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Dacia Maraini racconta "Il fiore delle Mille e una notte" di Pier Paolo Pasolini (1974)

Aggiornamento: 13 feb 2023


Pier Paolo Pasolini durante le riprese del film "Il fiore delle Mille e una notte" (1974) © Angelo Pennoni/Riproduzione riservata

Fui coinvolta da Pier Paolo nella sceneggiatura di Il fiore delle Mille e una notte perché aveva appena letto e apprezzato il mio libro Memorie di una ladra. Forse quel romanzo picaresco lo indusse a pensare che ero la persona adatta a scrivere un adattamento del film tratto dalle novelle orientali. Ci trasferimmo nella casa di Sabaudia e iniziammo a leggere insieme i racconti, a scambiarci idee e pareri. Concludemmo la sceneggiatura in soli 15 giorni, lavorando in media 16-17 ore al giorno, senza neppure la pausa per un bagno in mare. Pier Paolo era molto rigoroso, capace di lavorare senza interruzione dalle 6 di mattina a mezzanotte.

A me aveva assegnato le parti femminili, in particolare i dialoghi della schiava Zumurrud. La mattina ognuno scriveva per conto suo, e il pomeriggio lavoravamo insieme. A lui regista toccava dire l’ultima parola, ma lo fece senza mai essere impositivo, anche perché era una persona squisita, che non alzava mai la voce.

Ne Il fiore delle Mille e una notte ci sono molti più personaggi femminili di quanti ne compaiono in tutti gli altri suoi film. Personaggi corposi, gioiosi, che contano di più e sono più caratterizzati del solito, forse anche per la grazia picaresca della storia. La schiava Zumurrud è il filo conduttore a cui tornano tutte le storie: una donna ricca di personalità, furba e intelligente, che riesce a farsi scegliere dal suo futuro padrone, anzi è lei a effettuare la scelta. Qui le donne non sono presenze sullo sfondo, ma protagoniste della storia. Questa forte componente femminile si deve forse anche al mio intervento nella sceneggiatura.

Il fiore delle Mille e una notte è l’ultimo film della Trilogia della vita, ed è anche l’ultimo film di Pier Paolo in cui ci sono allegria, voglia di vivere e uno sguardo gioioso di aspettativa. Con il successivo Salò o le 120 giornate di Sodoma, sono intervenute la cupezza, la morte, l’orrore e la perdita di fiducia nel mondo e negli uomini. Vidi Salò insieme a lui, poco prima che morisse. Ricordo che fu molto difficile dirgli cosa ne pensavo, perché era un amico e non volevo offenderlo. Il film era bello ma disperante, sgradevole da vedere, difficile da digerire e sostenere fino in fondo.

L’incontro con il mondo arcaico africano

All’epoca de Il fiore delle mille e una notte io e Pier Paolo ci frequentavamo da almeno 10 anni, cioè dal 1963, quando ci conoscemmo grazie a Moravia, suo grande amico. Insieme avevamo comprato una casa a Sabaudia, dove passavamo molto tempo, quasi fosse una convivenza. E noi tre insieme facemmo molti viaggi in Africa, una terra che ci affascinava. Per Pier Paolo rappresentava l’incontro con un mondo arcaico, ingenuo e incontaminato, completamente diverso dall’Africa di oggi, devastata da guerre e malattie. Era una società pacifica e misteriosa, un continente straordinario e remoto, ancora intimamente legato alla natura, “lontano millenni”. Pier Paolo, che era attratto dal sottoproletariato, vi trovava un mondo contadino arcaico e fresco. Nel corso di questi viaggi girò Appunti per un’Orestiade africana e testimone di quell’avventura scattai numerose fotografie.


I viaggi in Africa rientravano anche in un approccio intellettuale, grazie al quale Pier Paolo arricchiva di riferimenti colti tutti i suoi lavori, in particolare quelli cinematografici. Era preparatissimo in tutti i settori: pittura, letteratura, musica. Da una parte attingeva, senza filtri, a una realtà quasi documentaria. Non a caso prediligeva attori non professionisti e set autentici, reali, evitando per quanto possibile di ricostruire in studio. Dall’altra si serviva di filtri colti, con citazioni da molte fonti importanti. Ad esempio La ricotta aveva riferimenti precisi alla pittura cinquecentesca del Pontormo. Pier Paolo ricostruì le croci basandosi sui suoi quadri, e altrettanto fece con i costumi e altre scene.

L’unico modo di essere suoi amici

Pier Paolo aveva con me e con Alberto Moravia un rapporto di grande intesa e confidenza. Tra noi non era necessario parlare, ci capivamo anche con il silenzio, era come stare in famiglia. E questo era il modo giusto, o forse l’unico, di essere amici di Pasolini, perché era una persona quasi morbosamente timida. Un uomo delicato ma chiuso, severo, con cui era difficile instaurare un rapporto, perché non era un conversatore. Aveva però intensi rapporti di amicizia con persone caratterialmente all’opposto: cordiali, amiconi facili alla comunicazione, come Ninetto Davoli. Pier Paolo era attratto proprio dalla loro espansività, che lo compensava del suo continuo silenzio impacciato. Nonostante ciò era gentilissimo, né urlava, né maltrattava nessuno sul set, anche perché non ne aveva bisogno. Sapeva farsi rispettare grazie alla ferrea volontà e all’autorevolezza.

Questo suo carattere lo spingeva ad avere rapporti molto diversi con le persone che lavoravano con lui. Una profonda amicizia e confidenza lo legavano a me, Moravia e Ninetto Davoli, mentre aveva un rapporto professionale, distaccato e pudico, con artisti come Dante Ferretti o Ennio Morricone, nonostante lavorasse con loro da anni.

"Non si può immaginare fino a che punto fosse dolce Pier Paolo e quanta la sua capacità di complicità, i suoi silenzi, perché era un uomo estremamente silenzioso, che parlava molto poco, poteva stare delle ore senza dire una parola, però la sua presenza era sempre lì, non mancava mai agli amici, la sua compagnia durante i viaggi (noi abbiamo fatto moltissimi viaggi insieme, in Africa, per esempio), avevamo molte cose che ci accomunavano: per esempio, la curiosità sociale, l'interesse e il desiderio di conoscere meglio e di frequentare il mondo di chi è impedito o comunque di chi è privo degli strumenti della cultura e di chi addirittura è menomato da questo punto di vista…"

Questo un appunto di Dacia Maraini su Pasolini, con il quale collaborò, a partire dal 1972, alla sceneggiatura del Fiore delle Mille e una notte.

Con Il fiore delle Mille e una notte Pasolini firma il capitolo più affascinante della Trilogia della vita. "Poi ho fatto questo gruppo che io chiamo 'trilogia della vita', cioè i film sulla fisicità umana e sul sesso. Questi film sono abbastanza facili, e io li ho fatti per opporre al presente consumistico un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici, benché preistorici, benché rozzi, però tuttavia erano reali, e opponevano questa realtà all'irrealtà della civiltà consumistica. Ma anche questi film sono stati in un certo senso superati, resi vecchi dalla tolleranza della civiltà dei consumi”.

Mentre si accinge a realizzare la parte più fortunata della sua carriera cinematografica, [Pasolini] sente di aver raggiunto la maturità esistenziale e con essa la conquista della leggerezza e dell'umorismo: diventando vecchi – dice – il futuro si accorcia, pesa di meno. “Finalmente vivendo come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, cioè non occupandomi più del domani mi godo un po' di libertà e di vita (quest'ultima l'ho tutta molto goduta specie nel campo erotico ma dissociandomi) […] Godere la vita (nel corpo) significa appunto godere una vita che storicamente non c'è più: e il viverla è dunque reazionario. Io pronuncio da tanto tempo posizioni reazionarie. E sto pensando a un saggio intitolato Come recuperare alla rivoluzione alcune affermazioni reazionarie?”

Il fiore delle Mille e una notte è una sorta di affresco di un mondo, passato e presente – quel Terzo Mondo dal il quale il regista, da qualche anno, si sentiva particolarmente affascinato e attratto – attraversato da un grande senso di serenità e di sensualità mai presente prima, in questo modo, nei film di Pasolini. Egli mette in scena, dunque, il suo sogno, la sua idealizzazione e mitizzazione del Terzo Mondo. In tal modo, il sesso viene liberato dagli aspetti legati al reciproco possesso, alla prevaricazione, al predominio. Vi è pienamente realizzata una libertà sessuale che è anche simbolo di purezza dei sentimenti, che fa sì che il sesso non appaia mai né morboso né osceno, ma rappresenti invece un dono reciproco, innocente e delicato, soprattutto libero da inibizioni e sovrastrutture culturali.

Pasolini esprime, con Il fiore delle Mille e una notte, un cinema di “pura poesia delle immagini”, riuscendo a trovare un sereno equilibrio tra alcune componenti essenziali già presenti nei suoi film precedenti, particolarmente in Edipo re e in Medea: il richiamo prepotente alla sessualità e la grandiosa maestosità dei paesaggi, ricchi di valenze pittoriche e di un acuto, sensibilissimo senso artistico.

Il regista fa doppiare i suoi personaggi con marcati dialetti del Sud Italia che si adattano alla perfezione ai volti straordinari delle persone del luogo che Pasolini sceglie, come sempre, “dalla strada”. Ancora una volta, Ennio Morricone è il curatore delle musiche nel film.

L'Etiopia, la Persia, lo Yemen, l'India, il Nepal forniscono gli incredibili scenari, di antica bellezza, al film e concorrono a descrivere un mondo di sogni e di emozioni che è anche la rappresentazione dolce e fascinosa di ciò che per Pasolini è il Terzo Mondo.


Dacia Maraini "In due settimane scrivemmo Il fiore delle mille e una notte" in "Cinecittà News Paper" n. 4, 2005

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