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  • Immagine del redattoreCittà Pasolini

A Grado, la premier italiana della "Medea" pasoliniana

Aggiornamento: 11 ago 2022


24.01.1970 Grado, Cinema Cristallo.



Maria Callas in un fotogramma del film "Medea" (1970) San Marco S.p.A

A Pasolini importa poco di stabilire come e quanto si bilanciassero in Medea la maga e la donna (che fu la trovata di Euripide, passata poi ai latini Ovidio e Seneca e quindi ai parafrasatori moderni); simile in ciò ai primi e più inconditi mitografi, egli rimuove d'intorno alla mitica figura non solo la nostra, ma qualunque modulata psicologia, e fa sì che essa sorga su intera, nel suo religioso furore, a contrastare la società laica, progressistica e perciò stesso ordinata a opprimere, rappresentata dai greci che conquistarono il Vello d'oro (in chiave vichiana; un episodio di espansionismo agricolo con usurpazione di terre altrui).

Diciamo pure che la chiave ideologica del film Medea, a dir vero un po' sotterrata, l'allegoria del "Terzo Mondo" in lotta con la civiltà bianca, non importano invece precisare, tanto è cosa ovvia, a quale dei due lottatori vada la simpatia del regista ipercolto, nutrito, da buon decadentista, di spirito di contraddizione, oltreché, in questo caso, psicanaliticamente attratto da quel cospicuo blocco d'Inconscio che la sua Medea si chiude in petto.

Pasolini durante le riprese di "Medea" (1969) © Mario Tursi

È noto che Pasolini tratta il cinema in maniera strettamente personale, e che questa che dovrebb'essere la regola di ogni regista, prende da lui il risalto di un'eccezione. Medea non si cura di raccontare, esprimere e tanto meno reinventare una materia rifatta fresca nell'atto creativo, ma sebbene d'interpretare, allegorizzare e spiegare una materia atemporale, fossilizzata dalla cultura, e anche un po' crudelmente, un film-saggio, un'operazione tra dotta e lirica, che gira sui cardini di una grandiosa spettacolarità.

Lo spettatore, dal tipo medio in giù, non deve spaventarsi: perché, per poco che le memorie di scuola lo assistano (ecco i vantaggi del nozionismo!), la traccia del mito antico, sebbene sconnessa ad arte dall'autore, è ancora tale da interessarlo. Si pensi: per meritare il trono di Iolco ricaduto a uno zio usurpatore, Giasone, forte dell'insegnamento del centauro Chirone (presente nel film, con ufficio di coro), naviga, là verso la Colchide, in compagnia di cinquanta eroi e del melico Orfeo, alla conquista del leggendario Vello, che fa suo grazie all'aiuto di Medea, figlia del re e maga. Ancora lei protegge la fuga dei rapitori, smembrando il fratello Absirto, su cui pezzi gl'inseguitori si sviano.


Terminata l'impresa, salito Giasone sul trono paterno sempre con l'aiuto di Medea che ha sposato e da cui ha avuto due figli, dopo dieci anni si stufa di lei, la ripudia e per ambizione politica sposa Glauce figlia del re di Corinto. Allora la maga un po' svaporata durante il matrimonio, si ricorda di sé stessa e sferra sortilegi atroci per tuutti, ma specialmente per Giasone, che, serbato a perenne rimorso, piange i figli divorati dalle fiamme matricide. Nessuna specie di femminismo, per quanto outrée, può stare nel disegno di questo personaggio "violento", "prepasoliniano", se si può dire.


Se non è sempre facile capire le idee di Pasolini (Porcile insegna), è però sempre possibile, anzi doveroso, apprezzare quel che cinematograficamente se ne sprigiona in invenzioni figurative e trovate plastiche; molte delle quali bastano a sé stesse, come certi versi in certi poeti. Scabro nella tecnica, qua e là sommario e talvolta persone un po' primarie, ma liricamente risolutivo sempre, il film è ricco d'una sognante bellezza, che appunto perché sognante s'intorbida nei riposi (le lezioni di Chirone, a descrizione dei costumi selvaggi dei Colchi) e viceversa si decanta nei tratti cruenti (la strage operata da Medea, immersa in un'aura musicale).


È lecito affermare che la veste del film è splendida, ma a patto che s'intenda "Veste", non nel senso esornativo, ma d'una sostanza viva, riempita di pensiero. E intendiamo: i costumi di Piero Tosi; gl'incantevoli paessagi suscitati dalla laguna di Grado, dai villaggi della Cappadocia, dalla Piazza dei Miracoli di Pisa; la squisita fotografia a colori; le musiche, cura particolare di Pasolini che le ha attinte dalle fonti più peregrine; l'ispirata scenografia. A paro con queste eccellenze stilistiche è l'interpretazione di Maria Callas, che, nuova al cinema, sembra esservi cresciuta; a tal punto il suo magistero di tragediante lirica e l'amore della scena succhiato col latte nella terra che della scena fu culla, hanno trovato in questa sua mirabile Medea, così nodosa ed ellittica e tuttavia spianata, solenne, simile ad una divinità tellurica, un esito artisticamente felice. Le fanno degna corona Laurent Terzieff, Massimo Girotti e l'esordiente Giuseppe Gentile.


Medea di Pasolini. Che macello quando la Callas va in bestia. Sabato 24.01.1970 Cristallo. A.Val
Giunge sullo schermo il film interpretato da Maria Callas. Pasolini ha riscoperto Medea. Sabato 24.01.1970 Cristallo. Leo Pestelli
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