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Pasolini e Maria Callas: un affetto più grande di qualsiasi amore


Pasolini con Maria Callas a Grado (1969) Fotografo sconosciuto

Il 27 ottobre 1969, il poeta Andrea Zanzotto scrive Pasolini:


Ho sentito voci sul tuo matrimonio...

non si deve sposarsi

né con un uomo

né con una donna

né con una creatura sovrumana

né con scimmia brasiliana

ecc ecc ecc

Dice il mio Nino Mura.


Le voci sentite da Zanzotto riguardano la Callas e l'amicizia con Pasolini nata sul set di Medea: supposizioni scherzose di un loro prossimo matrimonio, diventate subito foto e didascalie di rotocalchi.


Ma anche questo scherzo, forse senza saperlo, ha sollevato un lembo sull'appassionata incoerenza di queste figure femminili che si rincorrono fin dalla giovinezza di Pasolini e, prima di diventare devote amicizie, hanno volteggiato attorno a un enigma con l'illusione di scioglierlo, non bastando che questo enigma si fosse fin troppo chiarito da solo.


Ma forse in questo caso l'enigma è rappresentato dalla figura della Callas, giovinetta assetata di incruenti stragi, che affascina e sgomenta con la violenza dei suoi sentimenti, ... cioè questa barbarie che è sprofondata dentro di lei, che viene fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata ...


Pasolini dedicherà alla Callas un intero ciclo di poesie confluite in Trasumanar e organizzar (1971) , riscoprirà per lei la passione di dipingere ritraendola in una serie di profili ottenuti con dei fiori appassiti, alcuni tracciati sempre nel 1969 tra Safon, Grado e Cervignano del Friuli, altri nel 1970, a Skorpios, in Grecia, durante una breve vacanza. Andrà a trovarla anche a Parigi, insieme partiranno per i viaggi africani a capodannol le scriverà infine molte lettere, anche negli anni dopo Medea.


Ho un affetto più grande di qualsiasi amore

su cui esporre inutilizzabili deduzioni – Tutte le esperienze dell'amore sono infatti rese misteriose da quell'affetto in cui si ripetono identiche. Sono legato ad esso perché me ne impedisce altri. Ma sono libero perché sono un po' più libero da me stesso. La vita perde interesse perché si è ridotta a un teatro in cui le fasi di questo affetto si svolgono: e così ho perso l'ebbrezza di avere strade sconosciute da prendere ogni sera (al vecchio vento che annuncia cambiamenti di ore e stagioni). Ma che ebbrezza nel poter dire: "Io non viaggio più". Tutto è monotono perché in tutto non c'è altro che un certo luccichio di occhi, un certo modo di correre un po' buffo, un certo modo di dire "Paolo", e un certo modo di straziare a causa della rassegnazione. Ma tutto è messo in forse dal terrore che qualcosa cambi. In ogni amore c'è una fusione tra la persona che si ama e qualcun altro: ma ciò è naturale. Nell'affetto ciò sembra invece così innaturale: la fusione avviene a tali profondità che non è possibile darne spiegazioni, trarne motivi per congratularsi, comunque essa sia, della propria sorte. La tenerezza che tale affetto impone al profondo, non conduce a fecondare né a essere fecondati, anche se per gioco; eppure si soccombe ad esso con lo stesso senso di precipitare nel vuoto che si prova gettando il seme, quando si muore e si diventa padri. Infine (ma quante altre cose si potrebbero ancora dire!), benché sembri assurdo, per un simile affetto, si potrebbe anche dare la vita. Anzi, io credo che questo affetto altro non sia che un pretesto per sapere di avere una possibilità – l'unica – di disfarsi senza dolore di se stessi.


Testo: Nico Naldini in "Cronologia. 1975" in "Pasolini. Lettere (1955-1975)" Einaudi
Poesia: "Un affetto e la vita" (1969) in "Trasumanar e organizzar" (1971)

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