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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Pier Paolo Pasolini. Angoscia per lettere non spedite. Vie Nuove,1962



Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Roma, nel 1962 © Marisa Rastellini/Mondadori Portfolio/Riproduzione riservata

Sono tornato dal Sudan, e appena a casa, una delle prime cose che ho fatto è stato aprire la posta di Vie Nuove. La posta di Vie Nuove consiste in una busta abbastanza voluminosa che mi viene mandata a mano dal giornale, con sopra scritto, sempre con la solita calligrafia filiforme e dilatata, il mio nome con l’aggiunta “da parte di Vie Nuove”. Ho ritrovato qui, sul tavolo in orribile disordine, questa busta famigliare ormai: proprio un dato dalla vita quotidiana, dopo quasi due anni di consuetudine. Sono abbastanza consuetudinario per averne provato un certo piacere.


Dentro la busta gialletta ci sono di solito due tipi distinti di lettere. Li riconosco subito, a una prima occhiata, questi due diversi tipi: lo riconoscerei, anche se uno di essi non fosse contrassegnato con la parola “personale” scritta con una impaziente e vistosa matita rossa.

Queste lettere personali sono, a loro volta di tre tipi, anch’essi riconoscibili molto facilmente, di solito. C’è la busta su cui l’indirizzo è scritto con la calligrafia mostruosamente incerta, angolosa, rozza, pesante, congestionata, piena di maiuscole che sembrano scarafaggi di parole cominciate in lettere grandi che poi vanno man mano restringendosi per non fuoruscire dallo spazio breve della busta, di ghirigori non privi di ingenua solennità, quasi formule magiche atte a ingraziare il lontano destinatario. Vi si sente dietro la maestra di seconda elementare, la scuoletta rustica, la fatica manuale, la mano rossa e callosa... Queste lettere, intrise di miseria e di stento, di solito mi chiedono un aiuto, diciamo, esistenziale: o sono ragazzi che mi chiedono dei miei libri perché non hanno soldi per comprarli, o dei malati che mi chiedono aiuti economici, o dei disoccupati che mi chiedono di aiutarli a trovare lavoro. Il secondo tipo è, spesse volte, esteriormente, simile al primo: ma, nella maggior parte dei casi, la calligrafia è più agile e spesso elegante: quella delle compagne di scuola al liceo, quella degli impiegati delle poste o delle banche, abituati a scrivere con anonima scioltezza. In queste lettere ci sono per lo più delle piccole fotografie: fotografie dei mittenti. Perché, questi mittenti, hanno in cuore un grande sogno: quello di diventare attori, e hanno, della cosa una idea taumaturgica puerilmente provinciale, facendo tutto un fascio de La dolce vita, di Grand Hotel, o di Accattone. Saltano fuori povere facce biancastre e anonime, appena appena differenziate fra loro da una espressione truce, o da un sorriso malamente mondano o da una intensa espressione perbene. E fin qui, pazienza. Noie, stringimenti al cuore, impazienze, si possono anche provare senza gran danno. Siamo sempre sul puro piano esistenziale. Ma i dolori vengono col terzo tipo di lettere personali (che sono la maggior parte). Si tratta di lettere in cui è, intanto, accluso un manoscritto: versi, racconti, romanzi, soggetti cinematografici, tesi di laurea. Di tali lettere ne ricevo almeno tre alla settimana tramite Vie Nuove, e almeno tre direttamente. E, davanti ad esse, ormai non provo più che pura angoscia.



Intendiamoci, un’occhiata a questi manoscritti la do sempre, se non altro per la curiosità (cosa darei, per scoprire un autore nuovo, di vero valore!): una poesia, una pagina narrativa...Di più non posso, e da ciò l’angoscia. So benissimo che speranze, che struggimenti, che ansie sono nel cuore di chi mi manda queste sue prove a attende un giudizio. L’ho provato anch’io, quand’ero ragazzo e, su prove simili, puntavo tutta la mia vita. Perciò non so dire il dispiacere, il malessere, il rimorso che sento a non poter scrivere quel giudizio che, spesse volte mi è richiesto con tanta simpatia e, soprattutto, a non poter leggere per intero i manoscritti che ricevo. È un brutale fatto di mancanza di “tempo materiale”: sei manoscritti alla settimana, più i libri pubblicati da giovani alla loro prima opera, anch’essi in attesa di un mio giudizio: è possibile poterli leggere? E scriverne? Dovrei impiegare almeno un intera mattinata. Ora, il lavoro solo la mattina, lavoro, dico, a ciò che mi sta più a cuore, alla letteratura: il resto della mia giornata è tutta dedicata all’altro lavoro: il cinema, la critica ecc. Ora è vero che, una volta tanto, potrei anche leggere qualche manoscritto o qualche opera prima e scrivere la mia opinione: ed è infatti quello che facevo fino a due o tre anni fa. Posso assicurare, comunque, che tutt’ora, se l’occhiata che do al manoscritto è veramente positiva (ed è successo non più di due o tre volte in due anni) vado avanti con la lettura e rispondo all’interessato. Ma più di così non posso fare, a meno di non dedicare tutta la mia vita alla letteratura e a vaglio dei manoscritti. E non sarebbe niente, ripeto, se io rinunciassi a compiere questo che è in definitiva un dovere, con indifferenza: no, ne provo angoscia, ogni settimana la mia razione di angoscia per lettere non spedite...


Pier Paolo Pasolini. Le lettere personali, Vie Nuove, 8 marzo 1962, p.35
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