Un cinéma de poésie, intervista a Pier Paolo Pasolini, «Le Monde», Parigi, 12-13 ottobre 1969.
- Città Pasolini

- 17 minuti fa
- Tempo di lettura: 4 min

Pier Paolo Pasolini a Parigi nella conferenza stampa dopo la proiezione del suo film "Teorema", 3 febbraio 1969 © Chomarat MS/Bibliothèque municipale de Lyon/Tutti i diritti riservati
«Nel 1965», racconta Pier Paolo Pasolini, «ebbi la prima malattia della mia vita e, durante la convalescenza, cominciai a pensare a diversi argomenti: Porcile, Teorema e le tragedie in versi che poi ho scritto e raccolto in un libro (ce ne sono sei).
Più precisamente, possiamo dire che queste opere si collocano in un periodo che va dal 1965 al 1968: le ho concepite prima del movimento studentesco, in un momento di disperazione esistenziale, in un periodo di crisi del marxismo e, dopo la morte di Giovanni XXIII, di regressione della Chiesa in Italia. Porcile, è vero, è un film pessimista, ma è nato in questo clima che mi ha toccato tanto più profondamente perché ero io stesso “biograficamente” infelice.»
— Perché hai scelto la Germania Ovest per uno dei tuoi racconti?
«Perché simboleggia il rapporto tra vecchio e nuovo capitalismo, rappresentando un caso estremo, e io voglio sempre concentrarmi su casi estremi. Ciò che mostro potrebbe svolgersi altrettanto bene a Milano, Torino o Parigi, ma nella Germania Ovest è più drammatico, a causa dei campi di concentramento e del nazismo sullo sfondo.
Infine, attraverso l’associazione dei due industriali tedeschi, mi sembra importante chiarire che, nonostante il suo aspetto più civile e umanista, il neocapitalismo non è “migliore” del vecchio. Il mio film è una condanna – a volte esplicita, a volte implicita – della società capitalista.»
— Ti riferivi a Brecht?
«Per tutte le parti parlate – la storia in tedesco – mi sono volutamente ispirato a Brecht. I personaggi sono “distanziati” da se stessi e spero che in Porcile si possa ritrovare una certa ironia brechtiana.»
— Perché questo simbolo del maiale?
«Ecco alcuni esempi concreti: ho letto un libro di psicoanalisi che parlava dell’amore di un giovane per i maiali; sono rimasto colpito da un fatto di cronaca riguardante un siciliano che, dopo aver ucciso il figlio, ne ha dato il corpo ai maiali, che lo hanno divorato completamente; per i manifestanti americani, gli agenti di polizia sono “maiali”; e per Grosz, il vignettista satirico contemporaneo di Brecht, i ricchi erano rappresentati come maiali.»
— Tra le altre cose, in questo film ricorre il tema del deserto...
«Il deserto è la forma visiva dell’assoluto, il tempo fuori dalla storia. Diciamo che l’“astoricità” della narrazione nel deserto si riflette, spiegata, nella storicità della favola tedesca. E viceversa.»
Irrazionalità, mistero
— Come vedi i due personaggi interpretati da Pierre Clémenti e Jean-Pierre Léaud?
«Anch’essi sono casi estremi, quasi simbolici, e devono esprimersi nel modo più radicale. Clémenti è una specie di santo al contrario. Le sue ultime parole – “Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia” – sono come quelle di un martire. Sapendo che morirà, proclama la sua fede, glorifica il peccato attraverso il quale è stato in grado di ribellarsi alla società (essa stessa cannibalesca).
Perché, in una forma primitiva, ancestrale, mitica, il cannibalismo è la presa di possesso, la distruzione totale di ciò contro cui si combatte. La grazia, per Clémenti, è lo spirito di rivolta: una rivolta totale, crudele e sgradevole.
Léaud, tuttavia, è diverso. Vive in modo misterioso e irrazionale; si potrebbe persino dire che fa della sua vita una poesia, ed è per questo che la società — completamente dominata dalla ragione — lo divora. Infatti, non avendo altra fede che la “ragione pratica”, il mondo borghese non tollera i poeti e cerca di assimilarli quando non li imprigiona. Per Léaud, la grazia è irrazionalità, mistero.»
— E che dire della ragazza interpretata da Anne Wiazemsky?
«Lei è diversa dalle altre; è la sola autentica, normale. La normalità di Anne Wiazemsky costituisce lo sfondo su cui si staglia l’“anormalità” di Jean-Pierre Léaud, rendendo la sua tragedia non solo simbolica ma profondamente umana. In breve, lei è ciò che Léaud dovrebbe essere.»
— Che significato attribuisci all’intervento finale dei contadini?
«Questi contadini sono, per usare un termine antiquato, i personaggi positivi del film. Sono simpatici, innocenti, ma hanno una coscienza di classe (certamente “distaccata”). Intuitivamente, sono portati a pronunciare l’elogio funebre di Léaud, a esprimere la loro solidarietà con qualcuno escluso, come loro, dalla società capitalista.
E, proprio come in Teorema, i contadini possono comprendere ciò che la borghesia non riesce a riconoscere: il mistero che sfugge loro, il sacro che per loro è puramente verbale.»
— Non è ancora questo il problema della grazia?
«Non riesco a concepire nulla al di fuori di questo sentimento del mistero. Non trovo mai naturale la natura, e per me personaggi, oggetti, paesaggi sono sempre innaturali, cioè segreti.
Per la prima volta, con Porcile, ho anche sacralizzato il linguaggio: le parole sono parole poetiche, cioè mescolate all’irrazionale. Questo film è, tra tutti, quello che più tende a un cinema di poesia; è il fratello gemello di Uccellacci e uccellini. È affine a Teorema per lo stile, per quel modo forse un po’ freddo, un po’ angosciato di rappresentare i personaggi e, in un certo senso, di incastrarli come farfalle in una scatola.»
(1) Pasolini scrisse di quest’opera: “Non ho mai ‘pubblicato’ un film così vulnerabile, così delicato e così riservato... Credo di poter dire che il mio film è puro.” (Cfr. Cahiers du cinéma, n. 179.)
Un cinéma de poésie, intervista a Pier Paolo Pasolini, di Y. Baby, «Le Monde», Parigi, 12-13 ottobre 1969, p.23. Traduzione all'italiano, Silvia Martín Gutiérrez.



Commenti