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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Pier Paolo Pasolini inizia il suo incontro settimanale con i lettori di “Tempo” (1968)


Ha messo sua madre nei panni della Madonna. Maria, nel film “Il Vangelo secondo Matteo” era, infatti, la sua mamma. Nato a Bologna nel 1922, ha esordito col volume “Poesie a Casarsa”, dedicato al paese dove si trova sfollato. La morte del fratello partigiano ha ispirato le sue liriche civili.



Pier Paolo Pasolini nella sua casa di Via Eufrate 9, Roma © Immagini appartenenti alla pubblicazione originale du "Tempo" (1968)

Massimo Bontempelli, Curzio Malaparte, Salvatore Quasimodo, e da oggi Pier Paolo Pasolini, si sono succeduti in questi “colloqui” o “battibecchi” col pubblico, qui su “Tempo”. La rubrica di Ansaldo era un’altra cosa: era il piacere, amabile quanto impertinente, della conversazione, dell’aneddoto, della moralità. Uomini, scrittori, poeti diversi, anzi opposti: ma in comune avevano ed hanno il destino più o meno involontario di essere, a se stessi e agli altri “segni di contraddizione”. Perciò le parole degli amici che se ne sono andati - Bontempelli, Malaparte, da poche settimane Quasimodo - irritavano o illuminavano, sovvertivano o persuadevano, ma andavano quasi sempre a segno; e migliaia, milioni di lettori le attendevano, ne avevano bisogno, alternatamente e spesso coincidentemente, come di un eccitante o di un calmante.


Ora tocca a Pasolini. La sua parola è violenta, eppure lui come pochi contro ogni violenza; ma è soprattutto una parola innocente: voglio dire che è fondata sul Bene, quando, per sentito dire, qualcuno può credere che vada a sporgersi sul Male. Certo, da scrittore non ha mai chiuso gli occhi sulla Realtà e cioè sul Male; ma tutta la sua opera è lì a provare che egli crede davvero, e tuttora, alla redenzione dell’uomo singolo e di conseguenza anche alla trasformazione della società. Oggi, però è purtroppo, ci siamo così allontanati (non solo per fatalità, ma anche per necessità e reattività sociali e storiche) delle metrici della Grazia e del Bene, che per tentarne un ritorno non c’è altra via che un trauma, uno shock, che sconvolga da cima a fondo tutte le impalcature e le fondamenta stese della nostra vita.

Questa, ad elementarizzarla e quasi a banalizzarla, è la tesi dell’ultimo libro, e del prossimo film omonimo “Teorema”. Tutta la sua vita - per che non i soffermi davanti alla cronaca alterata e peggio alla sua leggenda falsata - e tutta la sua opera nascondono e nello stesso tempo rivelano una drammatica condizione, addirittura una dannazione, religiosa. E le stesse contraddizioni, più apparenti che reali, tra la vita e l’opera, sono unicamente religiose, come del resto le sue risse tra l’anima e il corpo, il cuore e la ragione, le ingenuità private e le rabbie sociali, le sue albe intime e le notti pubbliche. Il nodo ombelicale - di lui, superstite “Usignolo della Chiesa Cattolica” - è pur sempre Cristo, o sua madre: non a caso egli ha messo sua madre nei panni della Madonna, lungo tutto il Calvario, nel film “Il Vangelo secondo Matteo”.


Corrono al linciaggio.


E di Gesù Cristo, Pasolini ricorda sempre l’aut-aut della verità: “Dite di sì, se sì; no, se no; perché il resto viene dal Maligno”; e per conto suo egli è imperterritamente convinto che “noi in verità - come ha detto a Camon, in una intervista raccolta ne “Il mestiere di poeta” - siamo in preda al Maligno, perché non c’è mai un sì o un no”.


In questa rubrica, inaugurata oggi, Pasolini farà di tutto, dentro di sè e verso gli altri, per provocare lo scandalo della verità; l’unico che gli stia a cuore, mentre chi non lo conosce sospetta che egli solleciti altri intrighi, altri interessi, accusandolo magari di essere un esibizionista mentre è invece piegato su se stesso, carnefice e vittima di introversioni, di complessi di inferiorità e di colpa, umile là dove appare superbo, umbratile quando sembra ombroso, disarmato quanto è aggressivo. È divenuto forse lo scrittore più pubblico, e pubblicizzato; ma non per sua scelta o, come credono, per propria vanità; se mai cade in qualche debolezza, per un eccesso di sensibilità morbosa, ma ha sempre pagato ogni errore, di persona, a viso aperto, in mezzo a tanti colleghi visi pallidi anzi visi lividi. Infatti, oltre a invidiargli l’intelligenza, non ne sopportano la multiforme attività creativa ed operativa, abituati come sono spesso alla propria sterilità o la lenta ponzatura. Credevano forse che Pasolini fosse un enfant-prodige, per poi sbarazzarsene in fretta; invece, di anno in anno, assistono al prodigio permanente della sua durata poetica, del suo lavoro, del suo successo; e allora giocano al ribasso, corrono al linciaggio, e soprattutto trafficano per fare di lui uno di tanti, comprare tra compari. Qualche volta, stanco magari di essere diverso, ha ceduto, si allea, patteggia, ma resta pur sempre di un’altra pasta: è l’innocente fra tanti furbi che per rivalersi l’accusano di essere più furbi di loro. Basta guardarlo in faccia; ed anche se si mettesse addosso tante maschere, persino quella posticcia di Caino, egli resterà perdutamente Abele. Potrebbe anche farne la fine: appunto perché al potere va sempre Caino.





Pasolini, da anni, ha molti lettori. Inoltre milioni di occhi, in tutto il mondo, hanno visto i suoi film, da “Accattone” del ’61, a “Mamma Roma”, a “La ricotta”, da “Il Vangelo” a “Uccellacci e uccellini”, a “Edipo re”; tra qualche settimana vedremo “Teorema” film. I suoi romandi dopo “Ragazzi di vita” del ’55 e “Una vita violenta” del ’59, hanno avuto un successo clamoroso; ma sbaglia chi trascurasse “Il sogno di una cosa” del ’62 e “Alì dagli occhi azzurri” del ’65; il recentissimo “Teorema” libro, poi, oltre che per la tematica religiosa, è il libro più unitario, benché risulti scheggiato, che congloba tutte le sue esperienze di poeta, di narratore, di regista, di saggista, di uomo di idee. Dicono che si contraddice, che cambia idee. Non è vero; può dare corsi e ricorsi diversi elle sue azioni o reazioni, può andare allo sbaraglio e a precipizio oppure invertire una rotta o infrenarla, appunto perché le idee le vive nelle viscere e le paga tutte alla pronta cassa della propria vita, ma il fondo delle sue idee è incorrotto; la primogenitura Pasolini non la vende, anche se pare talvolta vivere a due passi dallo spaccio pubblico delle lenticchie del secolo.


Strano destino, il suo. È diventato un uomo pubblico, ma non aveva nessuna predisposizione ad esserlo. Credono che sia un esibizionista, è piuttosto un punitore di se stesso. Ha successo, pur essendo sempre andato controcorrente; né, per ottenerlo, ha mai rinunciato ai valori, alla verità. Tutto si può dire e fare per infangarlo: ma nessuno può rinfacciargli di essere scrittore o regista “alla moda”, tanto meno “di consumo”. Tutta la sua opera è polemica. C’è uno stato di grazie in quel che scrive, e un lampo interrotto di verità inequivocabile in quel che dice, fa e persino strafà, che anche gli avversari non possono non riconoscergli una autenticità, unica e totale, che gli viene dall’essere, in ogni pagina, in ogni gesto, anche negli sbagli, prima di tutto, e contro tutto e tutti, poeta. Poeta in assoluto; ma non perché quel che tocca oro diventa; al contrario, quel che tocca diventa - è - quello che è. Non è mai stato “il poeta del già poetico”. Proprio l’opposto; tutto gli è nato in mano povero, dimesso, cristiano-contadino: il poeta, in lui, è sempre quel povero figliuolo nato per caso a Bologna il 5 marzo 1922, ma che aveva ed ha tuttora le sue radici, nella Casarsa di sua madre (là dove nasce il suo Edipo) e non nella Ravenna borghese del padre, avvilito ufficiale suo malgrado.


Pronto al dialogo.


La sua poesia in lingua, non per niente è venuta sai suoi primi versi in dialetto friulano, una delle più antiche dell’alveo padano, con dolci incrostazioni bizantine e da latino da Chiesa. Nessuno potrà mai capire Pasolini, meno che meno giudicarlo, senza conoscere quei primi versi di adolescenza, da “Poesie a Casarsa” del 1942 a “Tal cour d’un frut” del ’53, sino alla organica raccolta del ’54 “La meglio gioventù”. È allora, e lassù, che è nata una volta per sempre la poesia intima e, alla pari, nel sangue del fratello partigiano morto, la sua poesia civile. A Casarsa era sfollato con la madre nel ’43; il padre era prigioniero in Kenia. Da ragazzo, aveva attraversato tutta la Padania, da Parma a Belluno, e l’aria bassa e i pioppi di Cremona sono di colpo rivissuti, in “Teorema”, nella scena della fuga di Lucia; quel nome non è casuale, ha addosso la stessa luce pia che da Virgilio a Manzoni è brillata sulla terra lombarda. Vedrete, tra qualche anno, qualche libro germinale sarà “Teorema”! Forse il suo futuro è già là dove Pasolini constata e denuncia che il borghese “ha sostituito l’anima con la coscienza”, così la religione è scaduta e ridotta a un semplice caso di coscienza e quindi di comportamento e perciò soltanto a una piccola morale ... “L’anima - conclude - aveva come scopo la salvezza”; ma oggi, l’uomo né si salva, né si perde; fruga un po’ la coscienza, ne programma e ne pianifica gli alti e bassi, inquieto ma sterile esistenzialista ieri, pacifico e asettico strutturalista, oggi ...


Nel ’57, in mezzo tra “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” pubblicò “Le ceneri di Gramsci”, il più legittimo poema dell’Italia democratica e no, vissuto e vivo proprio tra “Passione e ideologia”, come intitolerà i saggi del ’60; però il suo libro di poesia più ispirato, più alto, resterà “La religione del mio tempo” del ’61. Nessuno della sua generazione, è poeta più vero; e tutti gli avanguardisti, autentici o presunti, non hanno un grammo del suo dono, dei suoi talenti, e neppure della sua tecnica; gli restano inferiori anche sul piano critico, e di uomini di cultura. Inoltre, ha contestato e contesta, ben prima di loro, con meno calcoli, con più sfide. Senza carrierismi; Pasolini pur arrivato e trionfante, e come se, ogni volta, cominciasse da capo; perciò, nessuno come lui, passionalmente ma criticamente è sempre pronto ad un discorso da lontano, antico ma tempestivo, odierno ma sradicato, e soprattutto è il solo ad essere capace di scatenare e di sostenere il discorso perpetuo, anch’esso critico ma non una sola volta negativo, della poesia. La sua forza anche sul pubblico, è questa fede innata sull’atto della poesia: “nel fondo di me resta, solido come un quarzo, un senso di venerazione per la poesia”. Il poeta vero - è Pasolini lo è, come pochissimi - crede alla poesia, non per opporla alla vita, ma per accompagnarla alle sue giornate disperate, e redimerle quanto più, vivendole, non lasciandole grettamente morire in una quotidiana dissipazione di valori.


E da poeta vero, anche se in veste di giornalista, parlerà da oggi ai nostri lettori, che impareranno a conoscerlo, fuori d’ogni leggenda, nella sua inesorabile, e pur così pietosa, trepidità ed intrepidità di vita.




Giancarlo Vigorelli. "Pier Paolo Pasolini inizia il suo incontro settimanale con i lettori di Tempo” su “Tempo” n.32, agosto 1968, pp. 18-19.

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1 commentaire


seba.comis
seba.comis
04 sept. 2022

Pasolini è stato un istintivamente furbo visionario, sempre arrabbiato non si sa con chi, non fa mai nomi, non si compromette. Pone sempre il suo problema, senza dire quale è, davanti al quelli degli altri. Altro che 'sì sì, no no'. Per lui, ma solo per lui, sono intercambiabili. Perfino la sua morte ha preso da lui l'ambiguità, da fatto privatissimo a delitto politico. Da dimenticare.

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