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La TV è peggio della guerra in Vietnam. Un'intervista a Pier Paolo Pasolini (1967)


Pier Paolo Pasolini a Roma, 1967 © Franco Vitale/Riproduzione riservata

Roma, martedì sera.


Come regista cinematografico, in questo momento, Pier Paolo Pasolini ha toccato quotazioni di mercato mai raggiunte prima. Il suo Edipo re, con buoni incassi, regge le programmazioni in prima visione da tre mesi. Nuovi produttori corteggiano il regista. Si è conclusa la sua collaborazione con Alfredo Bini che per primo gli affidò macchina da presa e credito. La parabola evangelica girata quest'estate per Vangelo 70, la sequenza del « fiore di carta», è al montaggio. In febbraio avrà inizio la lavorazione di Teorema, storia di una «Visitazione divina» nella famiglia di un industriale milanese. Entro il '68 - il regista ha già firmato un'opzione - verrà girato un altro film, ambientato in India, con una tematica simile al precedente: anche qui c'è una presenza divina, ma la religiosità è quella tipica dalla gente povera, protagonista è una famiglia del terzo mondo i cui membri muoiono ad uno ad uno per la fame e gli stenti.


Tuttavia Pasolini dichiara:


«Può sembrare strano, ma in questo momento ciò che più mi interessa sono le tragedie che sto scrivendo o limando: cinque sono pronte, la sesta l'ho appena iniziata. In tre giorni ne ho scritta una, io che ad un testo lavoro anche due, tre anni».


Nella sua casa in cima all'Eur, cui si arriva da un viale deserto battuto dal vento, è possibile cogliere i segni di un'attività fervida e molteplice come la sua. Inviti a mostre di pittura, conferenze, dibattiti culturali, movimenti giovanili, sono sparsi ovunque insieme a riviste, libri, i più recenti dei quali recano titoli come Cattolicesimo e libertà, Dio è morto? Il telefono squilla in continuazione: è il parroco che lo invita ad una proiezione nella sala parrocchiale, il suo produttore, un aspirante scrittore. A tutti egli risponde personalmente, paziente e gentile.


«Soltanto ora - prosegue - mi sono posto il problema di rappresentare i miei drammi. Scrivendoli, non avevo pensato al loro futuro, per questo credo che alcuni non siano rappresentabili. In tutti c'è una trama, ma è trama di pensiero, conflitto in termini ideologici».


Pochi conoscono le sue tragedie. Pilade, la prima che viene pubblicata, uscirà fra quindici giorni sa «Nuovi Argomenti». Bestia da stile doveva essere allestita dallo Stabile di Torino, che però ha rimandato il progetto alla prossima stagione. Pensate e scritte nello stesso tempo, come spiega l'autore, esse offrono versioni diverse di una stessa tematica: sono in versi, costruite secondo lo schema delle tragedie greche: un prologo, un epilogo ed alcuni episodi inframmezzati dal coro.


Pilade si svolge nel periodo che va dalla caduta del fascismo ad oggi. In un ordine cronologico né rigoroso né lincare, Oreste organizza una rivoluzione che si ricollega ai principi della rivoluzione liberale francese. E fallisce. L'amico Pilade, che crede nella rivoluzione socialista, l'organizza ma fallisce ugualmente. Avrà successo invece la rivoluzione che scaturisce dal seno stesso di Argo, quella del neocapitalismo. Bestia da stile è una trasposizione più poetica ed immaginata di vicende autobiografiche dell'autore. Protagonista è un poeta cecoslovacco che ha vent'anni quando scoppia la guerra. Di educazione cattolica e borghese, egli fa la Resistenza, diventa marxista e raggiunge il massimo delle sue possibilità creative, poi fa l'esperienza amara dello stalinismo ed oggi si trova ad affrontare problemi ancora nuovi.


«Sia questo sia gli altri personaggi - spiega Pasolini - hanno uno spessore, una psicologia, che però non sta in funzione individuale ma serve ad illuminare i problemi dibattuti.Come scrittore non mi interessa il teatro della chiacchiera - proiezione del mondo borghese, espressione allusiva e indiretta della realtà, i cui epigoni sono Čechov alla lontana e Ionesco nella versione più ammodernata - né quello rituale, fisico, mimetico, che il Living Theatre fa in modo insuperabile. Il teatro in cui credo è quello della parola, delle idee. Come nelle tragedie greche, i miei personaggi parlano per spiegare ciò che è accaduto prima o durante gli intervalli, per ripensare le azioni compiute o ricercare le ragioni di quelle che faranno. Sono affermazioni uguali a quelle che fa Moravia, ma io sono ancora più rigoroso. Nel Dio Kurt, ad esempio, ci sono due persone che muoiono. In scena, nei miei drammi, non accade assolutamente nulla».


Ora che si accinge a presentare il suo teatro, e dopo le polemiche sollevate da Visconti, Zeffirelli. Moravia, cosa pensa della critica e del pubblico?


« Io non credo che tutto il torto sia dei critici. In Italia, si sa, non c'è tradizione teatrale. Il teatro è una cerimonia sociale che coinvolge un pubblico ben determinato e differenziato: è un cerimoniale classista. A differenza del cinema, che arriva a spettatori di tutti gli strati sociali, lo spettacolo teatrale si rivolge ai piccoli borghesi. Chi, come i critici, è immerso fino in fondo in questo rapporto teatro-pubblico, non può che sbagliare. Ma la fisionomia dello spettacolo teatrale ha avuto una conseguenza ancora più grave: essa ha contribuito a tenere lontani dal teatro intellettuali e scrittori. Poteva il piccolo borghese - che in letteratura abbiamo ignorato, o aggredito, o maltrattato - essere lo stimolo a scrivere drammi o commedie? ».


Oggi tuttavia c'è almeno la promessa di un pubblico nuovo: ci sono i giovani e borghesi più illuminati che frequentano i cabaret, i teatrini di periferia. Cosa pensa di questo teatro di «irregolari»?


«In linea di massima tutto il bene possibile. Però, Carmelo Bene è l'unico seriamente impegnato a rinnovarsi e a non scimmiottare nessuno. Tutti gli altri stanno facendo una falsa rottura. Non recitano come gli attori arrivati ma hanno dato vita ad una nuova accademia, ancora più fastidiosa e convenzionale. Invece di ragionare mitizzano. Invece di studiare raccolgono un po' di Artaud e di Sade, qualche suggerimento dal Living e da Grotowski. Continueranno così per chissà quanto tempo. Ma fra un anno saranno insopportabile».


Se i teatrini d'avanguardia gli provocano questa «rabbia intellettuale», qual è la sua posizione di fronte al teatro ufficiale?


«Disturbo fisiologico: non riesco ad assistere ad uno spettacolo intero. Riconosco che registi come Strehler e Visconti hanno dei grandissimi meriti e si deve soprattutto a loro se nel dopoguerra il nostro teatro si è sprovincializzato, ha rimontato una corrente deficitaria raggiungendo livelli di indiscussa dignità. Ma oggi che possiamo specchiarci meglio con gli altri paesi d'Europa, ci accorgiamo che il lavoro fatto è insufficiente. In un momento in cui l'ansia di rinnovamento era cosi forte e generale in Italia, essi hanno istituito il teatro borghese ma non hanno affrontato la questione principale: la lingua. Perché sui nostri palcoscenici si parla un italiano che non è quello degli spettatori, una lingua artificiosa, retorica, accademica?».


Dopo queste dichiarazioni, non trova contraddittorio che per il suo debutto come autore e regista di teatro abbia scelto la sede di uno Stabile, e che Moravia si lamenti tanto perché Strehler non ha allestito il suo Dio Kurt?


«Ho accettato la proposta dello Stabile di Torino perché mi si offriva un palcoscenico e la possibilità di dirigere il mio lavoro. Questo non significa che scenderò a compromessi. Se le strutture esistenti e gli attori disponibili saranno condizionati, me ne andrò. Per quanto riguarda Moravia, trovo giustissima l'osservazione. Penso che lui abbia preso un grosso abbaglio, di cui si è in parte reso conto. Adesso il nostro proposito è lavorare insieme, raccogliere intorno a noi altri giovani che scrivano per il teatro, formare un corpus di testi nuovi e - se Moravia continuerà a scrivere cose belle come Dio Kurt e i miei lavori si dimostreranno validi - fondare un nostro teatro, allargare l'iniziativa del Teatrino di via Belsiana. Io ho cominciato a girare film da cinquanta milioni. Oggi tutti noi, Moravia, la Maraini, Siciliano e gli altri che verranno, dovremmo metterci a lavorare come se avessimo vent'anni ».


La situazione che lei ha tracciato è pessimistica. Una prospettiva positiva la vede nel lavoro condotto da un gruppo di autori. Non pensa che la tv potrebbe dare un contributo al rinnovamento dello spettacolo in Italia, se ad essa gli intellettuali apporteranno le loro energie?


«Per carità. Penso impossibile una collaborazione con la tv a livello civile. Invece di fare le marce per la pace, io ne proporrei una per il rinnovamento della tv. Essa è più terribile della guerra nel Vietnam, della bomba atomica. E' pernicioso, ed irriducibile, il suo paternalismo, la falsa democrazia, il moralismo, il voler considerare tutti gli spettatori come piccolo-borghesi, di una misura media ed astratta, ignorando che in Italia ci sono anche i contadini, gli operai, gli intellettuali e, soprattutto, le persone intelligenti».


Liliana Madeo Pasolini: La TV è peggio della guerra in Vietnam, La Stampa Sera, 6 Dicembre 1967
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