Pier Paolo Pasolini : vivre et encore plus, 1974. Trascrizione e traduzione dell'intervista.
- Città Pasolini

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La morte di un poeta, anche se assassinato, non è una notizia, è un destino.
Finché io non sarò morto nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi, […] e li mette in successione, facendo del nostro presente […] un passato chiaro, stabile, certo.
[Pasolini, Pier Paolo, Osservazioni sul piano-sequenza (1967), in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972]
Così si espresse, con straordinaria lucidità, Pier Paolo Pasolini nel 1967 al Festival di Pesaro. In effetti, le sue parole risuonano come un atto di prescienza: di fronte alla sua morte brutale, al suo destino improvvisamente devastato, i significati più intimi della sua opera sembrano rivelarsi. È quel “montaggio abbagliante” di cui egli stesso parlava: un modo di vivere e, ancor più, di provocare la vita. Pasolini fu un provocatore nato e diffuso, un uomo nei cui sogni convivevano intelligenza, introversione, sensibilità e un’acuta lucidità. Scelse di vivere senza trincerarsi, forse armato di troppa intelligenza, affrontando apertamente le istituzioni, i giovani, la politica — e lo scandalo stesso.
In quale momento del giorno o della notte collocare un uomo tanto complesso e inquieto? Pasolini avrebbe detto che la realtà è, semplicemente, tutto ciò che è. E la sua realtà fu, senza dubbio, quella di una traiettoria estrema, la quale — nel suo potere atrocemente semplificatore — lo condannò a ritrovarsi schiacciato, mutilato e infine gettato come un rifiuto su una terra desolata.
Non dovremmo temere di guardare la realtà. Non dobbiamo aver paura di interrogarla, di spingerci oltre, come cercammo di fare poco tempo prima della sua morte, durante una prima intervista che avrebbe dovuto preludere ad altri incontri. Tu sei un uomo, gli dissi, che ha ormai percorso un lungo cammino. Hai affermato di avere poco tempo da vivere e, di conseguenza, di dover vivere in modo rapido e profondo. Sono parole sorprendenti, lontane dall’immagine consueta di un Pier Paolo Pasolini ribelle, ostile allo spirito piccolo-borghese, fervente marxista, che non sembrava disposto — in alcun modo — a conciliarsi con il sistema.
M.R. – Ora, se ti dicessimo che, in fondo, sei diventato un uomo integrato nel sistema, cosa risponderesti?
P.P.P. – Direi che è vero. Non possiamo sfuggirgli. Direi la stessa cosa di Cristo e di Marx. Il bestseller per eccellenza è il Vangelo, seguito dal Capitale di Karl Marx. Il sistema riesce sempre a integrare gli individui, ma non dobbiamo temere l’integrazione. Una volta integrati, dobbiamo ribellarci di nuovo: ciò dimostra che un atteggiamento critico autentico non sarà mai pienamente assorbito — sarà integrato, sì, ma solo in modo formale. Il Vangelo, infatti, ha conservato intatta la sua forza rivoluzionaria, anche se è stato orribilmente inglobato nella società attraverso la Chiesa. Lo stesso vale per Il Capitale di Marx: nonostante sia stato pubblicato in migliaia di copie e “consumato” da tutta l’umanità, la sua potenza sovversiva non è venuta meno. E così, nel mio piccolo, entro i limiti della mia personalità, accade lo stesso: anche se il sistema mi integra, non perdo la mia attitudine critica nei suoi confronti. Sarà poi il sistema, di nuovo, a dovermi riassorbire, e io, di nuovo, a sfuggirgli. È una sorta di fuga perpetua — un continuo essere catturato e sottrarsi, ripreso e poi evaso ancora.
M.R. – Ma anche tu, ormai, sei diventato Pier Paolo Pasolini: un uomo di potere. Non credi di avere una responsabilità?
P.P.P. – Mah, non mi sento, a dire il vero, un uomo di potere. Ho poca potenza, forse soltanto un certo prestigio intellettuale o letterario. Ma non vivo, nella mia quotidianità, come un uomo di potere. Forse mi illudo, ma la mia vita non ha nulla di quella condizione. Inoltre, sono ancora seduto sul banco degli imputati: un uomo di potere non si siede mai. Oppure, se lo fa, è per trasformarsi in martire — e ciò gli conferisce un altro tipo di prestigio. Ma io, nemmeno in questo senso, sono diventato un martire. Forse, attraverso l’esempio, tento soltanto di tornare a essere quel giovane povero che ero quando arrivai a Roma.
M.R.– Non provi mai nostalgia, quando pensi ai ragazzi della tua giovinezza, a quelli che hanno ispirato Ragazzi di vita…?
P.P.P. – No, no, non ho nostalgia. Ho sofferto troppo. Non vorrei ricominciare a provare le stesse angosce che ho vissuto allora — non, a nessun patto.
Nel 1950, all’età di ventotto anni, Pier Paolo Pasolini arriva a Roma. Costretto a vivere in un quartiere periferico e povero della capitale, comincia a insegnare per un certo periodo. Ci troviamo qui, a Ponte Mammolo — un luogo importante, perché rappresenta, in fondo, il suo primo vero approdo romano. Sergio Citti, che viveva allora in zona, ricorda:
«Son passati venticinque anni da quando conobbi Pier Paolo. Eravamo giovani: partivamo in bicicletta dalla borgata e andavamo a fare il bagno nel punto in cui il fiume compie una curva. Anche Pier Paolo arrivava in bicicletta, e fu lì che ci incontrammo per la prima volta. Due giorni dopo ci rivedemmo, e da allora diventammo amici. Questo è il luogo che Pasolini descrive nella scena dei cani in Una vita violenta. Ricordo ancora la seconda volta che lo incontrai: parlammo un po’, e lui mi disse di essere uno scrittore. Io, ridendo, gli risposi che lo ero anch’io. Ma fui subito colpito dalla sua personalità. Non so dire perché, ma mi affascinava. Da quel giorno, e per venticinque anni, sono sempre rimasto vicino a Pasolini. Siamo sempre stati amici.»
Il contatto con la borgata romana fu decisivo nella vita di Pasolini. La disperata vitalità dei ragazzi di periferia — la loro esistenza segnata dall’ozio, dai piccoli furti, dai compromessi quotidiani — lo colpì profondamente. Quei giovani vivevano ai margini, in un mondo separato, e persino il loro linguaggio gergale contribuiva a quella distanza sociale e poetica che tanto lo affascinava. Pasolini trovò dunque nella borgata il tema dei suoi primi due romanzi: Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), che gli valsero, insieme, fama e persecuzione.
Sergio Citti: Ma quel mondo non esiste più, è chiaro. I genitori di allora desideravano che i loro figli fossero diversi, e i giovani li rimproveravano per questo, quasi ricattandoli moralmente. I genitori, a loro volta, cercavano nei figli un riflesso di sé, per non perdere del tutto la propria giovinezza. C’erano giovani, un tempo, alla Tiburtina III. Ricordo che andavo lì con Pier Paolo: c’erano ragazzi, nostri amici, e anche uomini più anziani. Dicevamo: “Compriamo un litro di vino e andiamo all’osteria.” Si rideva, si parlava, ci si raccontavano storie. Oggi, invece, i giovani non si divertono più: non ridono, non parlano, non corteggiano nemmeno le ragazze. Hanno perso tutto questo, e compiono le cose più orribili. E i genitori ne sono quasi contenti — forse perché vedono realizzarsi nei figli ciò che loro non hanno potuto fare. Sognano che le loro figlie diventino come le figlie dei ricchi. E i giovani lo sanno, ed è per questo che vivono così. Certo, sono disgustosi, diremmo oggi; eppure, sento verso di loro una compassione profonda.
Il primo film di Pasolini, Accattone (1961), è ancora ispirato al mondo della borgata. Gli stessi attori — Ninetto Davoli, Franco Citti e molti altri — erano ragazzi di strada, scelti direttamente da quella realtà che Pasolini aveva amato, raccontato e difeso.
P.P.P. - «Quando ho cominciato a partecipare alle riprese di Accattone, non sapevo nulla. Sapevo soltanto che c’era una macchina da presa, e basta»
S.C. - Quel mondo, ormai, non esiste più. Restano solo frammenti di terra dove girammo Accattone: lì c’era la casa di Nina, e qui quella di Maria — la casa in cui il bambino ruba la catenina al collo del piccolo. Ora non rimane che un po’ di terreno davanti all’ex casa di Nina. Anche le persone che abitavano in queste case sono cambiate: un tempo comunicavano tra loro, oggi invece sono state trasferite altrove, in altri edifici, e non si conoscono più. Non parlano, non si cercano. Hanno un altro modo di vivere. Prima, invece, c’era un senso di vicinanza, di allegria. A casa ci si arrangiava, sì, ma c’era calore. Un po’ di minestra non mancava mai, e a mezzogiorno si pranzava tutti insieme. La sera si usciva: i ragazzi andavano a ballare, si rideva, si chiacchierava. Ora invece, da quando sono arrivate le automobili e i motorini, i ragazzi vogliono tutti possederne uno. E così finiscono per rubare, diventano delinquenti. Oggi qui c’è un grande cimitero. Dove un tempo c’era vita, ci sono solo silenzio e desolazione. Allora, le risate si spandevano su queste case, su questi cumuli di terra; ora non si sente più nulla. Guarda: niente, proprio niente.
Il paesaggio di oggi non somiglia più a quello dei tempi di Accattone. E anche Pasolini era cambiato. Negli ultimi incontri con gli abitanti delle borgate, non ritrovava più le stesse immagini di un tempo. Quelle persone non erano più le stesse. Tagliate fuori dalla loro realtà, avevano perduto vitalità; la miseria, un tempo piena di forza espressiva, era diventata soltanto sopravvivenza.
«La borghesia mi ha rifiutato fin dall’infanzia, nella parte più delicata della mia vita. Mi ha iscritto nell’elenco dei rifiuti, come una cosa da scartare. E io non posso dimenticarlo. La sensazione di quell’infanzia rimane dentro di me: è la stessa sensazione di male che deve provare un uomo di colore di Harlem quando cammina sulla Quinta Avenue.»
[Pasolini, Pier Paolo, Perché siamo tutti borghesi, «L'Espresso», 30 giugno 1968), in Appendice a «Empirismo eretico»]
Il successo lo condusse a ritirarsi nei quartieri borghesi e ricchi di Roma. Non smise, tuttavia, di frequentare la borgata, né di vivere egli stesso una vita parallela, per restare in contatto con quella realtà periferica in cui aveva trovato ispirazione e verità. Una vita ai margini, difficile da analizzare fino in fondo, attraversata da una componente selvaggia e indomabile.
M.R. – Cosa ti ha portato a questo punto?
P.P.P.– È sempre stato l’approccio di uno sguardo, di un’immagine e, soprattutto, di un certo numero di idee a costituire il filo conduttore dei tuoi film e anche dei tuoi libri, non è così?Sì, lo sai, è così perché il cinema è un linguaggio che esprime la realtà attraverso la realtà stessa. Quando scrivo, devo invece utilizzare le parole — cioè dei simboli convenzionali, socialmente codificati. Ma se voglio esprimere, per esempio, un albero attraverso la letteratura, devo servirmi di un segno, di una convenzione linguistica; mentre nel cinema posso esprimere quell’albero attraverso l’albero stesso. Ecco perché per me è stato naturale fare cinema: per amore della realtà. Amo la realtà, e nel cinema mi sono ritrovato immerso tra alberi, uomini, paesaggi e fenomeni umani. Mi piaceva molto, e mi è stato spontaneo esprimere ogni fenomeno attraverso sé stesso, senza mediazioni simboliche.
M.R. – Hai avuto la fortuna di incontrare un produttore come il signor Bini, con cui hai sempre lavorato e che ti ha sostenuto, vero?
P.P.P. – Sì, ho lavorato con lui fin dall’inizio. In realtà, non ho mai avuto difficoltà a trovare un produttore. Ho cominciato a fare il regista a quarant’anni, e in Italia ero già conosciuto come scrittore. Non è stato difficile cominciare allora, e oggi non lo è più nemmeno per me.
Nel 1963 Pasolini realizza La ricotta, terza parte del film a episodi Ro.Go.Pa.G., così intitolato dalle iniziali dei quattro registi partecipanti: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti.Si tratta di un’opera minore, una sorta di commedia burlesca, amara e parodica. La storia racconta di un pover’uomo, Stracci, che interpreta il “buon ladrone” in un film sulla Passione di Cristo. Affamato com’è, ruba tutto ciò che può — qualsiasi cibo gli capiti a portata di mano. Alla fine, la troupe cinematografica, mossa da pietà o forse da sarcasmo, gli offre un vero banchetto: Stracci mangia fino a saziarsi, ma poco dopo, durante le riprese della crocifissione, muore appeso alla croce, probabilmente per indigestione.
M.R. – Possiamo dire che, in tutto il tuo lavoro, si ritrova una sorta di spirito religioso all’interno di un’intelligenza atea?
P.P.P. – Sì, direi che questa è la formula più giusta tra tutte quelle che mi sono state attribuite. Meglio di quelle che parlano di cattolicesimo o marxismo. Forse, più che di “spirito religioso”, parlerei di un atteggiamento razionale di origine psicologica, un sentimento di venerazione, di terrore, di rispetto infantile nei confronti di ciò che potremmo chiamare la “scena originaria”. Questa espressione, usata dagli storici delle religioni e dagli psicoanalisti, designa la rappresentazione che il bambino si fa dell’unione dei genitori: una visione confusa, ma visionaria, in cui la madre e il padre si fondono in un’unica figura dotata di potere creativo. È questa “scena originaria” — la prima ad essere registrata dalla coscienza infantile — ad aver generato in me un trauma, e dunque un atteggiamento religioso verso tutta la realtà. Si tratta, quindi, di una religiosità psicologica più che animistica. Chiaramente, il mio tipo di religione non ha nulla a che vedere con la religione cattolica o con qualsiasi altra confessione: queste ultime sono manipolazioni o elaborazioni storiche recenti, che non mi interessano. Io mi sento piuttosto vicino a un tipo di religiosità primitiva, simile a quella dei bambini.
Un anno dopo La ricotta, Pasolini realizza Il Vangelo secondo Matteo (1964), forse uno dei più grandi film mai ispirati alla figura e alla storia di Cristo.
Vorrei innanzitutto rassicurare coloro che potrebbero trovare elementi scandalosi nella mia visione del mondo. Non ho ricevuto alcuna educazione religiosa. Mio padre non credeva in Dio; se andava alla messa domenicale, lo faceva solo per rispetto verso un’istituzione che garantiva l’ordine costituito. E tuttavia, pur non essendo credente, la mia visione del mondo è profondamente religiosa. Non credo nella divinità di Cristo: il Vangelo, letto fino in fondo, tende a introdurre nella storia una trascendenza divina, ma io, personalmente, non ci credo.
[Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, 1968]
M.R. – Tornando al Vangelo secondo Matteo, parlavamo del momento in cui hai scelto di rappresentare la figura di Cristo. Tu dici: “Ecco questa immagine, ecco questo volto, ma non gli attribuisco alcun merito speciale. È soltanto la mia immagine, un’immagine vuota.” Non ti sembra paradossale? L’immagine, dopotutto, dovrebbe possedere una propria forza, un proprio potere.
P.P.P. – Quando parlo di immagine, non mi riferisco soltanto al suo valore formale: parlo della sua sostanza, del suo sangue, della sua vita. L’immagine è un segno, e in ogni segno è già presente un significato. Quando scelgo un volto umano, scelgo un segno — e in quel segno è già contenuto ciò che esso significa. È difficile spiegarsi in un’altra lingua, ma per me parlare di un’immagine è come parlare di una parola. Come la parola è un segno all’interno di un sistema linguistico e porta con sé un proprio significato, così anche l’immagine è un segno, ma con un significato più misterioso, più infinito di quello delle parole. Ed è proprio questa la differenza tra letteratura e cinema: nella letteratura il segno è la parola — convenzionale, stabilita, condivisa. Nel cinema, invece, il segno è l’immagine stessa, che rimanda direttamente alla realtà e al suo mistero. Nel cinema, il segno – cioè l’immagine – è colmo di significato, ma di un significato misterioso, non sempre decifrabile.
Questo è evidente nel quarto film di Pasolini, Uccellacci e uccellini (1966). In esso, egli amplia l’esperienza già implicita in La ricotta, generalizzandola in una favola di portata universale. È una parabola in cui Pasolini affida a un terzo personaggio, un corvo parlante, il compito di sviluppare i temi ideologici che gli sono più cari. Durante il viaggio di Totò e Ninetto, il corvo parla incessantemente, con il tono tipico dell’intellettuale di sinistra. Ma, alla fine del film, i due protagonisti lo catturano e lo mangiano intero — allegramente — per poi proseguire il loro cammino.
P.P.P. - «Non mi sono mai sentito tanto disarmato e fragile come nel mondo di Uccellacci e uccellini.»
Con queste parole, Pasolini descriveva il film. Non lo considerava simile ai precedenti, né paragonabile ad altri. Non per presunzione o per la sua originalità, ma per la sua natura di favola: una favola con un significato nascosto, come ogni racconto mitico in cui gli eroi devono superare una serie di prove — ma, a differenza delle fiabe tradizionali, non trovano alla fine nessuna ricompensa, né principessa, né regno. Solo altre prove da affrontare.
M.R.- Tra l’autore di Uccellacci e uccellini e il Pasolini del Decameron (1971), sembra esserci una distanza enorme.
P.P.P.- No, i personaggi sono gli stessi, i volti sono gli stessi, le figure, i paesaggi… tutto è lo stesso.
Nel Decameron l’ambientazione non è più la periferia di Roma, ma quella di Napoli — altrettanto popolare, altrettanto marginale. Le case, l’umorismo, il modo di vivere: tutto appartiene allo stesso universo. Il cinema resta lo stesso: è l’ideologia ad essere diversa. In Uccellacci e uccellini essa è esplicita; nel Decameron rimane implicita, ma sempre presente».
Nel 1967, ispirandosi a Sofocle, Pasolini realizza Edipo re. «In Edipo, racconto la storia del mio complesso di Edipo», afferma. «Il bambino del prologo sono io. Il padre è mio padre — un ex ufficiale di fanteria — e la madre è mia madre, un’insegnante. Racconto la mia vita, mitizzata, resa epica attraverso la leggenda di Edipo.»
M.R. – Come spieghi il grande successo che hai avuto con Teorema (1968), anche presso il pubblico cattolico, e i premi che hai ricevuto da ambienti religiosi?
P.P.P.– È vero, Teorema è stato accolto con un’ambiguità sorprendente: un film letto da alcuni come cattolico, da altri come cristianizzante, da altri ancora come semplicemente religioso. Ma non ho mai voluto accentuare questa ambiguità. Non è stata una scelta volontaria: è piuttosto una conseguenza naturale del mio modo di concepire la realtà — una realtà che contiene in sé, inevitabilmente, una dimensione sacra e una profana, inseparabili. Quando ho pensato alle altre opere teatrali che ho scritto — e che sono state poi pubblicate, come Calderón (1967) — mi trovavo in un periodo in cui, tra il 1965 e il 1968, mi sono dedicato intensamente al teatro. Una di queste opere era Teorema. Solo in seguito ho capito che quell’idea poteva trasformarsi in un film. L’origine del soggetto, però, era del tutto privata, personale. Non nasceva con l’intento di parlare a un pubblico. Teorema (1968) è infatti una nuova parabola. Racconta la storia di un misterioso visitatore che entra nella casa di una ricca famiglia borghese milanese e, uno dopo l’altro, seduce tutti: il padre, la madre, il figlio, la figlia e perfino la domestica. Poi, improvvisamente, se ne va, richiamato da un altrove insondabile. Dopo la sua partenza, ciascuno dei cinque personaggi cade in una crisi profonda, in un dramma personale: follia, misticismo, ribellione, o abbandono ai sensi.
Il film ricevette il Grand Prix dell’Ufficio Cattolico Internazionale del Cinema, ma provocò violente reazioni in ambienti vaticani. Fu perfino oggetto di una denuncia che chiedeva la sua censura e distruzione.
Una delle persone più vicine a Pasolini (Laura Betti) in quegli anni raccontò così il loro incontro:
«Pier Paolo è arrivato a casa mia come in pellegrinaggio. Vivevo in modo bohémien, e con lui non ho mai avuto un rapporto “normale”: era qualcosa di diverso, di profondamente umano, ma anche di doloroso. Il nostro legame era come una lotta — la lotta per affermare che “gli omosessuali non esistono”: che Pasolini era, in tutto e per tutto, un uomo, ma un uomo segnato da un amore smisurato, un amore che lo legava alla madre. Era questo amore, così assoluto, che lo teneva in vita e che, allo stesso tempo, gli impediva di cercare veramente la morte. Sua madre era per lui tutto: fidanzata, figlia, madre. Era l’intero orizzonte affettivo della sua vita. Non avrebbe mai potuto separarsene, neppure per un istante. Quella donna era Susanna Pasolini, che aveva interpretato la Madonna nel Vangelo secondo Matteo (1964). La loro relazione – di madre e figlio, ma anche di specchiarsi reciproco – è una delle chiavi più profonde per comprendere tutta l’opera di Pier Paolo Pasolini».
Anche in altri film, come Medea (1969), il tema dell’amore – centrale nell’opera pasoliniana – si intreccia con quello della violenza. In Medea, la protagonista – abbandonata dal suo amante Giasone – arriva fino al gesto estremo di uccidere i propri figli, i frutti del loro amore. È un amore che si trasforma in distruzione, che brucia tutto ciò che tocca, fino a consumarsi tra le fiamme. Davanti a lei, Giasone rimane pietrificato, testimone impotente di quella catastrofe.
M.R. – Penso che il suo film più ideologico sia Il Decameron. Ma si può dire che sia un film poetico, un vero film da poeta?
P.P.P.- Penso che il mio film più ideologico sia Edipo Re, ma Il Decameron è, in un altro senso, un film poetico. È un film di un poeta. Non credo più nella poesia come quando ero giovane, ma nemmeno nell’universo, nella società, come ci credevo allora. Questa è la differenza essenziale tra i miei lavori precedenti e Il Decameron. Tuttavia, resto convinto che Il Decameron sia un film poetico — forse meno riuscito, ma sullo stesso livello. Quando, ad esempio, la ragazza posa la mano sul piccolo uccello del ragazzo, quello è, per me, uno dei momenti più poetici di tutto il mio cinema.
M.R. - Certo, nei film come Accattone o Uccellacci e uccellini c’era una tensione, un’angoscia costante.
P.P.P.- Ma anche la poesia è sempre tensione, sempre angoscia. È in quella tensione che la poesia vive.
M.R. - Ritornando alla questione dell’immagine, Lei diceva che l’immagine ha una forza propria, un linguaggio suo.
P.P.P. Sì, io penso che il cinema sia un sistema di segni, completo, totalizzante. In questo senso, è un linguaggio autonomo, come la poesia.
M.R. – È stato anche attore in molti dei suoi film, come Medea, Il Decameron, I racconti di Canterbury. È un modo per un poeta di entrare nell’immagine, no?
P.P.P.- Sono stato attore in molte delle mie opere — in Il Decameron, ne I racconti di Canterbury… È anche questo un modo per un poeta di entrare dentro l’immagine, di farne parte davvero. L’ho fatto mio malgrado, perché uno dei miei amici — un poeta — a cui avevo affidato un piccolo ruolo nel film, all’ultimo momento mi disse che non voleva più recitare. Così sono diventato io stesso attore. Non mi piace farlo.
M.R.- Tra i grandi registi del mondo, chi considera un maestro?
P.P.P.- Tra i più grandi registi del mondo, ce ne sono alcuni che riconosco come maestri. È una domanda che mi è stata posta più volte e alla quale ho sempre risposto con decisione. Se dovessi citarne due, direi Chaplin e Mizoguchi. Anche se, in un certo senso, mi sento più vicino a Mizoguchi. Non posso darti una motivazione precisa. Devo ammettere che fui profondamente colpito dai film di Mizoguchi già molti anni prima di cominciare a fare cinema: è un fatto esistenziale e culturale. Soprattutto perché, in quel periodo, desideravo realizzare un cinema conforme all’idea gramsciana di “cinema nazionale-populare”. E, paradossalmente, il cinema di Mizoguchi rappresentava per me il modello di un’arte di questo tipo.
M.R.- E in letteratura, Gadda ha contato per lei?
P.P.P. - Sul piano letterario, una figura come Carlo Emilio Gadda ha avuto per me un significato analogo: Gadda, nella letteratura, è ciò che Mizoguchi rappresenta per me nel cinema. Entrambi sono figure non paterne, ma fraterne, senza le quali non avrei potuto fare ciò che ho fatto. Per me, sul piano dell’espressione, letteratura e cinema sono la stessa cosa. Il problema è sempre esprimersi: e tutti i mezzi, in fondo, sono equivalenti.
M.R. – Tra le sue opere, quale le è più cara, quella che vorrebbe restasse di lei?
P.P.P.- Se mi chiedi quale sia, tra le mie opere letterarie o cinematografiche, quella per me più preziosa, non posso scegliere. La mia vita è una totalità, un intreccio di linguaggi e esperienze, e non potrei separarne una parte dalle altre.
L.B.- Era un uomo che non sapeva ridere, troppo serio, troppo professore. Io cercavo di farlo ridere, ma niente. Allora decisi di insegnargli a ridere. Mi costò molta fatica, ma alla fine ci riuscii. Aveva una gratitudine assoluta verso chi riusciva a farlo ridere.
M.R. - È diventato un uomo felice, Pasolini?
P.P.P.- No, non direi di esserlo. Per natura, però, sono sempre stato allegro. Ho sempre amato la gioia, la felicità in tutte le sue forme. Nonostante le difficoltà, la mia indole resta fondamentalmente serena. Ma la mia società mi ha perseguitato: i critici, i giudici, i fascisti. La mia vita è stata una serie di processi. Certo, ci sono stati momenti di ansia, dovuti ai continui attacchi dei critici e alle persecuzioni giudiziarie.
Tutti i miei film sono stati processati: Accattone, Mamma Roma, La Ricotta, Il Vangelo secondo Matteo, Teorema, I racconti di Canterbury… Sempre condannati in primo grado, a volte assolti in appello. Sono stato condannato per oltraggio alla religione di Stato, per oscenità, persino per “rapina a mano armata” — un’accusa assurda, secondo la quale avrei minacciato un benzinaio con una pistola caricata a proiettile d’oro per rubargli duemila lire!
M.R. - Eppure non ha mai pensato al suicidio?
P.P.P. - No, mai. Non ho mai avuto la tentazione del suicidio. La mia vita, per un decennio, è stata un susseguirsi di processi e persecuzioni. È terribile essere braccati in questo modo. Hanno persino creato una legge speciale per permettere di mantenere sotto sequestro i miei film anche dopo l’assoluzione. Eppure, nonostante tutto, continuo a sorridere, a vivere la mia solitudine e ad accettare la morte come parte naturale dell’esistenza.
M.R. – È un uomo solitario?
P.P.P. - Sono spesso stato definito “solo”, e lo riconosco: amo la solitudine, è la cosa che amo di più al mondo. Passeggiare da solo per la città è uno dei miei piaceri più profondi. Sono un uomo famoso, ma la fama non mi interessa. Mi si dice che ho un viso vigoroso, cesellato, e tuttavia fragile, quasi adolescenziale. È vero: ho una tenerezza amara, una timidezza che a volte si confonde con la difensiva, ma che nasce, credo, da un eccesso di sensibilità.
M.R. – Lei dà l’impressione di qualcuno che non è mai completamente presente, sempre in partenza.
P.P.P.- Quando mi si guarda, si può avere l’impressione che io sia sempre “sul punto di andarmene”, come se vivessi in punta di piedi. In un certo senso, è vero: ho sempre vissuto come se potessi partire da un momento all’altro. Ora sto scrivendo il mio ultimo romanzo. Non è propriamente un romanzo, ma piuttosto una summa di tutto ciò che so. È un’opera totale, e per questo mi preoccupa un po’.
M.R. - Mi preoccupa: Mishima mi disse la stessa cosa prima di suicidarsi.
P.P.P.- No, io non ho — e non ho mai avuto — la tentazione del suicidio. Sono lontanissimo da questa idea. Ma comprendo quella pulsione: perché, se si è molto affascinati dalla vita, è inevitabile voler comprendere anche la morte, che ne è il compimento. Da giovane, il pensiero della morte mi ossessionava: era una vera e propria forma di nevrosi tanatofobica. Ora non più. Ora considero la morte come qualcosa di necessario, perfino di consolante. La mia vita non avrebbe senso, se non potessi morire. Oggi mi sento più leggero. Il futuro si è accorciato, e questo mi ha liberato dal peso dell’attesa. Forse è proprio questo che mi ha reso più allegro, e che mi ha permesso di girare un film gioioso come Il Decameron».
L'intero filmato è disponibile qui
Pier Paolo Pasolini : vivre et encore plus, 1974. Trascrizione e traduzione dell'intervista, Silvia Martín Gutiérrez.



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