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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Libertà e sesso secondo Pasolini. Il Corriere della Sera, 4 febbraio 1973





Pier Paolo Pasolini Prix Raoul Levy per il suo film 'Il Decameron' 22 febbraio 1972 © AGIP/Tutti i diritti riservati

Al Decameron è seguita una lunga serie di film che non soltanto lo imitavano, ma cercavano (e ci riuscivano, presso il grande pubblico) di esserne delle perfette con­traffazioni; di passare per i suoi «seguiti»; di riprodurne, insomma l'autenticità. Si trattava dunque di vere e pro­prie truffe o sofisticazioni. La stessa cosa è successa ai Racconti di Canterbury (e addirittura alle Mille e una notte, che devo ancora girare, per esempio, con un Fi­nalmente le Mille e una notte). Insomma la concorrenza è stata ed è continua, sleale, sfacciata, brutale. Una tor­ma di sciacalli ha seguito il Decameron e segue ora i Rac­conti di Canterbury, valendosi di metodi che dovrebbero essere inconcepibili in una società appena civile. E, del resto, sono inconcepibili: nessuno di noi potrebbe con­cepire infatti che uscisse un prodotto chiamato «Agip n. 2», oppure «Finalmente Fiat» (col «finalmente» in ca­ratteri molto piccoli).


Ma questo è il lato puramente commerciale o concor­renziale della faccenda.


C'è molto di peggio, ai danni non solo dell'autore dei prodotti primi - del Decameron, dei Racconti di Canter­bury - ma naturalmente anche del pubblico. Infatti l'equivoco non riguarda solo l'autenticità, ma anche la qualità dell'opera.


La gente - e purtroppo era molta che, incontrandomi per strada, mi chiedeva del Decameron n. 2 o del Deca­meron proibito attribuendomene la paternità - credeva anche che la «qualità» delle opere fosse la stessa (ben­ché, magari, le opere inaugurali gli paressero «riuscite meglio»). Ciò è umiliante per me, ma anche per quegli innocenti. Non si può pretendere dai singoli spettatori che formano il grande pubblico, nessuna forma di cor­rettezza e di autonomia di giudizio. Ormai la gente - tutta - ha perduto il senso della forma. Il giudizio è bru­talmente contenutistico. E questo vale non solo per co­loro che confondono il «marito cornuto» del Boccaccio con quello delle barzellette, ma anche per le «élites» dei privilegiati (come per esempio i critici cinematografici) che credono che un film sia politico perché ha un conte­nuto politico, mentre la sua forma è quella dei più or­rendi e approssimativi prodotti televisivi.


Comunque è un dato di fatto che creare in uno spet­tatore indifeso una confusione di valori che identifichi la «qualità» di un'opera di autore con la «qualità» della più volgare e infame contraffazione commerciale - è de­littuoso.


Ebbene, non una voce in Italia si è elevata a protestare contro tutto questo. Non c'è stato un prete o un magi­strato che abbia protestato contro l'indegnità morale e giuridica di una concorrenza sleale che - sia ben chiaro - non è eccezionale ma tipica della vita italiana. Non c'è stato un prete o un magistrato che abbia protestato con­tro l'indegnità morale e giuridica - ai danni di una sin­gola persona e dell'intero pubblico - della confusione di valori creata da tale concorrenza.

Non c'è da meravigliarsi, certo. È ben nota l'indiffe­renza dei moralisti italiani ai reali problemi morali, quel­li su cui si fonda una realtà nazionale.


A compensare questo colpevole silenzio dei nostri moralisti, si è avuta però, un'alta, vibrante, generale pro­testa per la libertà della rappresentazione sessuale del Decameron e dei Racconti di Canterbury (non delle loro contraffazioni, però).


A questo punto il discorso si restringe e si allarga nel tempo stesso. Si restringe perché un discorso sul sesso è meno vasto, civilmente e politicamente, di quello sulla «produzione» e sugli annessi «valori»; si allarga, perché il discorso sul sesso, è, moralmente, per definizione, più vasto e profondo di ogni altro.


La prima cosa da dire è questa: è un dovere per ogni cit­tadino provare ed esprimere una indignazione morale verso coloro che, per puro interesse, creano «prodotti» contraffatti con gli impliciti «valori» mistificati. Insomma è giusto indignarsi per la contraffazione e la mistificazione dei vini dei Castelli o degli olii lombardi; e sarebbe giusto indignarsi per la contraffazione e la mistificazione dei film romani (oltre tutto il giro di miliardi non è inferiore).

E invece ingiusto - anzi stupido e malvagio - indi­gnarsi per ogni forma di libertà sessuale nel momento in cui essa è libertà d'espressione.

Non vorrei montare in cattedra e non vorrei dare del­le lezioni a nessuno: una persona «scandalizzata», da qualcosa di sessuale, non potrà mai essere convinta, se non attraverso una palingenesi della propria cultura, o l'intervento di una terapia (infatti solo le persone ses­sualmente anormali si scandalizzano per cose sessuali). Voglio limitarmi solo a fare il punto di una situazione, e ricavarne due delle possibili conseguenze, il più possibi­le oggettive.


Nel trarre un film da un testo che inaugura la lettera­tura anglo-sassone, The Canterbury Tales di Chaucer, io non ho voluto farne una illustrazione. Ho voluto fare un'opera autonoma, «di autore». S'intende che in quan­to tale, la mia opera è anche una «lettura critica» del te­sto che l'ispira, e dunque, in quanto tale, contiene in sé i motivi, gli elementi, i fatti «interpretati» (sarebbe perciò errato riferire e addebitare tutto a Chaucer, postulando l'innocenza di una mia presunta illustrazione del testo; ma sarebbe errato anche considerare come del tutto staccato il cordone ombelicale che unisce il mio testo al­la sua matrice).


La grande qualità di Chaucer - che lo pone, sia pur cosi diverso, al livello del Boccaccio - è la capacità della «chiacchiera»: i suoi narratori più che narrare, chiac­chierano; le storie che raccontano sono un pretesto per dei meravigliosi pezzi di bravura comico-moralistica, con una girandola di citazioni preziose, di excursus, di magniloquenze didattiche fintamente arcaiche, di spro­positi popolareschi. Nasce così il distacco dal proprio racconto, l'ironia verso il proprio racconto, che sarà ti­pico di tutta la letteratura anglo-sassone.

Ora questo stile era irriproducibile in un film: la «chiacchiera» come struttura, non si può visualizzare. Ho dovuto dunque lasciar cadere la «chiacchiera» dal testo di Chaucer, e ho dovuto sostituirla con qualcos'altro: ai nudi e rozzi «racconti» che così mi erano rimasti in mano, ho applicato il mio stile, e dunque i miei inte­ressi ideologici.


Quanto al mio stile, anche il più sprovveduto osserva­tore potrebbe accorgersene, è frontale, rigido, ieratico: non ci sono piani-sequenza, non ci sono entrate e uscite di campo, non ci sono personaggi di profilo o di quinta, non ci sono attacchi diretti di montaggio sullo stesso as­se. Mai potrei trasgredire a tali mie regole: è da tale re­strizione che nasce un rigore cui non potrei mai venir meno. Quanto poi ai miei attuali interessi ideologici, il loro insieme è troppo complesso e anche contraddittorio, per poter essere qui definito. Ne isolerò un elemen­to, che ha particolare rilevanza per il mio cinema recen­te: la necessità urgente, dovuta nel profondo a un amore ossessivo per l'argomento, di assumere nell'area del rap­presentabile ciò che per ipocrisia, paura, angoscia, non era mai stato rappresentato, e che pure è una parte es­senziale dell'esistenza: cioè il sesso nel suo momento ap­punto esistenziale, corporeo, carnale.


Non c'è limite alla libertà* di espressione e di rappre­sentazione: non ci può essere limite. Anche il sesso nella sua estrema e indifesa nudità - che è parte immensa del­la vita reale - ha diritto di essere espresso e rappresenta­to. E io ho voluto farlo a dispetto delle gerarchle inamo­vibili degli argomenti, e a rischio dell'impopolarità (perché non è detto che gli ipocriti e i repressi siano solo di destra).

Al fondo della mia rappresentazione (del resto assolu­tamente e rigorosamente casta, anche se nelle sue fulmi­nee apparizioni talvolta traumatizzante) degli atti del sesso, c'è dunque l'esigenza della totale rappresentabilità del reale, intesa come una conquista civile.


La prima conclusione pratica che vorrei dunque trar­re a questo punto è la seguente: bisogna acquistare la coscienza che a nessuno può essere vietato di rappresen­tare la realtà, di cui egli ha esperienza, nella sua totalità; e poiché questo deve diventare un principio, ne conse­gue che deve cadere l'idea della pornografia come un reato: questo è un problema di cultura, non di codice. Se un uomo è così incolto, o possiede un tipo di cultura così infima e volgare, da voler fare (o da voler vedere) dei film pornografici, tanto peggio per lui. Ciò non può essergli legalmente impedito, se tale impedimento lede il principio della libertà (si parla naturalmente di uomini adulti e quindi, di diritto, responsabili).


La cosiddetta pornografia o oscenità, nel nostro codi­ce, non è più tale nelle «opere d'arte». L'articolo 529 del nostro codice sancisce e istituzionalizza in tal modo, un privilegio. Il privilegio dell'artista. È un'idea spiritualistico-borghese dell'arte, che prevede una società selettiva, in cui ci siano delle cerchie capaci di avere sentimenti e idee preclusi di fatto alle masse. Ma supponiamo per un momento che effettivamente (magari in un altro contesto) si possa predicare questa qualità trasfiguratrice dell'arte, e torniamo al caso concreto del mio film - che sta appunto per essere, per la terza volta, giudicato in tribunale.


Il processo che ha portato dal capolavoro di Chaucer ai miei racconti, è consistito, come ho detto, dalla caduta della grande «chiacchiera» di Chaucer, e dalla sua sosti­tuzione con uno stile rigidamente essenziale direi silen­zioso. Molto probabilmente questo ha portato a uno scompenso: un racconto, immerso nella chiacchiera del narratore, può essere più perfetto che se presentato fron­talmente, in una purezza di intensità di contorni che non è nella sua natura. Dunque nei miei Racconti ci può esse­re qualche freddezza formale, qualche assenza di ispira­zione, qualche meccanicità del rigore stilistico. La «poe­sia» vi è raggiunta probabilmente a frammenti. E allora? Allora, la seconda conclusione del mio scritto è la se­guente: la libertà di espressione si giustifica solo con la libertà di espressione, non con la poesia. Riuscirà, cre­do, difficile anche al più cieco dei moralisti immaginare un autore che lavori alla sua opera ossessionato dal di­lemma: «O fai della poesia o vai in prigione.


Pier Paolo Pasolini. "Libertà e sesso secondo Pasolini" in "Il Corriere della Sera", domenica 4 febbraio 1973, p.2. Ora in "Pasolini. Per il cinema". I, p.1571.
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