca se non, come si dice, moralmente, mentre dal punto di vista pratico ti tocca come tocca tutti. La tua profonda vita personale ne è indenne. Per me no, invece. In quanto cittadino, è vero, ne sono toccato come te, e subisco come te una violenza che mi offende (e in questo siamo affratellati, possiamo pensare insieme a un esilio comune): ma come persona (tu lo sai bene) io sono infinitamente più coinvolto di te. Il consumismo consiste infatti in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Poiché la mia vita sociale borghese si esaurisce nel lavoro, la mia vita sociale in genere dipende totalmente da ciò che è la gente. Dico «gente» a ragion veduta, intendendo ciò che è la società, il popolo, la massa, nel momento in cui viene esistenzialmente (e magari solo visivamente) a contatto con me. E' da questa esperienza, esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea, che nascono in conclusione tutti i miei discorsi ideologici. In quanto trasformazione (per ora degradazione), antropologica della «gente», per me il consumismo è una tragedia, che si manifesta come delusione, rabbia, taedium vitae, accidia e, infine, come rivolta idealistica, come rifiuto dello status quo.


Non vedo come possa un amico scherzare sopra tutto questo. Veniamo all'aborto. Tu dici che la lotta per la prevenzione dell'aborto che io suggerisco come primaria, è vecchia, in quanto son vecchi gli «anticoncezionali» ed è vecchia l'idea delle tecniche amatorie diverse (e magari è vecchia la castità). Ma io non ponevo l'accento sui mezzi, bensì sulla diffusione della conoscenza di tali mezzi, e soprattutto sulla loro accettazione morale. Per noi - uomini privilegiati - è facile accettare l'uso scientifico degli anticoncezionali e soprattutto è facile accettare moralmente tutte le più diverse e perverse tecniche amatorie. Ma per le masse piccolo-borghesi e popolari (benché già «consumistiche») ancora no. Ecco perché io incitavo i radicali (con cui è avvenuto tutto il mio discorso, che solo appunto visto come un colloquio con essi acquista il suo pieno senso) a lottare per la diffusione della conoscenza dei mezzi di un «amore non procreante», visto (dicevo) che procreare è oggi un delitto ecologico.


Se alla televisione per un anno si facesse una sincera, coraggiosa, ostinata opera di propaganda di tali mezzi, le gravidanze non volute diminuirebbero in modo decisivo per quel che riguarda il problema dell'aborto. Tu stesso dici che nel mondo moderno ci sono due tipi di coppie: quelle borghesi privilegiate (edonistiche) che «concepiscono il piacere distinto e separato dalla procreazione» e quelle popolari, che «per ignoranza e bestialità non arrivano a una simile concezione». Ebbene, io ponevo come prima istanza alla lotta progressista e radicale proprio questo: pretendere di abolire - attraverso i mezzi cui il paese ha democraticamente diritto - tale distinzione classista. Insomma, ripeto, la lotta per la non-procreazione deve avvenire nello stadio del coito, non nello stadio del parto. Per quel che riguarda l'aborto, io avevo suggerito paradossalmente di rubricare tale reato nel quadro del reato di eutanasia, inventando per esso una serie di attenuanti di carattere ecologico. Paradossalmente. In realtà la mia posizione su questo punto - pur con tutte le implicazioni e le complessità che sono tipiche di un intellettuale singolo e non di un gruppo - coincide infine con quella dei comunisti.


Potrei sottoscrivere parola per parola ciò che ha scritto Adriana Seroni su «Epoca» (25-1-1975). Bisogna evitare prima l'aborto, e, se ci si arriva, bisogna renderlo legalmente possibile solo in alcuni casi «responsabilmente valutati» (ed evitando dunque, aggiungo, di gettarsi in una isterica e terroristica campagna per la sua completa legalizzazione, che sancirebbe come non reato una colpa). Mentre per il «referendum» sul divorzio ero in pieno disaccordo coi comunisti (che lo temevano) prevedendo la vittoria che poi si è avuta; mentre sono in disaccordo coi comunisti sugli «otto referendum» proposti dai radicali, prevedendo anche qui una vittoria (che ratificherebbe in effetti una realtà esistente), sono invece d'accordo coi comunisti sull'aborto. Qui c'è di mezzo la vita umana. E non lo dico perché la vita umana è sacra. Lo è stata: e la sua sacralità è stata sentita sinceramente nel mondo antropologico della povertà, perché ogni nascita era una garanzia per la continuità dell'uomo. Ora sacra non lo è più, se non in senso maledetto (sacer ha tutti e due i sensi), perché ogni nuova nascita costituisce una minaccia per la sopravvivenza della umanità. Dunque dicendo «c'è di mezzo la vita umana», parlo di questa vita umana- questa singola, concreta vita umana - che in questo momento, si trova dentro il ventre di questa madre. E' a ciò che tu non rispondi.


È popolare essere con gli abortisti in modo acritico e estremistico? Non c'è neanche bisogno di dare spiegazioni? Si può tranquillamente sorvolare su un caso di coscienza personale riguardante la decisione di fare o non fare venire al mondo qualcuno che ci vuole assolutamente venire (anche se poi sarà poco più che nulla)? Bisogna a tutti i costi creare il precedente «incondizionato» di un genocidio solo perché lo status quo lo impone? Va bene, tu sei cinico (come Diogene, come Menippo... come Hobbes), non credi in nulla, la vita del feto è una romanticheria, un caso di coscienza su un tale problema è una sciocchezza idealistica... Ma queste non sono delle buone ragioni.





Pier Paolo Pasolini. Pasolini replica sull'aborto. Sul "Corriere della Sera" 30 gennaio 1975. Poi in Scritti corsari. Ora in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, 2005, pag. 384.
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