
Pier Paolo Pasolini a Ostia, 1960 © Jerry Bauer/ Tutti i diritti riservati
Non mi rimetterei a scrivere - sia pure una breve nota - sulle borgate romane e i villaggi di tuguri della periferia, se non ritenessi che il problema è oggi completamente nuovo, nel senso che richiede, per essere capito, una nuova interpretazione.
Il lettore innocente non creda di trovarsi di fronte a un ennesimo paragrafo dei cahiers de doléance su questa amara condizione umana.
Queste poche immagini - delle migliaia e migliaia possibili - che egli ha qui davanti agli occhi, e che io commento da «esperto non formale»- non sono immagini di Roma: appartengono a Roma solo in certe loro caratteristiche secondarie, e non essenziali.
Qui siamo nei dintorni di Città del Messico, nei «cortili» descritti nei racconti registrati di Oscar Lewis.
Qui siamo a Palermo, a Partinico, nel mondo testimoniato da Dolci.
Qui siamo a Calcutta, o nei dintorni di Lagos.
Qui siamo a Sakara alla periferia del Cairo, o negli accampamenti dei Beja a Porto Sudan.
Qui siamo nei villaggi della Turchia, della Grecia, del Marocco; a Cochin, a Madras, nei paeselli intorno a Tripoli; nella Giordania.
Qui c'è tutto il Sud America.
Qui c'è anche Harlem e i ghetti negri degli Stati Uniti.
In una sola definizione: queste immagini non sono immagini di Roma, ma immagini del Terzo Mondo. È nel Terzo Mondo che le abitazioni hanno questo colore bigio e profondo di legno marcio, catrame e bandone; le strade questa rugosità di vecchio fango e di vecchia polvere; la pelle dei bambini è di questa pasta grigia e animale; i villaggi hanno queste forme compatte e selvagge, questa intensità di sfondo di quadro dipinto nei mondi preindustriali.
Ora, benché così evidenti, queste immagini rischiano oggi, in Italia, di non poter essere viste. So ben figurarmi gli occhi che sorvolano queste immagini senza guardarle, senza prenderne atto. Sono gli occhi di coloro che «credono» che le borgate non siano, non solo un problema loro, ma un problema attuale. E sono così convinti di questa estraneità e inattualità della «qualità di vita» sottoproletaria e sottosviluppata, che, appunto, non la vedono nemmeno se l'hanno davanti agli occhi.
Si tratta di uomini di cultura, di giornalisti - dell' «Espresso » o del «Corriere della Sera» - di scrittori, di uomini politici: l'élite culturale italiana, paurosa, arrivista e sciocca, che teme di essere fuori moda se si occupa di problemi che essa crede superati da una nuova situazione di benessere e di avanzata industrializzazione: e si sono messi tutti dalla parte della seicento e del video, gorgheggiando cose imparate dalla sociologia di altri paesi, che vivono in ben altre condizioni e hanno una ben altra tradizione recente.
Il problema delle baracche e del fango, della miseria e della polvere, non è un problema particolaristicamente italiano: esso è legato alla cultura del neorealismo solo perché il neorealismo l'ha scoperto per la prima volta; ma l'ha lasciato così com'era: ossia un problema particolaristicamente italiano. Mentre è un problema di più di mezza umanità, quella che si affaccia oggi alla storia, portando enormi squilibri, nella pratica e nelle idee. La guerra di questa umanità si è combattuta in Russia nel '17, e ora in Algeria, a Cuba, nel Viet Nam, e, forse soprattutto, nel cuore degli Stati Uniti d'America, dove, appunto, il problema dei Negri non è un problema particolaristicamente americano, ma riassume una situazione che è tipica di tutto il mondo moderno; una situazione il cui peso storico non è minore di quello della industrializzazione, dell' applicazione della tecnica, dell'automatismo, della cultura di massa. Il problema della fame e il problema della tecnica sono profondamente legati l'uno all'altro: e non si comprende il primo se non si comprende il secondo, e viceversa: perché il mondo è composto dal loro insieme e dal loro contraddirsi.
A Selma, a Montgomery, a Washington si è marciato anche per i baraccati del Borghetto Prenestina, per gli emigrati italiani del Sud, per la povertà dei paesi «in via di sviluppo». E' in questi mucchi di baracche che cresce il seme della rivoluzione: altro che umanitarismo neorealistico, altro che estetica degli stracci! Ho sentito Longa alla televisione alcune sere fa: la più vera, profonda e minacciosa (minacciosa, s'intende, per i borghesi in ascolto) vibrazione rivoluzionaria delle sue parole, è stato l'accenno alla povertà, la povertà vera, la povertà storica, la povertà del mondo rimasto indietro, che con violenza ora cosciente, ora puramente disperata, vuole venire avanti.
[1966]
Pier Paolo Pasolini. L'altro volto di Roma, 1966, in Racconti, sopralluoghi e pagine autobiografiche, in Pasolini. Romanzi e racconti (1962-1975), vol.II, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, I Meridiani, 1998, pp.1684-1686.
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