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Pier Paolo Pasolini al Circolo Turati di Milano (1972). “Libertà d’ espressione"



Pier Paolo Pasolini al Circolo Turati. Milano, 1972 © MARKA/Tutti i diritti riservati

“Libertà d’ espressione tra repressione e pornografia” è il titolo del dibattito dedicato dal Circolo Turati di Milano alla vicenda del film di Pier Paolo Pasolini I racconti di Canterbury. Il critico letterario Giancarlo Ferretti, moderatore, dopo aver letto il comunicato di protesta del sindacato degli scrittori contro “il preoccupante sintomo di ripresa del clima di repressione”, ha dato la parola all’avvocato Marco Janni. Questi ha ricordato le traversie attraverso cui è passato il film di Pasolini, ancora bloccato dalla censura: la denuncia, la sentenza assolutoria del tribunale di Benevento, la revoca della archiviazione della causa in seguito al sollecito della Procura di Firenze, il nuovo processo, la nuova assoluzione e infine la proposta di appello contro la sentenza assolutoria venuta dalla Corte di Napoli. Sottolineato il contraddittorio comportamento della procura della Repubblica di Benevento, Janni ha voluto dimostrare come l’uso dell’articolo 529 del Codice Rocco – quello che punisce l’offesa al comune sentimento del pudore , e che nel contempo esclude dall’oscenità l’opera d’arte – sia stato in questi anni spesso diretto a scopo di repressioni di carattere ideologico, che vanno al di là del giudizio su quello che offende e non offende il pudore: “La battaglia che dobbiamo condurre non è contro la repressione della pornografia, ma contro la repressione della libertà”.

Hanno poi parlato il critico Morando Morandini (“Sembra giusto a molti che lo Stato difenda il pudore dei cittadini contro chi lo offende a scopo di lucro. Ma esiste, è mai esistita una coscienza comune da difendere?”) e lo scrittore Giovanni Raboni (“La pornografia è di fatto tollerata: è la non pornografia che viene repressa con gli strumenti creati contro la pornografia. Bisogna eliminare questi strumenti”). E, finalmente, ecco l’intervento più atteso, quello dello stesso Pasolini. Lo scrittore accende un’altra sigaretta e dà il via a un discorso estremamente abile e molto lucido. “Il mio ultimo film ha scandalizzato uomini di destra ma anche uomini di sinistra che si dicono progressisti. Non credo che valga la pena di tener contro della censura di destra, ma di quella di sinistra certamente sì. E’ per questo che ho affrontato un vero e proprio esame di coscienza e ho voluto guardare il mio film come lo può guardare un critico”. Detto fatto: Pasolini si è chiuso in una stanzina, solo a tu per tu con la sua opera. Il risultato? “Ho trovato che I racconti di Canterbury rispetta con rigore il mio stile, la mia maniera di fare il cinema. In più in questo film, come già nel Decameron, viene a galla il problema nuovo di dar vita a un’opera unitaria sommando diversi racconti. E’ un problema di montaggio che comporta alcune debolezze che si riscontrano in entrambi i film, ma soprattutto nel Canterbury, costruito com’è su una ben più esile tessitura. Il film infatti risulta come dipinto su un velo, da cui le immagini sessuali si staccano a volte con esagerata pesantezza e violenza”.

L’autore riconosce dunque alla sua opera certi stridori, certe parti non riuscite, che chiama “cadute di ispirazione”. Sono queste che colpiscono sia i codini, sia gli esponenti della cultura di sinistra. “E ciò può avvenire perché rimangono in ciascuno di noi le paure infantili, e perché gli studi e le scelte di poi non sono valse a cancellare la prima, lontana educazione repressiva che ci accomuna tutti”.

A questo punto Pasolini, conclusa la parte illustrativa del discorso, quella sui pregi e i difetti del suo film, passa al tema della pornografia: “Essa è stata oggi scoperta come merce di consumo dal capitalismo. Non è possibile fare delle distinzioni precise fra arte impegnata e erotismo fine a se stesso e io non nego ai registi, anche ai mediocri, la possibilità d’affrontare il tema del sesso. Tema che è anche quello centrale dei miei due ultimi film. Non riconosco a nessuno il diritto di trattare delle persone adulte come se avessero sempre bisogno di tutela, ma non posso condannare i giudici che mi hanno condannato applicando un articolo esistente nel nostro codice: vorrei solo che anche da noi si riconoscesse nel sesso un simbolo di libertà di espressione, anzi di libertà”.

Adesso il pubblico, numerosissimo, interessato, ma anche accaldato, tossicoloso e affumicato oltre ogni limite di sopportazione, si attende la parte, diciamo così, costruttiva del discorso; vuole insomma sapere perché mai uno scrittore finora impegnato in temi seri come il Vangelo, il misticismo, o nei grandi problemi sociali, sia approdato ai più disimpegnati, ai più frivoli lidi dell’erotismo. Ma non sarà accontentato. Del resto Pasolini lo ha già fatto capire all’inizio del suo discorso: “Sono amareggiato, esausto, sfinito da vent’anni di lotta e non combatto più. Datemi la stessa libertà che date a quelli del Decameroticus, del Decamerone nero”.

Piovono le domande, le contestazioni anche arrabbiate, le battute non sempre pertinenti.

“Non so se chiamarla ‘compagno’ o ‘signore’, perché una volta Pasolini era un ‘compagno’ – dice un giovane comunista barbuto –. Ora mi sembra invece che sia un decadente …”; “Lei è un intellettuale e non si pone il problema di chi intellettuale non è, e non capisce che cosa ci sia dietro i suoi nudi”; “Perché lei, uomo di sinistra, usa un linguaggio incomprensibile alle masse popolari? E’ proprio sicuro di essersi finora battuto con le armi giuste?”.

“Sono lacerato dai dubbi” – risponde grave lo scrittore, e tace con un sorriso che illumina la sua curiosa maschera come di cuoio antico. Ma si alza una ragazza con gli occhiali: “Non ha risposto a un quesito importante, e cioè quale rapporto esiste fra cinema e massa. L’operaio che va a vedere I racconti di Canterbury o si fa delle gran risate, o si scandalizza”.

Pasolini risponde mansueto: “Sono diventato agnostico, non so che cosa sia la massa: quando faccio un film penso a uno spettatore che sia un individuo come Lei, non a una massa astratta che non conosco”.

E’ la volta di uno studente di lettere: “In un società in cui le coscienze non sono libere, è necessario che ci sia qualcuno che le guidi”. E altri: “Bisogna che il sindacato-scrittori sia abbastanza coraggioso da chiedere la libertà di pornografia”; “A che età i ragazzini possono conoscere il sesso?”; “Facciamo dell’Italia una nuova Danimarca”; “A diciott’anni o non a diciassette?”. Il dibattito ormai sbanda per i sentieri più disparati: “Pasolini è come Mastronardi, l’intellettuale scomodo alla società”; “I giudici devono applicare le leggi che ci sono”; “Ancora non mi ha risposto: a che età il sesso ai ragazzini?”.

L’avvocato Marco Janni riprende per ultimo la parola e ancora batte sul tema che più gli sta a cuore: “La magistratura pudibonda è anche la magistratura repressiva; non dimentichiamo che la procura di Lodi l’anno scorso ha tenuto a lungo in carcere undici giovani per un corteo non autorizzato di bandiere rosse ed è la stessa che in questi giorni ha sequestrato “Playboy”, nonostante che la rivista si aprisse con la lettera del Sostituto Procuratore di Milano, Guido Viola, in cui si dice: “I famosi ‘nudi’, sia pure integrali, non hanno mai rappresentato un’offesa al buon costume: solo la volgarità offende, mai la bellezza”.

Scontro “Rovente” a Milano su Pasolini e la pornografia di Giulia Borgese © “Il Corriere della Sera” – sabato 11 novembre 1972
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