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Totò, a prescindere. Un testo che ci racconta il principe e l'attore, e il suo incontro con Pasolini



Pier Paolo Pasolini dirige Totò nel film "Uccellacci e uccellini" (1966) © Archivio Luce Cinecittà. Riproduzione riservata

NAPOLI - Seduta nella hall di uno degli alberghi più chic di via Caracciolo. Franca Faldini attende che giunga la sera per stare, ancora una volta, insieme con Totò. Alle 21 al Teatro San Carlo, danno in prima Supertotò, un film dei film dell'attore organizzato da Brando Giordani ed Emilio Ravel. Quando lei e il marchese de Curtis arrivavano a Napoli, erano costretti a barricarsi nella camera d'albergo, lo stesso che oggi ospita la signora e che a Totò, però, non andava a genio perché, egli diceva: "pare quasi il cimitero degli elefanti tanto si è intristito, se sono fortunato ci incontro Ibn Saud, con seguito e harem, che puzzano quasi quanto un basso del Pallonetto a Santa Lucia", non dandosi pace dei cambiamenti della sua città, dove "persino gli scugnizzi... sono diventati viziosi".


Tutti e due, allora, aspettavano la notte per fare un giro della città; di giorno. Totò non poteva fare un passo, lo riconoscevano, gli si facevano intorno e qualcuno lo invitava a bere un caffè al bar più vicino. Un abbraccio che Napoli non allentò quel giorno di aprile del 1967, quando Totò decise di andarsene per sempre e nella chiesa del Carmine ricevette un lungo, inatteso applauso.


Della morte. Totò aveva davvero una concezione immortale (che espresse, in parte, nei versi di 'A livella). Racconta la Faldini che quando si recavano al cimitero, lui si convinceva che quelli sotto terra continuavano la loro vita: "Qui c'è la nonna che bada al nipotino, là c'è la mamma che sta con i suoi figli...".


Nessun culto invece, come ricorda Franca Faldini, per la professione. In casa non avevamo nemmeno un riglio di giornale che parlasse di Totò, nessuna fotografia di qualche film. Tra Antonio de Curtis e Totò c'era soltanto un rapporto di lavoro particolare. Lui, infatti, sosteneva che Antonio de Curtis era il magnaccia di Toto, che Totò, insomma, faticava e si spremeva come un limone per mantenere l'altro, il marchese Antonio de Curtis. Non è che il "magnaccia" avesse molta fiducia dell'altro, e viceversa. Antonio pensava che quello che stava girando fosse l'ultimo film di Totò, che presto si sarebbero dimenticati di lui, che i critici di cinema "che non sanno fare il loro mestiere" gli avrebbero dato addosso ancora una volta: per questo, era meglio arraffare quello che gli veniva offerto, sebbene in molte occasioni rimanesse amareggiato, ed esclamasse: "O non valgo niente, oppure devo morire per essere preso in preso in considerazione. Intanto, al cinema andava di rado quasi mai a vedere i film di Totò, preferiva i gialli. Del resto, sui giornali leggeva con attenzione soprattutto la cronaca nera e si appassionava a dare una spiegazione tutta sua dei fatti delittuosi, più volte tentando di mettersi in contatto con qualche amico della squadra mobile per saperne di più e, magari, tentando di dare egli stesso la soluzione.


Tuttavia, in Francia gli capitò di vedere Totò sceicco. Quando sentì quello che era diventata in lingua francese la battuta: "Vide 'o mare quant'è bello" sulle note della celebre canzone napoletana (battuta che Totò pronuncia va in risposta all'invocazione del suo nome. "Omar, Omar", da parte di tuia donna), si tappò le orecchie e scappò via. Convinto che la sua maschera (secondo quanto lui stesso andava dicendo. Totò era nato in un collegio napoletano. perchè un cazzotto di un precettore gli aveva semìparalizzato la mascella) potesse esprimere molto di più di qualsiasi battuta, aveva chiesto più volte a produttori e registi di fargli girare un film muto. "Tu sei pazzo", gli risposero, per ovvii motivi di cassetta.


Totò dunque rimaneva a lavorare sul set, sempre. Dentro casa, Antonio de Curtis era un'altra cosa: abbastanza pigro e abitudinario, amante della buona musica, geloso e all'antica in fatto di donne (che avessero però carattere), «qualunquista di sinistra», come egli stesso si definiva, affermando l'assoluta apoliticità dell'attore che non può far dispiacere una parte del pubblico, abbastanza schivo nel frequentare personaggi del l'ambiente cinematografico.


I soli argomenti che lo stimolassero a parlare di lavoro erano il teatro e l'avanspettacolo. Cioè, di quegli anni che, prima del successo, furono per lui di fame nera, la stessa che aveva provato al rione Sanità, a Napoli, dove era nato, figlio di Anna Clemente, nubile.


Raccontava spesso, ad esempio, ricordando la tristezza che c'era dietro il sipario, un episodio accadutogli a Montecatini, dove dovette capitare per qualche scalcagnata tournée. "Nella sala del teatrino non c'era mai nessuno a vedere lo spettacolo. Allora mi misi d'accordo con il proprietario della locanda dove la compagnia era alloggiata. Lui veniva allo spettacolo e, quando si era portato dietro un po' di gente, quel brav'uomo cominciava a fare la tosse e a sbattere i piedi, tanto per farci capire che finalmente un po' di pubblico era arrivato".


"Chissà se ce la farò". disse quando Pier Paolo Pasolini gli offri di fare Uccellacci e uccellini. La malattia agli occhi lo aveva reso ormai (era il 1966) quasi cieco Tuttavia, la sua preoccupazione maggiore non era quell'infermità, ma piuttosto la soggezione che gli metteva il regista, di cui era rimasto quasi affascinato soprattutto per il suo modo aperto e diretto di accostare la gente. Dicono che Pasolini provasse la stessa sensazione di rispetto, certo è che Totò cominciò a lavorare con lui come un attore ai primi passi, rammaricandosi poi di quell'incontro troppo tardivo. Totò aveva aspettato che Luchino Visconti gli facesse un cenno per una Storia di Antonio Petito che pare il regista volesse realizzare. Aveva sperato che Federico Fellini si ricordasse di lui. Ma lui e Fellini si sono visti soltanto di sfuggita, in occasione di un drink in casa di amici, dice ancora Franca Faldini. Ed Eduardo? Totò lo stimava ed ammirava tanto ma ave va saputo che al "granae vecchio", pur affezionato su Antonio de Curtis, non era granché piaciuta la sua interpretazione di Napoli milionaria, nella versione cinematografica (1949) dello stesso De Filippo.


Con Pasolini, invece, Toto smentiva quanti, critici e registi, hanno sostenuto (ed è chiaro che il riferimento della Faldini è a Fellini) che era praticamente impossibile dirigere Totò, l'attore.


La profezia di Totò si è avverata ("Devo morire per essere apprezzato"), ma Franca Faldini giudica che gli atti di contrizione postumi hanno molto spesso il valore speculativo. Ben vengano, comunque, visto che nuove generazioni hanno conosciuto, capito e applaudito Totò. Forse per la carica dissacratoria e plebea di quella faccia da aristocratico che si portava dietro dal rione Sanità.


Gianni Cerasuolo. "Totò, a prescindere". "Franca Faldini, che fu la sua compagna, parla di un personaggio straordinario. L'incontro di Ninetto Davoli e di Pier Paolo Pasolini con il marchese de Curtis" in "L'Unità", domenica 23 marzo 1980, p.11.

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