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Immagine del redattoreCittà Pasolini

De Sade e l'universo dei consumi. Intervista di Gideon Bachmann a Pasolini nel 1975 per Salò.

Aggiornamento: 21 apr 2023


Pier Paolo Pasolini con Gideon Bachmann durante le riprese del film Il fiore delle Mille e una notte in Iran, 1973 © Fondo Gideon Bachmann/CINEMAZERO/Tutti i diritti riservati

Questo film è un’allegoria? e di che cosa?


Sì, lo è; però non è un vero e proprio apologo, come era Teorema, ad esempio. Stavolta il sesso ha una fun­zione metaforica, e quindi il film non è una favola ma una grande metafora, almeno nelle mie intenzioni. Co­me dicevo in quella specie di autocritica sul «Corriere della Sera», il sesso questa volta è la metafora del rap­porto tra il potere e chi è sottoposto al potere.


Pensi che ciò che stiamo vivendo oggi, la cosiddetta li­berazione sessuale, la permissività ecc., sia anche questo una forma di mercificazione dei rapporti umani?


Mi fai questa domanda per farmi ripetere cose che ho già detto fino alla nausea, tanto lo sai quello che ti ri­spondo: sì. Anzi, ti dirò di più; c’è una frase che faccio dire ad un personaggio del mio film, che è questa: «Là dove tutto è proibito, chi vuole in fondo può fare tutto, ha la possibilità reale di fare tutto; là dove invece è per­messo qualcosa si può fare solo quel qualcosa». E il caso dell’Italia oggi: si può fare qualcosa. Prima non era con­cesso niente, in realtà: le donne erano quasi come nei paesi arabi; il sesso era tutto nascosto, non se ne poteva parlare, non si poteva mostrare neanche mezzo seno nu­do in una rivista, ti ricordi? Prima tutto era proibito, adesso concedono qualcosa: fotografie di donne nude, una grande libertà nei rapporti della coppia eterosessuale... Però è una libertà per modo di dire, perché deve es­sere quella. E poi è obbligatoria: appunto, siccome e concessa, è diventata obbligatoria.


Facendo un film di questo genere tu ti muovi su un ter­reno pericoloso, nel senso non soltanto di non essere capi­to ma anche di essere mal capito: non ci pensi?


No, perché il mio è un mistero; è quello che si chiama mistery, il mistero medioevale: una sacra rappresentazio­ne, e quindi è molto enigmatica. Non deve essere capita. Certo che rischio di essere capito male o non capito, ma questo è intrinseco al film stesso.


Che uso fai per esempio, di Klossowski o di Blanchot, che tu citi?


Li cito in quanto interpreti di De Sade, fanno parte della coscienza che i personaggi hanno di quello che stanno facendo. Non soltanto do loro la coscienza che De Sade aveva, ma do loro anche la coscienza degli in­terpreti di De Sade. Così si crea un legame coi nostri giorni, e De Sade viene letto in una chiave più moderna e razionale. Se io affidavo la coscienza dei personaggi solo alla coscienza che dava loro De Sade li lasciavo al di là della psicanalisi, cioè al di là del mondo moderno.


Pensi che il potere espresso dai pochi; cioè da quelli che lo esercitano come preti, magistrati, come i quattro perso­naggi del film continuerà ad essere espresso attraverso queste strutture relativamente tradizionali? O forse il po­tere vero sarà il consumismo?


Secondo me il potere resta tale e quale, solo che cam­bia carattere: cioè il suddito, anziché essere risparmiatore, religioso ecc., è appunto consumatore, imprevidente, irreligioso, laico ecc. Cambiano dei caratteri culturali, ma il rapporto è identico.


Si autosottomette...


Si sono sempre autosottomessi; anzi, prima si autosot­tomettevano con più coscienza, perché c’era se non altro la cosiddetta rassegnazione religiosa, che era una forma di coscienza: «Io chino la testa in nome di Dio» è già una grande frase. Mentre adesso il consumatore non sa affatto di chinare la testa, anzi, crede stupidamente di non chinarla e di avere i suoi diritti.


Ma anche il giovane di sinistra, forse anche di più, pen­sa di non chinare la testa e invece...

Sì, e perché? Lo sto ripetendo da mesi: perché è un consumista anche lui.


Le giovani vittime nel film non si ribellano?


C’è qualcuno che si ribella, ma appena appena, in mo­do incosciente: soltanto uno, ed è il punto culminante del film, muore chiudendo il pugno. Ma praticamente non ho fatto delle vittime, dei personaggi per cui tu stai. Non suscito pietà attraverso le vittime, se non appena appena, con la massima discrezione. Intanto perché il film sareb­be stato orribile, insopportabile: se facevo delle vittime simpatiche, che piangevano e ti strappavano il cuore, do­po cinque minuti uscivi dalla sala cinematografica. E poi soprattutto non lo faccio perché non ci credo.


Il pericolo del sesso scatologico, che sullo schermo non è mai stato trattato..., non hai paura che poi qualcuno scri­va «Pasolini fa sempre queste cose...».


Beh, ma questa volta va talmente al di là dei limiti che per forza questa vecchia cosa che dicono di me dovran­no riesprimerla in altri termini, perché va troppo al di là dei limiti.


Pensavo che per Freud il prodotto digestivo ha sempre avuto dei significati molto ampi: non è che tu hai pensato a questo?


C’è anche questo: sai, in un mistero tutto si condensa. Ma c’è soprattutto il pensiero che in realtà i produttori costringono i consumatori a mangiare merda: il brodo Knorr, oppure i biscotti Saiwa, sono merda. Questo nel film non risulterà, perché è un mistero. Ma è chiaro che io mentre giro lo penso; non so se poi verrà fuori o no. Se io facessi un film su un industriale milanese che produce biscotti, e poi li reclamizza, e poi li fa mangiare a dei consumatori, potrei fare un film terribile: sull’in­quinamento, sulla sofisticazione ecc.; ma non posso star lì a rappresentare un industriale milanese, magari un an­no a pensarci e poi girare: mi annoierei, lo detesto.


E poi la metafora è forse più utile, basta che sia compresa.


Mah, non sarà molto compresa. Sarebbe più utile - nel senso diretto, pratico della parola - farlo proprio co­sì com’è, ma chi me lo fa fare? Sarebbe autolesionismo: un film realistico in questo senso non lo posso fare per­ché... perché non lo posso fare, proprio fisicamente.


Accattone non era realistico?


No, perché rappresentava una classe sociale in realtà arcaica: siccome il mondo sottoproletario era estrema­mente arretrato rispetto alla borghesia, era un mondo arcaico, per me fare Accattone era come tornare indietro di un secolo, anche se quel secolo era contemporaneo.


Tu lo accetti ancora?


Lo accetto, però è caduta completamente la denuncia sociale, è caduta oggettivamente perché quel mondo delle borgate romane non c’è più: quelle battute, quel modo di parlare, quel modo di essere sono scomparsi. Quindi che cosa accuso, che cosa denuncio? Da Accattone è caduta tutta la parte sociale, la parte di denuncia, ed è rimasta solo la tragedia: è diventato più bello il film, secondo me.


E la parte del sogno di Accattone, che sembrava indica­re una tua idea formale che poi non hai portato avanti?


Resta invece valida, però all’interno di una tragedia al di fuori del tempo.


Adesso farai questo film su san Paolo?


No, faccio quello con Eduardo, che si chiamerà o Il Ci­nema oppure Ta Kai Ta, che vuoi dire «Questo e quello» in greco: è un greco citato da san Paolo. Oppure lo intito­lerò Circenses , non so, o forse Dromenon Legomenon, che è un altro dei titoli ancora in ballottaggio: sceglierò.


Pier Paolo Pasolini. De Sade e l'universo dei consumi, intervista a cura di Gideon Bachmann, 2 maggio 1975, in Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Cinemazero, Pordenone, 1979, p. 165. Intervista realizzata a Cavriana (Mantova) il 2 maggio 1975, durante le riprese di Salò.
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