Paolo Pasolini in redazione a L'Ora il 21 agosto 1962 © Nicola Scafidi. Dall'archivio storico del giornale, custodito a Palermo presso la Biblioteca Centrale Regionale.
In Sicilia per preparare “Il fiore delle Mille e una notte”, l'autore risponde colpo su colpo ai suoi molti detrattori. “Io pornografo? Sono i critici che si comportano da piccoli borghesi conformisti”. Sferzante con l'avanguardia letteraria e polemico con il risvolto borghese della contestazione giovanile, Pasolini racconta: “Verga il mio maestro. Guttuso e Sciascia i miei fari”. Un incontro commovente a Corleone
Piccolo teschio angoloso, occhi di scimmietta cattiva: è il malevolo schizzo che di Pier Paolo Pasolini ha tracciato, di recente, uno dei tanti acidi moralisti che pontificano anche sulle colonne dei giornali, rabbiosamente intento a demolire il suo ultimo film., “I racconti di Canterbury”. Non c'è da meravigliarsi: il richiamo al bestiario non è nuovo alle patrie lettere; anche di Foscolo – tanto per fermarci ad un precedente illustre – si scrisse che aveva fisionomia più di scimmia che di uomo. E con ciò? Se Foscolo ha scritto “I sepolcri”, se Pasolini – ci si perdoni l'accostamento - ci ha dato la Poesia a forma di rosa, c'è davvero da gridare evviva le bertucce.
Rivedo Pasolini, dopo tredici anni, a Palermo, in una sera gonfia di burrasca e i suoi occhi, anche se scimmieschi, così pungenti, così curiosi, così avidi, sono tra i più vivi e inquietanti che si possa immaginare. Anche il primo incontro era avvenuto in un giorno di pioggia a Crotone, in Calabria: polemiche, allora, attorno al suo nome, polemiche – scandalo anzi – anche ora. Veniva premiato tra dissensi e appassionate difese, per quel suo straordinario romanzo che è “Una vita violenta”. C'era stata persino l'interferenza astiosa di due partiti politici, la Dc e il Msi, che attraverso manifesti e pubbliche prese di posizioni ingiungevano alla Giuria (De Benedetti, Moravia, Gadda, Ungaretti, Repaci) di non assegnare a Pasolini il Premio Crotone perché “nemico della Calabria”.
Tredici anni sono tanti nell'esistenza di un uomo, di uno scrittore. E perciò mi vien quasi spontaneo di chiedere a Pasolini:
– Dall'”Usignuolo della Chiesa cattolica” alle “Ceneri di Gramsci”, da “Una vita violenta” al suo ultimo “Empirismo eretico” ne è corsa di acqua sotto i ponti. Ha pensato di tentare un bilancio della sua vita di scrittore?
La risposta è decisa, frettolosa:
“No, ho sempre evitato di fare un bilancio perché lo trovo una cosa crudele e forse inutile. Io penso che uno scrittore o un uomo debba dare tutto quello che ha senza fare i conti. Se ha potuto dare tanto, ha dato tanto; se ha potuto dare poco, ha dato poco. Fare un bilancio mi sembra un atto moralistico nei propri confronti. È crudele, forse inutilmente crudele”.
Quali le gioie, quali le amarezze che più hanno lasciato il segno nella sua vita d'uomo?
“Le gioie più grandi sono i momenti in cui mentre scrivo sento che sto scrivendo delle cose che riescono, che valgono. Oppure quando giro un film, quando sento che sto girando una scena, una inquadratura che ha un certo valore poetico. Questi momenti impagabili; sono i più belli della vita. Io credo che gli altri momenti belli siano dati dalla solitudine riempita dall'eros, dalla vita erotica. Sono le due cose per cui val la pena di vivere”.
Dobbiamo attenderci un libro, un'opera sua che lei pensa di poter considerare definitiva o crede di averla già scritta?
“Io mi chiedo quale sia la cosa definitiva, non me lo voglio chiedere appunto perché mi fa male. Può darsi però che l'abbia scritta a vent'anni. Sarebbe doloroso ammetterlo: doloroso e anche arido, e quindi mi impedirebbe di scrivere qualcosa adesso. Veramente sospetto che le cose più belle siano le primissime, quelle in dialetto friulano che ho scritto quando avevo diciotto, diciannove anni. Tuttavia, a volte penso di dovere in realtà dire ancora tutto quel che ho dentro, e ciò mi lascia nell'incertezza e mi sembra che sia più fecondo”.
Ogni suo libro, all'inizio, veniva accolto specialmente dai giovani come un fatto dirompente, una provocazione salutare alla “dignità” letteraria. Oggi sono i suoi film a fare scalpore e scandalo. È accusato, insomma, di fare della pornografia pura e semplice, meramente oziosa o insidiosamente degradante, come si è recentemente espresso un censore. Può spiegare come e perché, partito da un cinema di altissimo livello poetica (“Il Vangelo secondo Matteo”, “l'Edipo” è approdato ad opere che secondo molti critici non rivestono nessun valore artistico?
“Ma io su questo sono matematicamente certo che il torto ce l'hanno i critici. Non certo il torto di non saper valutare oggettivamente un fatto formale come un'opera d'arte, film o romanzo. Ma mi sembra anche di poterli accusare come cittadini italiani intellettuali perché, secondo me, compiono due errori fondamentali: primo quello di non saper capire il valore, il fascino, l'importanza che può avere per uno scrittore mettere mano ad opere di pura narrazione, ad opere non ideologiche pur non essendo egli stesso aideologico. Non capiscono quale fascino possa avere per un artista entrare nell'ingranaggio di un racconto puro, dell'ontologia del narrare, quale meravigliosa avventura formale e quindi anche implicitamente ideologica, sia questa.
Secondo errore che compiono i critici – sia come tali, ma anche come uomini – è quello di gerarchizzare i fatti e gli elementi del comportamento umano: stabiliscono una gerarchia, mettendo, ad esempio, in primo piano la religione, in secondo piano la politica, in terzo piano l'ideologia, poi il sentimento e in ultimo il sesso. E ciò mi sembra mostruoso, poiché una simile gerarchia è inammissibile. Mille volte più alta è una rappresentazione sessuale poetica e consentita che una preghiera recitata male. No, non esiste una gerarchia dei contenuti, ma i critici che parlano male dei miei film la avallano e si comportano da piccoli borghesi conformisti”.
“Il Decamerone”, “I racconti di Canterbury” e, ora, “Il fiore delle mille e una notte”: come è arrivato alla trasposizione cinematografica di queste opere?
“Sono arrivato a questi film probabilmente per la ragione cui accennavo prima. Dopo essere stato un regista molto ideologico, ed aver dato ai miei film una struttura ideologica imperniandoli attorno ad un tema, o meglio, ad un problema, ho voluto tentare questa meravigliosa avventura del non aver problemi, del non aver temi, di fare del cinema come io lo vedevo quand'ero bambino. È questa la cosa fondamentale che mi ha appassionato nel fare questi film. In essi non c'è soltanto il sesso, c'è anche l'avventura del vivere: incontri casuali con i personaggi, le cerimonie, l'essere in un modo o in un altro; soprattutto questo emergerà dalle Mille e una notte, che sono i più favolosi e i più avventurosi di tutti come racconti. E uno di questi elementi è il sesso e al sesso ho dato, anzi, un certo valore di filo conduttore, l'ho concepito sia come totale allegria, come fisicità pura e bella soprattutto nel Decamerone, sia sotto il profilo tragico o almeno drammatico nei Racconti di Canterbury. Nelle Mille e una notte non so quale funzione avrà, certo sarà più sottile perché l'eros arabo ha qualcosa di segreto, di misterioso, di chiuso che nel mondo mediterraneo, nel popolo, non ha, e quando c'è, è ipocrisia.
Quanto poi al problema del sesso in se stesso, per chi abbia minimamente seguito le mie opere precedenti non dovrebbe costituire meraviglia. Quando ho fatto Il Vangelo secondo Matteo, molti si meravigliavano, ma non sapevano. Non sapevano che ho cominciato con le poesie friulane dove si parlava di Pasque, di Cristo che risorge. Come il tema religioso c'era sempre nelle mie opere precedenti, anche il tema sessuale c'è appunto fin dalle origini, solo che è esploso in modo più esplicito in questi ultimi miei film. Cosi come nel Vangelo esplose in modo più esplicito la tematica religiosa”.
Lei avrà seguito certamente il dibattito in corso su diversi giornali a proposito del disimpegno politico teorizzato da alcuni scrittori. Si tratta di una polemica piuttosto vivace che si è accesa in seguito a una serie di sconsacranti articoli del giornalista Giorgio Bocca. Lei che tra gli uomini di cultura italiani è stato tra i più presenti nelle vicende del nostro tempo, ha in proposito qualcosa da dire?
“Sarebbe già la terza volta che dovrei polemizzare. La prima fu negli anni Cinquanta, quando l'ala destra della cultura italiana era contro l'ala sinistra. Quella è stata una lotta facile, possiamo dire, perché c'era una lotta aperta. C'era una sinistra marxista e una destra reazionaria sopravvissuta al fascismo, una destra formalistica. È stata una battaglia giusta e facile. Dopo di che c'è stata l'avanguardia che si è rivelata una delle cose più sciocche e più dannose che siano mai state nella storia della letteratura italiana. A questo punto io naturalmente, benché non lo facessi in modo del tutto ortodosso, ho polemizzato con estrema violenza con l'avanguardia e, spero, nemmeno usando i soliti argomenti banali che hanno usato i letterati miei coetanei in quell'occasione. Ecco, quella mia violentissima reazione al disimpegno dell'avanguardia mi è costata, in quegli anni, una grossa impopolarità, anche perché in quel momento vigeva il terrorismo neo-avanguardistico: chi era fuori dall'avanguardia era fuori moda. Io ho avuto il coraggio di affrontare l'impopolarità e ho detto quello che in proposito avevo da dire”.
“L'avanguardia: una cosa sciocca, assurda, sottoculturale o di una cultura mistificata. E non bastava dire che volevano essere mistificatori: troppo facile! Poi è venuto il movimento studentesco...”.
Già il movimento studentesco...
“E ha dato un colpo di spugna alla neo-avanguardia, vi si è scagliato contro annullando il disimpegno e creando l'astro dell'impegno. In altre parole sorse il nuovo terrorismo. Allora era di moda chi era estremamente “idea”, chi invece non accettava questo era fuori moda. Io, allora, ho polemizzato contro questo nuovo terrorismo che tutto sommato era una nuova forma di sottocultura. Per ben due volte, quindi, ho rischiato fortemente l'impopolarità e l'ho anche avuta. Ora non vorrei ricominciare daccapo, non me la sento proprio”.
“A questo punto non ho niente da dire su quanto sostiene Bocca o qualcun altro, non mi interessa. Potrei partire con la lancia in resta e rischiare un'altra volta l'impopolarità ma la piccola polemica che potrebbe sorgere non eccita il mio senso critico. Tutto ciò avviene sulla scia di una certa restaurazione culturale, anzi è una delle tante forme di restaurazione. È vero che ho polemizzato a suo tempo contro lo stalinismo, ma adesso sono col grande movimento della sinistra”.
Torniamo al movimento studentesco. Si sa che la contestazione giovanile ha avuto in lei uno dei dissenzienti più accesi. Nei giudizi che proprio ora sta esprimendo se ne sente ancora la non placata avversione. Che cosa la spingeva ad una così negativa presa di posizione e proprio nei mesi più caldi?
“Ma io non sono stato avversario della contestazione giovanile, sono stato critico. In un momento come questo, in cui non è più un obbligo né tanto meno una adulazione del vecchio al giovane, proprio ora che stare con i giovani non significa andare alla ricerca di facile popolarità, io sono con loro. Ultimamente ho fatto anche un film per i gruppi di Lotta Continua. No, non sono un avversario: solo che mi sono reso ben conto che la rivolta del '68, fatte salve alcune eccezioni, l'ho sempre vista come un sussulto borghese contro la borghesia, una delle solite critiche che la borghesia fa a se stessa, più o meno violentemente. L'ho vista come una guerra civile del giovane borghese contro il vecchio borghese, ma sempre in nome della sopravvivenza della borghesia. Purtroppo gli ultimi eventi mi hanno dato ragione e mi dispiace di avere avuto ragione.
Mi sembra che ci sia della contraddizione in questo suo atteggiamento, ma c'è anche molto rammarico e tanta generosità, Mi dica, Pasolini, ci sono ancora speranze, prospettive nel mondo giovanile italiano? Quella straordinaria stagione di fermenti non ha lasciato alcun sedimento?
“Anche se pessimisti, anche se non ci si credesse, bisogna pensare a parlare all'insegna di una speranza. Quello che io avrei voluto sperare è che i giovani avessero continuato questa loro lotta disperata che li rendeva vivi. E invece si sono fatti sconfiggere, si sono arresi su tutto il fronte. È una brutta resa perché è una resa ad un mondo che se mette radici diventa inestirpabile. Se questa rivoluzione tanto agognata non la fanno i giovani adesso, non si farà mai più”.
Parole nere, esageratamente sconsolate, a mio vedere. Ma qual è stata, secondo lei, la stortura che ha portato al reflusso della ondata studentesca?
“Questi giovani parlavano della rivoluzione e della classe operaia. In realtà però parlavano in nome della borghesia. Attraverso essi la borghesia ha distrutto quel passato che adesso le dà fastidio. Certo c'è stato anche il momento rivoluzionario come l'autunno caldo del '69 in cui le istanze degli studenti coincidevano con il contesto più generale della lotta di classe, della lotta operaia. Ma in generale vale quello che ho detto prima”.
Parlando, Pasolini, si fa cupo. Ed è questo, del resto, un discorso che ci porterebbe assai lontano. Può ristabilire un'atmosfera serena o quanto meno o più distesa, un accenno alla Sicilia?
“Una idea della Sicilia? I miei primi ricordi risalgono a vent'anni fa, quando venni qui per la prima volta. Ebbene debbo dire che allora mi piaceva molto di più la Sicilia e continua a piacermi nella misura in cui l'ho amata allora. La ragione è molto semplice. Da una parte c'è il fatto che tantissimi siciliani sono emigrati al nord e quindi la Sicilia è spopolata di siciliani. Ho visitato in questi giorni dei paesi dell'interno ed erano completamente deserti, come un palcoscenico abbandonato. Dall'altra parte c'è la questione della speculazione edilizia che ha distrutto le cose migliori della Sicilia, come accade in tutto il mondo. Ma a me dispiace particolarmente che questo sia avvenuto in Sicilia. Mi attrae la zona di Palermo perché, anche se per fattori ritardanti, ha conservato meglio la sua cultura, quella che io amo, che vorrei si evolvesse in una dimensione tutta siciliana, che non venisse distrutta dagli scempi edilizi e urbanistici o svuotata dalla fuga delle sue più vive intelligenze”.
A proposito di talenti, tra gli scrittori siciliani ce n'è qualcuno che stima in particolare, o ama?
“Lei mi parla di quella che è stata la stella fissa della mia formazione letteraria, cioè Verga. Credo che la mia narrativa sarebbe inconcepibile senza Verga. Non amo Pirandello: lo stimo, lo leggo, considero il problema di Pirandello molto interessante. Il suo teatro soprattutto. E quella sua strana adesione al fascismo. Il suo fascismo che era poi il contrario del fascismo. Fra gli ultimi i contemporanei, amo soprattutto Sciascia. Non vorrei però dimenticare Lucio Piccolo, l'inquietante poeta dei canti barocchi”.
E tra gli artisti?
“C'è Guttuso che io amo molto. Posso dire che fa parte della mia vita. Praticamente abbiamo cominciato insieme: quando lui era famoso, quando cioè aveva dipinto quella sua straordinaria Crocifissione che esposta a Bergamo suscitò scandalo e ammirazione insieme, io ero uno studentino che cominciava a formarsi. Da allora le nostre carriere si sono intrecciate”.
E tra la gente qualunque?
“Le posso dire un fatto bello ultimo, l'ultimo che mi è capitato. È stato l'incontro con il padre di uno dei ragazzi che ho scelto per il film che mi accingo a girare. Un ragazzo di Corleone, molto sviluppato, molto più grande della sua età. Dimostra diciott'anni mentre ne ha sedici. Dovevo andare a parlare con suo padre, con la famiglia per avere il permesso di portarlo con me. E ho conosciuto questo padre: è stato un incontro, un fatto estremamente poetico. Un incontro che peserà nella mia vita”.
“Ecco, la poesia consiste nel modo di essere di quest'uomo. È un uomo molto piccolo di statura, neanche la metà del figlio, con degli occhi e dei capelli nerissimi, curvato dal lavoro perché fa ancora il contadino. L'ho trovato di ritorno dalla campagna, quindi stanco. È un uomo che ha fatto tutta la guerra e me lo ha detto con una semplicità, quasi dicesse: sono andato a Palermo. Mi ha raccontato che ha combattuto in Francia, in Albania, in Libia, che è stato prigioniero in sette parti d'Africa e da ultimo in Inghilterra. È tornato ed ha trovato il dopoguerra che sappiamo a Corleone. Poi, a proposito di suo figlio, mi ha detto che il solo pensiero di staccarsi da questo ragazzo che si è visto crescere accanto, gli fa venire le lacrime agli occhi. Ma d'altra parte – ha aggiunto – non voglio che al ragazzo siano precluse possibilità per l'avvenire. Mi ha detto delle parole così sagge e così sincere che mi hanno molto commosso”.
Mario Farinella. "I fulmini di Pasolini" su "L'Ora" 11 dicembre 1972, p.3.
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