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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Il mio Cristo fra Gramsci e la Fede. Pier Paolo Pasolini, dicembre 1964


Enrique Irazoqui con Pier Paolo Pasolini durante le riprese del Vangelo secondo Matteo (1964) © Angelo Novi/Cineteca di Bologna/Riproduzione riservata


Sono ormai due mesi che Il Vangelo gira per i comuni italiani... "Va ballatetta...". Ricevo almeno ogni giorno una lettera che mi dà non so se più stringimento o intenerimento al cuore (un prete mi dice "benché io sia prete, le devo dire che il suo Cristo...", una madre che, per aver potuto finalmente andare al cinema col marito e i figli, mi ringrazia...). Sento solo oggi la fatica che quel film mi è costato: tanto che non riesco a sopportare neanche l'idea di farne un altro. Col Vangelo ho evidentemente dato fondo a qualcosa: e perciò sento il vuoto dolorante di tutto quello di cui il Vangelo ha costituito una liberazione.


Perché liberarci dalle cose? Se l'opera d'arte è in qualche profondo e misterioso modo d'auto terapia, di cosa guarisce poi, se non della vita stessa - che è imperfezione, senso del rinvio, senso dell'incompletezza?


Mi sono, in definitiva, così poco liberato attraverso l'operazione artistica, che quei famosi, maligni, cocenti, inafferrabili "elementi religiosi" sono ancora lì, intatti. Tanto è vero che se penso a un film futuro (molto lontano) penso con più insistenza a una vita di Charles de Foucauld che a qualsiasi altro (un santo che non parla mai di Dio - pensandovi sempre ossessivamente - e pone se stesso come esempio muto del pensiero di Dio, tra coloro che meno possono comprenderlo e che sono i protagonisti più indiretti ma più attuali della storia, gli straccioni e gli affamati del mondo sottosviluppato, gli arabi dell'Africa desertica...).


In questo stato di provvisoria liberazione, poi, tendo a ricerche in altri campi d'indagine; quasi a rinviare ogni possibile meditazione sul fondo d'insoddisfazione lasciato dal Vangelo.


So adesso ben chiaramente che il senso della divinità di Cristo nel mio film è dato dal suo mistero, e questo mistero è prodotto dalla tensione stilistica, che a sua volta è dovuta alla tensione psicologica del far coincidere in concreto, in ogni momento, in ogni fotogramma del film lo spirito gramsciano del racconto nazional-popolare (lo stile magmatico tipico di ogni contaminazione, del racconto "come visto da" con l'autenticità del sentimento di chi ci crede. Questo sforzo sanguinante di "sincerità indiretta"...


Pier Paolo Pasolini. Il mio Cristo fra Gramsci e la fede, Il Corriere della Sera, 12 gennaio 1992, p.1. Poi in "Le regole di un'illusione"

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