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Pier Paolo Pasolini "Squarci di notti romane" Racconto del 1950


Pier Paolo Pasolini all'isola Tiberina, Roma. Primi anni 60. © R.Beny/Library and Archives Canada/ Tutti i diritti riservati

La cosa più bella, la più santa, la più poetica del mondo è l'esser sani.


Sainte-Beuve

I

Nelle notti di marzo l'acqua del Tevere ancora non assorbe la luce delle migliaia di fanali che da Ponte Milvio si sgranano fino a San Paolo: acqua e luci sono divisi da un leggero strato di freddo. In qualche sera, precocemente tiepida, si intravede quello che sarà il prossimo accordo tra la corrente e i lungote­veri, nella purezza della primavera. Il paesaggio buio - aria e acqua - punteggiato da luci in interminabili file ricurve, e arabescato dal buio più fitto degli alberi cittadini... e allora, sva­nito lo strato di freddo, circola tra fiume e fanali un'aria tenuis­sima, impalpabile, tutta trasformata in odore. E l'enorme car­naio trafitto dai mille profumi che lo compongono si adagia sui lungoteveri come un gas che avveleni inavvertitamente, d'in­canto: e tutti, almeno per un istante, sia pure senza saperlo, vorrebbero morire a quel profumo di asfalti lontani (il Pincio, Corso Trieste, la Città Giardino, i quartieri meridionali...), di pattume, di erbe odorose e di pisciatoi. Allora le rotaie del tram, affondate tra le piccole pietre dure del selciato, acquistano un'espressività muta, dura, tragicamente nostalgica: vedete, lì, la città, una città, coi suoi quartieri nuovi e i suoi pomeriggi in cui il bianco del sole è di una noia mortale: e tutto pervaso da una normalità che deprime come una leggera febbre di tisico. Su quelle rotaie dei tram, su quei marciapiedi, su quelle spal­lette dei lungoteveri infebbrati, su quelle scale che conducono al livello del fiume, coi gradini unti di feci, su quei ponti che si stagliano contro un cielo romano - corrotto e seicentesco, d'un nitore che non è mai puro, grandioso ma non infinito - su quelle aiuole dove l'erba è divorata da uno smeraldo insano, su quegli intonachi invecchiati al sole, che nessuno si curerà mai di ripristinare, come se fossero votati a una desolante eter­nità, il profumo delle prime notti precocemente primaverili, come un animale ridestato dal caldo, sfoga liberamente i suoi brividi che scoperchiano i cervelli. Questo meraviglioso soffio, anonimo e infernale, ricostruisce con una fedeltà spietata gli « squarci di notti romane » dell'anno passato...

Da Ponte Sisto all'Isola Tiberina si stende un pezzo di Te­vere paesano: a sinistra il Ghetto che si mette a cantare im­provvisamente, a gola spiegata, in Piazza delle Tartarughe, al Teatro di Marcello, in Piazza Campitelli, a destra la foresta materna di Trastevere. Di qua gli orizzonti sono occupati dagli spazi asfaltati del mattatoio, dei Mercati Generali, e, in fondo, del San Paolo, domenicale e tirrenico, incallito nella leggera sporcizia: di là si va a finire in Monteverde, enorme deposito di un Arar eterno, tra muraglioni papali e ferrivecchi, fin che si arriva al Ponte Bianco, area di costruzione spalmata di croste e disgustoso ciarpame fuori uso; è di là che giungono nei lun­goteveri civili gli odori più stupendamente afrodisiaci: gli odo­ri che tentano ad arrendersi al vizio fino magari al sacrificio della vita il paese dei masochisti, delle zanoide, degli antenuli e degli impotenti. In mezzo alla normalità della finzione quotidiana, col traffico che, come un immenso nodo gordiano di cui sia stata mandata a memoria la formula risolutiva, si risolve di momento in momento - sindrome sontuosa, lucci­cante, borghese e timorata - si depone come una polverina disinfettante il profumo della notte calda dell'anno scorso; e se nel connettivo delle strade nuove e deliziosamente stupide -deliziosamente, se preferite dai giovinetti abitanti nei vicoli lu­ridi - è rado, intermittente, dipanato, ci sono certi posti in cui si concentra, si coagula, si intrica, puzza e marcisce come un ganglio infiammato.

Per esempio, intorno all'orinatoio che sorge in fondo a Ponte Garibaldi: presso la fermata della Circolare Rossa. Fra i tron­chi degli alberi piatti e inodori e la spalletta del fiume, sul breve tratto di marciapiede dove si ammassano gli anonimi in attesa del tram, che li porti verso i loro appartamentini da pompe funebri - verso Monteverde o le distese etrusche di San Paolo.

Pensate, magari, all'isola Tiberina illuminata dai riflettori color inchiostro o carta di caramella menta. Arrosolata gelida­mente, in mezzo al buio sconsacrato del fiume, divenuto spet­tacolo, scenografia, gloria del comune di Roma, attrazione iri­descente e velina. Pensate magari all'ST che passa soffice e gre­ve sul ponte. E alle migliaia di ignoti che dilagano verso il Ghetto, verso Campo dei Fiori.

Intorno al pisciatoio, azzurrino e bianco, c'è il ganglio an­cora esteriormente sano, pulito, disinfettato, normale e anoni­mo. Poi si intravedono due o tre torsi in posizione d'ozio, delle gambe puntate a terra o arcuate con la pianta dei piedi con­tro la spalletta, che assomigliano a quelle delle statue: inutili con un immensità di tempo da perdere. Passano le Circolari, i Monteverde-Bainsizza, ma quei torsi e quelle gambe riman­gono. L'attesa del cliente sale negli occhi come una bolla d'ac­qua: sono occhi rozzamente velati di nero e di giallo: pupille nere sotto ciglia bionde, carnagioni bionde annerite dal sole -pettinature alla ghigo, ondulazioni agghiacciate nel loro calore. Quegli sguardi - la distrazione finta - la corrente ad alta ten­sione, mortale, che passa ad un palmo; e da cui essi sembrano lontani, come da un elemento diverso. Impastati dentro quegli occhi, ammassati, concentrati, ci sono gli strati di una Roma senza antichità, tutta moderna, quotidiana, pezzente e di una attualità che brucia come una fiamma ossidrica a una velocità vorticosa. (Arnardo aveva ragione: il Colosseo e il Teatro di Marcello, quattro pietre rotte. Illuminati dai riflettori, poi, sono così soli che a guardarli fanno rabbrividire...) Provenuti da que­sti strati di Roma che restano dentro di loro come muscolature, respirano l'aria delle notti calde, così compatti e sereni che il loro onore è salvo, puro, senza macchia; come quello dei cavalli. Un altro ganglio è tra le venerande macerie del Teatro di Marcello. Nell'ombra del vicoletto che scende nel venerando prato cosparso di memorie, compare l'anca steatopigica. E’ una donna nata enorme. Che cosa ci sia in lei dell'impudicizia della paragula, Dio solo lo sa: la quarantina è in lei un'età rigogliosa e giusta, richiesta, funzionale: il cliente possiede la competenza necessaria a delibare queste qualità professionali: tutto è nor­malizzato. Sue consorelle le fruttarole dei Mercati Generali - grasse, compatte, con normale pressione sanguigna, profonda­mente pittoriche nel volume fiammingo dei fianchi ricoperti da una gonna grigio-nera e la potenza delle zinne avvolte nello scarlatto scuro o nel verdone o nel grigioperla e le venditrici di violette, lungo Via del Tritone o Piazza di Spagna, con la cesta delle viole violentemente colorite sulla testa, che schiac­ciano loro la statura e le fanno stare erette come regine, il mento proteso come quello dei ciechi - e un mazzo di viole in mano; così colorite che sembrano esplodere: queste donne grasse esi­stono in lei, appena appena spostate da un sorriso spazientito e servile. La merce venduta dalla paragula del vicoletto del Tea­tro di Marcello, è qualcosa di più specializzato delle violette e dei broccoli; le abbisogna un sorriso più significativo, il che non vuol dire affatto più supplicante o spudorato : e infatti c'è l'impazienza. Una inaspettata mamma che si offre al suo bam­bino... Come? tutte le proibizioni e i divieti sono dunque in­franti? Sì, sì, la cosa si può fare, ma andiamo con calma, ragazzino mio... se te voi divertì, mamma tua te la dà, se nun voi, embè, è uguale, ce ne stanno tanti de figli de fiji de 'na mignotta...

Una sua notte... una sua notte in una Roma da far arrossire il giallognolo Belli - in una Roma trasteverina dai ragazzi bru­ni come statue incastrate nel fango... Il dialetto di questa Roma troppo attuale, pieno dei vizi nazionali, settentrionali - l'ultimo grido della sensualità... Ci sono strati di questa Roma dentro gli occhi inespressivi a forza di essere attratti dagli aspetti di una felicità non da capitale ma da rione. Il ragazzo che appo­sta la checca sul marciapiede di una via generalizzata dall'odo­re delle pietre e della nafta, che scivola giù da Piazza Mazzini, dal Pincio, da Via Veneto, dal lontanissimo Corso Trieste, e come un tentacolo fruga nell'anonimo di Corso Vittorio, appena fuori dalle viscere di Campo dei Fiori, dove la primavera ha già altri odori, ben più laceranti. In un tale momento - l'odore dei copertoni bruciati che scoperchia il cervello - le meretrici sotto i ponti tra escrementi di bambini - San Pietro noioso e deserto - il Tevere va sragionando nemmeno più gremito, nel buio, dalla logica, specchiata, nominale, delle cupole. Questa Roma non del 1950 ma dell'ultimo istante, dell'ultimo vaffan­culo gridato dal ragazzo che passa per il lungotevere infebbrato con la camicia bianca già sbottonata - questa Roma così ultima e vicina che solo chi la vive in piena incoscienza è capace di esprimerla... tutti sono impotenti davanti a lei, il papa o Belli redivivo, tutti arrossiscono davanti alla sua bellezza troppo nuda, al modo di dire nato la sera stessa, al mutamento di tono, leggerissimo ma bruciante già d'una nostalgia ossessiva, nel gridare una frase che il dialetto presenta da qualche secolo co­me impossibilitata a ogni mutamento...

È domenica. Nell'ora ambigua tra la cena e il dopocena, lar­ga, quasi primaverile, un'ondata di suoni stagna arpeggiando sconfinata sulla città. Si percepiscono anche i rumori minimi, dai tetti, dai cortili: corpi di metalli urtati, sillabe, gridi di ragazzi dai giardini. Sui marciapiedi soffia un'aria di oleandri e piscine: le porte a vetri degli alberghi di Via Veneto, le rosette degli automobili, i semafori, luccicano nell'atmosfera an­cora chiara che ammorbidisce - allontanandole in distanze atone, da sogno - le strabocchevoli sonorità, sotto i ciuffi di palme, i cornicioni e gli incroci. In Piazza Colonna il Giovane Borghese porta a spasso un canelupo vivace come un uccello. Il cappotto sale e pepe e le mocassino nere: appena creato, o decrepito, cammina sul filo del sesso, il mistero moltiplicato per la coscienza: barzellette e manuali, con la schiena rigida, dura come una muraglia.

Ma il suo coetaneo che sta a vendere viole poco distante, al­l'angolo di Via della Vite col Corso, è invece snodato come un colombo, e si muove dentro le vesti come il gambo di un garo­fano nel vasetto.

Tiene in mano i due mazzi di viole, e le mostra ai passanti, Senza accorgersi di mostrare, invece, la sua impassibile e fresca vergogna: no, non è bello, né grazioso - il colore della notte e delle statue sepolte, che dà al popolo romano la grazia tibe­rina, è in lui appena espresso, non ha dentro tutta la luce; nel torace, nel fianco a spirale come le statue barocche.

Si rigira, giocando col suo busto, sull'angolo di Via della Vite.

Il suo sesso è tutto lì. Ancora e solo misero: esperienze dei lun­goteveri, dei cinematografi, dei bordelli e delle barzellette, ri­maste in lui puramente impressionate, come il colore delle sue viole nella retina del passante distratto.

Il meccanismo della sua sensibilità di colombo congegno che scatta senza contatti con la parte tenebrosa della fantasia -pulito, magari un poco pietoso e ridicolo - ridotto a una ripe­tizione, a una carica, a un moto, che in un colombo va benis­simo, senza i suggerimenti di una impudicizia creatrice, ricosti­tutrice - passaggio da castità a castità. Breve incendio epider­mico risolto in un orgasmo infinitamente più interno nell'an­cora perfetta esteriorità del gesto di porgere le violette giran­dosi sul busto, inebbriante promessa che non sarà mantenuta...

Poi, più tardi, come una città risparmiata dal terremoto e di­sinfettata con enormi getti d'acqua inodora, la Roma domeni­cale di Ponte Garibaldi ferve di gioventù sparpagliata come spazzatura, carta velina, cenci. In Piazza delle Tartarughe i quattro giovinetti che reggono le conchiglie, lucidi, follemente lucidi, sono l'unica cosa che sfugge alla presa del vento: pene­trano la notte con la loro nudità. I ragazzi deposti dalla dome­nica come una schiuma per le strade nuove, non si avvicinano di un millimetro alla compattezza sacra, pura e seducente di quel nudo.

Dopo le panoramiche grandiose e le carrellate smaglianti, l'obiettivo dovrà insomma decisamente puntare su Trastevere e i suoi felici parlanti.

Pettinato alla ghigo - con una giacchetta che pare di nichel come il bare della Lungaretta dove si radunano gli amici - la domenica disegna nei capelli di Gabbriele certe zone intense e succose come le curve del Gianicolo e vi trae riverberi più che tranquilli, inespressivi - inespressivi al modo ch'è inespres­sivo l'odore di primavera che fruga come un tentacolo dentro l'asfalto. « Conosco queste parti parmo a parmo, » dirà Gab­briele: come un coltello conficcato in un pezzo di carne, il suo cuore pesca infatti dentro queste fisionomie di pietra e di spor­cizia, tra Ottocento e Cinquecento, immerse nel '50 come un relitto che va alla deriva: la domenica, improvvisamente, verso sera, macchiata di turchino, dà a queste fisionomie di travertino che mettono sul volto del Trastevere presente, atterrito dall'in­certezza, la maschera tranquillizzante dei secoli, un tremito che filtra, come un povero mucchio di veli, le americane e le scarpe dei passanti, il selciato, la corrente del Tevere, le carrozzerie ancora bagnate delle macchine. Lui canta con i compagni la chanson de geste, interrotta un momento prima, o forse il sa­bato sera, e pronta a riprendere il lunedì mattina, verso le un­dici, ora in cui si alzano i ventenni disoccupati.

La domenica splende su di lui - o splende da lui - sui ca­pelli pettinati stretti sulle tempie e sulla nuca, dove si incontrano le due nere correnti avverse, sontuose di brillantina, e lasciati ri­cadere sulla fronte con un ciuffo a punta, che puzza di zolfo. Grida ai compagni: « A Genova lo chiamano bellino. » I compagni ridono, di un riso intimidatorio, come dentro un cerchio magico, contro il quale si infrangono le incompetenze degli altri - questi insetti che brulicano davanti a Santa Maria in Trastevere come in un alveare di topi. A Genova, a Marsi­glia, a Livorno, a Bologna... L'Italia ha impietrito l'esperienza del giovane trasteverino, che vive legato alle sue parole come se vivesse la vita di un altro, questo Altro splendido e incor­ruttibile con le mocassino domenicali e la camicia bianca abbot­tonata...

Gabbriele una sera aveva esclamato: « Si c'avessi tante piotte quante scopate me so' fatto sott'a Ponte Sisto, mo' sarebbe mi­lionario. » (Dunque per lui, come per il venditore di viole, vale quel meccanismo che in un colombo va benissimo, senza i sug­gerimenti dell'impudicizia creatrice... del passaggio da castità a castità... dell'anestesia, oltre che dell'anonimia, del sesso... Come il venditore di viole rimasto ignoto, anche per Gabbriele sì, queste ipotesi possono valere: ha ventun anni, alto e bruno, da naso, loffio, e bello; tutti i dati secondo la regola, tuttavia... bè, vedremo.)

È con figli come lui che la Maddalena del Teatro di Marcel­lo potrà avere dei rapporti regolari, esemplari ed eterni.

L'incontro avverrà in una notte veramente calda: ma in quelle notti precoci di febbraio e di marzo, quando tutto deve ancora riaccadere, e la primavera futura è come un immenso guanciale pieno di echi, di vita all'aperto, di riflettori color carta calcante, coppe di gelato e meravigliose cosce scoperte, già stava dipanandosi il filo che avrebbe stretto Gabbriele e la paragula in un rapporto professionale, in una combutta di col­leghi. Ma chi stabilirà questi dati, chi sentirà il ribrezzo scon­tato della prestazione, chi esaminerà come in un vetrino i gangli marciti? chi, insomma, svolgerà l'inchiesta onde portare luce sui fatti, o, meglio, portare i fatti alla luce? Gabbriele non sarà solo, quando conoscerà Nadia: presenzierà, infatti, l'interpre­te, il testimonio, il romanziere. Questo sfiatatoio, questo tubo di scarico, questo apparecchio ricevente e trasmittente attraverso al quale la Roma innominabile trova una via di espressione, conobbe Gabbriele in una notte di febbraio, orrendamente pro­fumata di primavera, mentre passeggiava, col cervello scoper­chiato, per Corso Vittorio. Gabbriele gli aveva chiesto, stando in bilico sull'orlo del marciapiede: « Sa ch'or'è pe' ffavore? »

Sul battitore, attraverso il testimone, risulta: Ha viaggiato in un camion mezza Italia. Vive impressioni a Livorno e Bolo­gna. Delusioni in Francia (Marsiglia, Lione). A Genova, diver­titi rilievi di lingua e di costume. Ma non ha, letteralmente, tro­vato nulla « maggior di Roma ».

Non sa nuotare (per giustificarsi racconta una bufola: spa­vento infantile, fratello fiumarolo insanguinato nel correntino).

Gli piace un frego ballare (ma pare senza grande soddisfa­zione: le ragazze non considerano una fortuna il suo in­vito).

Le sue due angosce onnipresenti, fissate: la mancanza di grana (le mille lire) e un fatto, un po' inatteso: insuccesso con le mine per bene. Tutte fije de mignotta, che appena accom­pagnate fuori da una sala da ballo, gli fanno quelle cose che lui vorrebbe insegnare. Non c'è stata nella sua vita una pischella a modo. Un'altra probabile buata: diceva di essere capocellula d'un vicolo di Trastevere. Cosa che non sarebbe da escludersi se in lui la giovanile esuberanza cantasse come una moneta buona... E non...

Ha un amico del cuore: nati nel 1929 a due giorni di distan­za e vissuti sempre assieme - si amano più di fratelli: uno per l'altro farebbe qualsiasi cosa, l'uno senza l'altro non potrebbe divertirsi, ecc. I viaggi a Bologna, Livorno, Lione, li hanno fat­ti insieme, ma, se non è una terza inesattezza, con leggera supe­riorità di Gabbriele: l'Achille, insomma, rispetto al Patroclo, il Niso all'Eurialo.

Ma cominciamo a entrare nel merito. Esistono, come è noto, delle creature sfavorite dalla natura: sono quelle, ad es., come dice dantescamente un verso del Belli, per un caso estremo, che vanno « a cianche larghe e vita sderenata »: il giuggiolone lombardo, il malstampato veneto ecc. Ammassi di carne infeli­cemente addattata allo scheletro a sua volta scollato, plebeo. Alito sicuramente cattivo. Bocca, magari apparentemente flo­rida, che un po' alla volta rivela una piega stantia, stupida, da broccoli, certo, meglio che da baci: una sicurezza quasi urtante. Hanno - no, non la bellezza ma la floridezza dell'asino. Gab­briele appartiene a questa specie. Solo che è ben mascherato: a prima vista è in possesso di tutti i requisiti. Bisognava vederlo, in bilico sul marciapiede, con la sigaretta fra le labbra, nero come il demonio, e bianco come un arcangelo. Poi, le balle, raccontate con infantilismo plebeo, gigione, l'hanno smantel­lato. (L'ultima sua parola col letterato: Che macello.)

Si aggiunga che a giobbare maggiormente il povero diavolo, che poi l'ha sputtanato, il povero diavolo che se ne andava col cervello scoperchiato dalla primavera del Pincio, Gabbriele era perdutamente assimilato al giovine Anonimo, all'N.N., citta­dino che fa della moda la sua natura. Moda, per esempio, nel reggersi in piedi, nel muovere i passi, calcolando su un equili­brio artefatto e intimidatorio, che si addossa a quello auten­tico, onestamente necessitato dalle leggi di gravità. Ci fu un equilibrio da mazurka, un equilibrio da charleston, un equili­brio da fox-trot, un equilibrio da boogie-woogie e ora un equi­librio da samba. Questo equilibrio è semplicemente la mossa.

(Gabbriele camminava o stava secondo l'ultimo grido della mossa. Si muoveva con le spalle in avanti e le gambone tese, i cui polpacci affioravano sgradevolmente, ma quanto moder­namente, contro il calzone stretto.) Ora, se ai requisiti già ac­cennati (nero come il demonio, bianco come un arcangelo) si aggiunge la mossa, come può darsi che egli fosse nulla più che un « pezzo » di figliolo? Ricordiamo il venditore di viole... l'anonimia, l'anestesia... il sesso ridotto a una carica per diver­tire il ragazzino... E la passione per le donne? Bè, povero Gabbriele, anche lui, in qualche modo, deve soffrire. Tutta la carne consumata per costruire quell'ammasso in apparenza ri­goglioso, e in effetti macaronico, che era il suo corpo, era andata a scapito... No, non che fosse incapace... Bisogna entrare nelle zone minate andiamo a tentoni. E vero che con Gabbriele non è difficile scavalcare la linea ... La spiegazione è li.

Quando Gabbriele e il Delatore conobbero Nadia, la mi­gnotta, con loro c'erano altre due lenze. Il Delatore, Arnardo lo aveva conosciuto ancor prima di Gabbriele: sempre in una di quelle notti calde di febbraio e di marzo, quando le due Rome scorrono parallele come una corrente tiepida in un mare freddo, come le corde di un violino, e i gangli comin­ciano a suppurare quasi irritati da un ritmo, funebre o festi­vo, di tamburi, che risale su dal tempo, dalle notti napoleta­ne di Petronio... respiro dell'ossessione... placida sistemazione del vizio inclassificabile e mortalmente inquieto... interpreta­zione boccaccesca dei linciaggi e delle rogne incurabili...

Essi, gli oggetti, il « ragazzo dalla glande grossa » di Lu­cilio, o Arnardo, accettato l'inaccettabile, salvato malgrado tutto l'onore, come spinti da quel ritmo che sopravvive alle genera­zioni, generalizzatore e normalizzante e macabramente origi­nario hanno trovato il modo di mandare al diavolo gli scru­poli del resto mai avuti, e di scendere intorno al ganglio, come fossero del sangue puro, a marcirvi per un momento - per poi rientrare nella notte, calda ma lontana, ah quanto lontana, -nuovamente puri. (Beati gli inconsapevoli, è di essi il regno della terra.) Il cesso in fondo a Ponte Garibaldi - candido e turchino – inaffiato da un'acqua da ospedale dove le morti avvengano clandestinamente resta vuoto e tradito, rientra nella Roma legale.

(Perché mai proprio il nome di « Nadia » alla paragula?) Ecco, l'Autore era entrato in Piazza S. Salvatore in Lauro come se entrasse in una Parma rediviva. Una loggia di cattivo gusto, con la civetteria, l'oreficeria e l'angustia mentale del primo Novecento provinciale - ma poi, improvvisamente, il largo...

Un intonaco leopardiano - ma da piazzetta domenicale. L'aria ferma nel largo, sull'acciottolato, riverberata e risentita come alla vigilia di una festa paesana - o il giorno dopo una festa - o in una festa quotidiana. La mascalcia, con l'odore di muschio delle incudini. La chiesa barocca, le grandi case, intatte nel Seicento o nell'Ottocento, secoli ancora freschi, ap­pena iniziati. Nella grande piazzetta leopardiana rivide come in un sogno, nello spavento paradisiaco di un sogno - l'aria e l'architettura di Parma, o di qualche altra città emiliana o ve­neta, sepolta nella provincia e ridestata dalla sonorità - attutita, afona - di un pomeriggio domenicale di tarda primavera, - le tarde primavere del settentrione provinciale. Un ragazzo leggeva un giornale sui gradini verderame della mascalcia: altre decine giocavano nell'atmosfera purissima, che l'odore di chiuso della grande piazzetta tingeva di non so che accoratezza d'ore di altri crupuscoli, di altre stagioni, più gra­nulose, terse e odorate. Forse con il mare o la montagna vicini: e un profumo di pietre bagnate (o asciutte), di erbe aristocra­tiche, di popolo, di interni poveri ma ariosi. In fondo alla piaz­zetta fra i gruppi di ragazzini e di giovani, raccolti in pittoresco disordine, nel marmo dell'aria accorante, come in una stampa del Pinelli, una bambina aveva chiamato: « Nadia... » con una voce leggermente disperata...

Pier Paolo Pasolini "Squarci di notti romane" (1950) in "Alì dagli occhi azzurri" (1965)

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