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  • Immagine del redattoreCittà Pasolini

Il Boccaccio più realistico nel Decamerone di Pasolini,in prima mondiale alla Berlinale 1971.


Pier Paolo Pasolini alla 22ª edizione della Berlinale per il film Il Decameron, 1971 © Erika Rabau/Deutsche Kinemathek/Tutti i diritti riservati

Il regista ha «stoscanizzato» il libro, scegliendone le novelle napoletane: ma si è tenuto fedele allo spirito dello scrittore - Si riscopre una gente che, assai prima di Freud, aveva fatto del sesso il problema centrale. Il Decamerone di Pasolini è stato proiettato oggi in «prima» mondiale al ventunesimo festival cinematografico di Berlino, dove è stato applaudito in diverse sequenze. Il regista e il protagonista Franco Cittì e Ninetto Davoli sono stati salutati calorosamente da un folto pubblico, fra cui erano presentì molti italiani residenti a Berlino. Pasolini ha dichiarato ai giornalisti del Festival che con il Decamerone ha aperto una trilogia. La seconda parte dovrebbe essere conclusa in agosto. La terza sarà un adattamento delle «Mille e un notte».


Trasferire sullo schermo, in senso proprio, non si potrebbe neppure la novella di Bertoldo: figuriamoci il Decamerone! Pier Paolo Pasolini, da quell'artista colto che è, si è dunque guardato bene dall'emulare in qualche modo la forma del gran libro, «illustrandone» questa o quella novella; ma ha fatto come se essa non fosse, vale a dire l'ha riprecipitata a materia, a caos; nel quale poi si è mosso come gli è piaciuto. E cosi dovrebbe fare ogni regista davanti a un'opera letteraria; ispirarsi piuttosto agli indici e ai sommari (e nel Centonovelle i sommari ci sono e splendidi: veri inviti a sceneggiare), che non al testo spiegato.


Volendo esprimere in breve che cosa sia questo Decamerone pasoliniano (prodotto da Alberto Grimaldi, il produttore di Fellini-Satyricon), si potrebbe dire ch'esso rappresenta la vita fetale di alcune parti del vasto mondo racchiuso in quel capolavoro; e di quelle parti soltanto che potevano accendere la poetica (e la polemica) del nostro autore. Via dunque la stilizzata «cornice» (Pasolini ne inventa due altre), e via, dalle novelle, tutto il magnifico, il cavalleresco, l'avventuroso puro e, non parliamone nemmeno, il morale o il moralistico; e in luogo del Boccaccio «purgato» della tradizione umanistica, il Boccaccio rigorosamente impurgato (e altrettanto autentico) della sensualità, dell'astuzia, della beffa, della satira, della trascendenza, della gioia vitale; un Boccaccio quanto mai « boccaccesco » ( ma nel senso giusto).


Non basta. Ricordate la sentenza, un po' a effetto, del De Sanctis? Boccaccio concepisce come Plauto e scrive come Cicerone. Orbene Pasolini ha tolto dal Decamerone soltanto il «plautino»; ma poi non si è neppur sognato di metterlo in una forma cinematografica che equivalesse alla ciceroniana, anzi io ha calato nella sua propria, che è quella viscerale, mistico-naturalista, degli emblematici «ragazzi di vita». Per questo si è parlato prima di un mondo decameroniano colto nella sua vita uterina, volendo significare, non già mancanza di elaborazione, ma un'elaborazione affatto diversa da quella che gli fu data dal Certaldese. Il quale era toscano; e invece Pasolini ha puntigliosamente stoscanato le novelle, facendo di Napoli, immota nella storia, il loro nuovo centro di gravità; e parlava in lingua (e quale lingua!), laddove Pasolini, forse esagerando un po' nella misura, gli presta un bailamme di dialetti campani dal quale risulti meglio l'accezione populistica del suo trattamento.


Ma importa che questo Boccaccio così amorosamente stravolto e dissacrato trovi nel film una sua coerenza: come ci pare faccia. Non abbiamo un film a episodi (squallidamente inteso) e neppure un'antologia intellettualistica, ma un animoso pastiche dove invenzioni strutturali, interpolazioni e le novelle stesse concorrono a dare un'impressione di esultanza vitale, di un buon umore finora abbastanza raro nelle vene di Pasolini. Alla prima parte introduce Ser Ciappelletto (Franco Citti), il grande ipocrita che forse fu santo (e per noi fu); alla seconda Giotto (Pasolini stesso), che uscendo dalla sua nicchia testuale (un semplice motteggio con Forese da Rabatta» per andare a Napoli a dipingere l'affresco dell'Incoronazione della Madonna con un lampo di Silvana Mangano), è in fondo il personaggio principale, come quello che inedia il mondo del sottosviluppo — fuori della storia, e perciò serbatosi uguale dal Trecento a oggi — con la divinità dell'arte, intesa però in senso proletario-artigianale, quale «bottega».


Gli episodi che si succedono senza visibili cesure sono quelli di Andreuccio, di Masetto, di Peronella, di Ciappelletto, di Riccardo e Caterina o dell'usignolo, dell'Isabella, di donno Gianni o l'incantesimo della cavalli!, e filialmente di Tingoccio e Meuccio, dei quali sarebbe grave che il lettore adulto non ricordasse i contenuti. Non si guadagnerebbe nulla a considerare tali episodi come altrettante «versioni» delle novelle boccaccesche. Riuscirebbero troppo sunteggiami ed elusivi; su tutti quello del monumentale Ciappelletto, che diroccato dai periodi in cui solamente consiste, si riduce a poco. I più di essi, considerati «a valle» come oggi s'usa dire, seno francamente osceni; ma qui bisogna dar merito a Pasolini di avere, altrettanto francamente, rotto il diaframma che separa, in questa materia, la parola (sempre casta) dall'immagine. Vivaddio egli non ha celiato sul sesso (come troppi registi boccaccevoli usano fare); ma, alitato dalle sue teoriche, lo ha trattato a visiera alzata, dandogli vento (Masetto, Peronella, donno Gianni) quanto più ha potute, e quando non glie l'ha potuto dare richiamando l'attenzione dello spettatore su pettignoni bardati di cuoio, e sempre tenuti in posizione iccentata.


Al nostro gusto le notazioni bestiali della novella di Masetto capitato fra le monache, sono riscattate da momenti panici che intervallano, di fitto meriggio, le concupiscenze scatenate nel p cedo convento moresco; ma lo stesso non diremmo di quella di Peronella, tutta risolta nell'icastico. Gustato il tono di ballatella stercoraria dato all'avventura di Masuccio, metteremmo al vertice di queste «riletture» la novella dell'Isabetta, sentita in termini feroci di «delitto d'onore», e subito dopo quella di donno Gianni, deve l'osceno, caldo come letame, è spia d'una tragica desolazione sociale.


Ma più delle tessere, conta il mosaico e l'aria ambiente (il Trecento rustico ricreato con puntuale filologa); quel pigiarsi, come alla predica, di tante teste di scemi risolenti e devastati nella dentatura, di scervellati, di pinzocheri, di guappi e teppisti, e di altri campioni di un'umanità bassa ma per ciò stesso esemplarmente naturale, come anche mostra l'esercizio, per così dire automatico, ch'essa fa della concupiscenza. Antica gente che, tanti secoli prima di Freud, aveva fatto del sesso il problema centrale. In questo campo Pasolini, applicato alla sua congeniale tavolozza, è forte davvero.


Visione del Decamerone dal basso, ma non per questo meno composita e raffinata nelle scenografie, nei costumi di Danilo Donati, nelle belle immagini a colori fotografate da Tonino Delli Colli, nelle musiche popolari (curate dallo stesso regista), nelle sprezzature del dialogo gergale, nella condotta e soprattutto nell'impostatura pittorica dei tanti interpreti, i quali, con le già ricordate eccezioni, più quelle di Ninetto Davoli e di Alberti, sono per lo più attori non professionisti, trascelti dal museo delle conoscenze o delle scoperte fisionomiche dell'autore. Per il pubblico che sentirà la forza del titolo, nessuna delusione (censura permettendo): scandalo ce n'è quanto si vuole. Ma poiché esso è impavidamente sostenuto o addirittura teorizzato, non pesa punto sull'andamento dello spettacolo, che anzi ne toglie sicurezza d'intonazione, impeto e divertimento.


Leo Pestelli. Il Boccaccio più realistico nel Decamerone di Pasolini, in prima mondiale alla Berlinale, Il regista ha «stoscanizzato» il libro, scegliendone le novelle napoletane: ma si è tenuto fedele allo spirito dello scrittore - Si riscopre una gente che, assai prima di Freud, aveva fatto del sesso il problema centrale, su La Stampa 29 giugno 1971, p.7.
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