Attilio Bertolucci con Pier Paolo Pasolini © Carlo Bavagnoli/Fondazione Cariparma/Tutti i diritti riservati
Era il 1951. L'appartamento, un ultimo piano senza ascensore nella centralissima via del Tritone, apparteneva a Roberto Longhi, il grande critico d'arte allora in attesa d'una cattedra all'università di Roma poi negatagli. Inquilini, Attilio Bertolucci, Antonio Marchi (autore di documentari e regista cinematografico) e il giovane Luigi malerba ancora lontano dall'esordio letterario. Un pomeriggio, all'ora del caffè, suonano alla porta Giorgio Bassani e un giovanotto vestito della sua timidezza di sconosciuto. Quel giovane notto è Pasolini, ha in tasca una tessera da comparsa di Cinecittà e vuol conoscere l'autore della "Capanna indiana". "Di lì, da quel giorno lontano, naque un'amicizia durata fino alla fine della vita di Pier Paolo" racconta Bertolucci.
Si fanno strada innumerevoli ricordi di vita letteraria e di familiare amicizia, che il pudore d'un vero affetto e il riserbo della poesia rendono restia alle dichiarazioni troppo esplicite e disinvolte.
- Pasolini, in più occasioni, si è dichiarato debitore nei confronti della sua poesia. In "Descrizioni di descrizioni" la cita, evocando le sue letture essenziali, accanto a Rimbaud, Machado e Mandelshtam. Una volta PPP ha scritto stupendamente dei "vertici d'un Bertolucci, che non aveva fatto della tecnica e della lingua un problema: l'unico suo interesse restando l'oggettività dell'esistere, di cui egli è riuscito a esprimere - con una straziante leggerezza - l'inesprimibilità". E lei, Bertolucci, vede in Pasolini un discepolo?
- Non lo considero un mio discepolo ma un poeta molto vicino a me, al mio non essere stato un poeta ermetico nel momento che sembrava impossibile non esserlo. Me ne sono accorto molto presto quando, nel 1942, da un libraio antiquario di Parma, sottolineo antiquario, m'è venuto tra le mani un libretto bianco: "Poesie a Casarsa". Ho sentito subito che scrivere in dialetto era un modo di mettersi in contrasto con il movimento poetico dominante in quegli anni.
- Ho riassunto, all'inizio di questa intervista, il suo primo incontro con Pasolini, avvenuto grazie a Bassani. Qual 'è, all'opposto, l'ultimo ricordo? c'era, nell'autore geniale e disperato degli "Scritti corsari", il desiderio di morte evidenziato da qualcuno?
- Posso ricordare con tristezza che, 15 o 20 giorni prima della morte di Pasolini, abbiamo passato nella sua casa di Chia una giornata molto serena, che pare contraddire all'ipotesi che in lui ci fosse una sorta di "apetencia de muerte" per dirla con García Lorca. Lui, così indifferente alla tavola e ai cibi, volle farci gustare certi vini che gli erano stati inviati dal Friuli. Nel pomeriggio di quella lunga giornata si assentò un paio di ore per "presenziare" - la parola fu sua tra ironica e affettuosa - alla sistemazione di alcuni alberi atti a migliorare l'aspetto di un habitat moderno di second'ordine. Mi piace ricordare queste cose anche perché mi confermano la vocazione pedagogica di Pasolini.
- La sua con Pasolini è stata un'amicizia fondata sul comune lavoro letterario. Si è detto già di "Descrizioni di descrizioni". Che cosa sente di dovere in particolare all'intelligenza pasoliniana?
- In "Passione e ideologia" rovescia addirittura quello che era il luogo comune che correva intorno alla mia poesia qualificata come idillica. Scopre e evidenzia con acume straordinario un fondo di nevrosi, di ossessione, insomma una profondità, uno spessore, che con le mie opere successive vennero alla luce per tutti.
- Pasolini le ha anche dedicato dei versi...
- In uno dei suoi poemetti più belli, intitolato "La Guinea", dove ha raccontato una sua visita a me, nella mia casa di montagna, esce in queste parole, che offro alla decodificazione dei lettori: "la tua speranza è nel non avere speranza".
- A lei, Bertolucci, Pasolini cosa chiedeva?
- Chiedeva la conferma della sua poesia che come era stata distante dall'ormai tramontato ermetismo lo era ora dalla cosiddetta neovanguardia. La mia poesia, che a lui sembrava realizzata, era come la sua lontana dalle mode. E questo lo confortava.
- Lei ha anche aiutato praticamente Pasolini, a trovarsi uno spazio nella società letteraria.
- Certo. È noto che io dal 1954, essendo diventato consulente editoriale di Livio Garzanti, diedi l'opportunità a Pasolini di vivere del suo lavoro di scrittore. Era uscito su "Paragone", la rivista di Longhi e di Anna Banti, il racconto di Pier Paolo intitolato "Ferrobedò". non mi parve vero di poter felicemente assolvere al mio incarico di consulente obbligando Livio garzanti, a Roma per un giorno, a leggersi quelle pagine pasoliniane all'ora di pranzo. Subito, nell'immediato pomeriggio, con una telefonata, garzanti mi convoca al suo albergo, pregandomi di rintracciare il giovane scrittore e di portarglielo per un incontro che fu risolutivo per Pasolini. In quei mesi PPP insegnava a Centocelle con un misero stipendio e delle levatacce terribili. Alla fine dell'incontro con Garzanti, venne pregato di piantare la scuola e di scrivere un romanzo da consegnare entro l'anno. Lo stipendio era il doppio di quello della scuola e la vita di Pasolini cambiava completamente.
- E il cinema? Pasolini gliene parlava?
- Ricordo che gli consigliai per la colonna sonora di "Accattone" musiche di Bach. La cosa, al tempo inusitata, riuscì benissimo: purtroppo ho perduto i due album di dischi che mandai a Pasolini tramite mio figlio Bernardo, aiuto regista del film. Viceversa, molti anni dopo, Pasolini mi ordinò, dico ordinò di non andare a vedere "Salò".
- La "Piccola ode a Roma", una delle sue poesie più belle, lei l'ha dedicata a Pasolini. e la dedica non è solo un nome, scritto all'inizio del componimento, ma in un'aria che si sente in ogni verso, qualcosa che spiega bene perché Pasolini vedesse in lei un maestro, il suo maestro di poesia. Ha scritto altri versi, dopo quelli ricordati, per Pasolini?
- Sì, ne ho scritti altri:
Non so se le genziane viola sino al blu di Persefone fioriscano a Casarsa.
Ma certo di primo autunno sui monti
che ferisce a ventila il Tagliamento bambino.
Non un brindisi un mazzo
di genziane misto a felci
vogliono le tue ossa
non le tue ceneri, Pier Paolo.
Attilio Bertolucci intervistato da Antonio Debenedetti "Caro Pier Paolo Pasolini, non so se le genziane" in "Il Corriere della sera", domenica 12 gennaio 1992, p.3
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