top of page
Immagine del redattoreCittà Pasolini

Pasolini: Perché ho fatto "Le 120 giornate di Sodoma". Presentazione spiegazione del regista, pubblicata postuma, 7 novembre 1975.



Pier Paolo Pasolini durante le riprese nel teatro 15 di Cinecittà del film "Salò o le 120 giornate di Sodoma", maggio 1975 © Fabian Cevallos/Sygma/Getty Images/Tutti i diritti riservati

La ragione pratica dice che durante la Repubblica di Salò era particolarmente facile e in "atmosfera" organizzare ciò che hanno organizzato gli eroi di De Sade; una grande orgia in una villa presidiata dalle SS. De Sade dice espressamente in una sua frase, non tuttavia celebre come tante altre, che nulla è più profondamente anarchico del potere: e ciò vale per ogni potere. Per quanto io sappia, però, in Europa non si è mai avuto un potere altrettanto anarchico che quello della Repubblica di Salò: esso era la smisuratezza più meschina fatta governo. Ciò che vale per ogni potere in esso era particolarmente perspicuo.


Dopo il fatto di essere anarchico, ciò che meglio caratterizza il potere - ogni potere - è la sua naturale capacità di trasformare i corpi in cose. Anche in questo la repressione nazi-fascista è stata maestra.


Un altro collegamento con l'opera di De Sade è l'accettazione non-accettazione della filosofia e della cultura dell'epoca. Come gli eroi di De Sade accettavano il metodo, almeno mentale o linguistico, dell'illuminismo, senza accettare affatto la realtà che lo produceva, così i repubblichini accettavano l'ideologia fascista al di fuori di qualsiasi realtà. Il loro linguaggio era in effetti il loro comportamento (come appunto gli eroi di De Sade): e il linguaggio del comportamento obbedisce a regole che sono ben più complesse e profonde di quelle di un'ideologia.


Il linguaggio delle sevizie ha solo un rapporto formale con le ragioni ideologiche che spingono a seviziare. Tuttavia nei personaggi del mio film benché ciò che conti sia il loro linguaggio non verbale ha una grande importanza anche la loro verbalità; fra l'altro anche alquanto verbosa.



Ma tale verbosa verbalità, va precisato, ha importanza in due sensi:


1) fa parte della rappresentazione, essendo "testo" di De Sade, cioè essendo ciò che i personaggi di De Sade pensano di se stessi e di ciò che fanno:


2) fa parte dell'ideologia del film, dato che i personaggi - ricorrendo magari a citazioni anacronistiche di Klossowski e Blanchot - sono anche chiamati a enunciare il messaggio che io ho stabilito e organizzato per il film: anarchia del potere, inesistenza della storia, circolarità (non psicologica neanche nel senso di psicanalitica) tra carnefici e vittime, istituzione precedente a tutto di una realtà che altro non può essere che economica (il resto, cioè la sovrastruttura essendo sogno o incubo).


Il mio messaggio


Non si deve confondere ideologia con messaggio, né messaggio con senso. Il messaggio pertiene per metà (quella logica) all'ideologia, per l'altra metà (quella alogica) al senso. Il messaggio logico è quasi sempre sclerotico, menzognero, pretestuale, ipocrita, anche quando è sincerissimo.


Chi potrebbe dubitare della mia sincerità quando dico che il messaggio di "Salò" è la denuncia dell'anarchia del potere e dell'inesistenza della storia? Eppure così enunciato tale messaggio è sclerotico, menzognero, pretestuale, ipocrita, cioè logico della stessa logica che non trova affatto anarchico il potere e che trova esistente la storia, anzi, pone ciò come un dovere.


Borghesia e nazismo


La parte del messaggio che pertiene al senso del film è immensamente più reale perché include anche tutto ciò che l'autore non sa, cioè l'illimitatezza della sua stessa restrizione sociale storica. Ma tale messaggio è imparlabile: non può che essere lasciato al silenzio e al testo. Ora cos'è, infine, il senso di un'opera? È la sua forma. Il messaggio è quindi formale: e, appunto per questo, illimitatamente carico di tutti i contenuti possibili purché coerenti (in senso strutturale) tra loro.


Gli elementi stilistici - su cui ho costruito il mio film - sono quattro.


1) Accumulazione di caratteri quotidiani di vita borghese ricca e perbene (doppiopetti, decoltées con rispettabili lustrini e decorose volpi bianche, pavimenti lucidi, tavole sobriamente apparecchiate, raccolte di quadri d'arte in parte degenerata (un po' di fronda intellettuale) in parte futurista e formalista: linguaggio medio, corrente, burocratico, preciso fin quasi all'autocaricatura.


2) Ricostruzione adombrata della cerimonia nazista (la sua nudità, la sua semplicità militaresca e nel tempo stesso decadente, il suo vitalismo ostentato e glaciale, la sua disciplina come armonia artificiale tra autorità e obbedienza, eccetera.


3) Accumulazione ossessiva fino al limite (credo) della tollerabilità dei "fatti" sadici, ritualizzati e organizzati, è vero, ma talvolta anche affidati al "raptus".


4) Correzione ironica di tutto questo, attraverso un umorismo che talvolta esplode in dettagli di dichiarata e sinistra comicità: per cui tutto improvvisamente vacilla e si presenta come non vero e non creduto, a causa appunto del satanismo granguignolesco della propria autocoscienza.


In tal senso la "regia" si esprime soprattutto nel montaggio: è là che avviene il dosaggio tra e "serietà" e "impossibilità della serietà", fra un truce, sanguinolento Thanatos e Baubon cheap (Baubon o Bauba era una divinità greca, non ben definita del resto, del riso liberatorio o meglio: osceno e liberatore).


A ogni inquadratura, si può dire, mi sono posto il problema di rendere lo spettatore intollerante e subito dopo smontarlo. Ho avuto la tentazione di intitolare questo film "Dadà", pensando anche a "dudů" (Canta quel motivetto che mi piace tanto - che fa dadà -dada- dadà- da-da-da-


Pier Paolo Pasolini. Perché ho fatto le 120 giornate di Sodoma, in Il Corriere della Sera, venerdì 7 novembre 1975, p.3.

191 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


© Contenuto protetto da copyright
bottom of page