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Immagine del redattoreCittà Pasolini

E Franco Citti racconta Pasolini... Un'intervista rilasciata da Citti a Stefano Milioni


Pier Paolo Pasolini con Franco Citti durante le riprese del film Accattone (1961) © Dufoto-Scala/ Riproduzione riservata


Mentre Franco Citti racconta Pier Paolo Pasolini, si compone il ritratto di un Pasolini inconsueto: non l’intellettuale, ma l’amico.

“Guarda, l’abbiamo detto un miliardo di volte io e mio fratello. È assolutamente escluso che sia stato Pelosi. Lì c’è un chilometro quadrato di strage. È stato massacrato, e una sola persona non riesce a fare quelle cose. Ci sono troppe cose oscure, dietro. Anche politiche, naturalmente”. La voce di Franco Citti, indimenticabile volto del cinema di Pasolini, è aspra e tagliente. Come i suoi pensieri, del resto."

Così Pasolini a proposito di Franco Citti: “Lui e Accattone sono la stessa persona. Accattone naturalmente è portato ad un altro livello, al livello estetico di un ‘grave estetismo di morte’ come dice il mio amico Pietro Citati ma in realtà Franco Citti e Accattone si assomigliano come due gocce d’acqua” (P.P. Pasolini in “Diario al registratore”, a cura di Carlo di Carlo, 1962)

“Sono andato via da Roma innanzitutto perché cominciavano a sparire le borgate e con loro i miei amici. E quando non hai più le borgate ti rifugi al mare. È per questo che sono venuto a vivere a Fiumicino. C’è un senso di morte, qui intorno, che mi piace. Forse io sono già morto, qui, in questa solitudine che amo e che mi mette allegria. Anzi, io sono vivo perché sto a Fiumicino. Forse se stavo a Roma ero già morto”.

Come hai conosciuto Pasolini?

“Tramite mio fratello Sergio, in una pizzeria a Torpignattara. Lui mi ha detto: ‘A Frà, te presento ‘no scrittore, ‘n amico mio’”.

Lui era già conosciuto, allora?

“No. In quel periodo scriveva delle poesie in friulano, quelle cose dei primi tempi”.

Quindi tu non sapevi proprio chi era?

“No. All’inizio ho creduto addirittura che fosse analfabeta. Faceva il maestro elementare a Ponte Mammolo. Mio fratello m’ha detto: ‘È ‘no scrittore, magnamose ‘na pizza insieme’. Io ero tutto sporco di calce perché lavoravo come muratore con mio padre. Ci siamo conosciuti lì e abbiamo cominciato a frequentarci”.

E che impressione ti ha fatto all’inizio Pasolini?

“Quella di una persona normale. Non ci pensavo molto al fatto che lui scrivesse. Se scriveva a me che me ne fregava? A volte succedeva che gli davo qualche battuta in romanesco e lui se l’appuntava”.

Pasolini metteva nei suoi libri i racconti che gli facevate tu e Sergio?

“A Paolo piaceva soprattutto lo spirito, il ‘modo’ delle borgate romane, questa gente allegra, tanto è vero che lui ci passava quasi tutto il tempo della sua vita con noi, nelle borgate. E così, essendo uno scrittore guardava ciò che gli accadeva intorno, e daje e daje, tirava fuori ‘sti libri. Ma quello che più mi ha interessato è quando mi ha detto che mi avrebbe fatto fare una parte nel suo film”.

E tu come hai reagito?

“Sai, io sono un pessimista nato, non è che ci credo molto alle cose che mi offrono. Così gli ho detto: ‘Vabbé, a Paolo, quando lo faremo lo faremo’. Lui mi ripeteva: ‘hai una bella particina. Vedrai che lo faremo’. E così un giorno è nato ‘sto cavolo di ‘Accattone’”.

Mentre lo giravi ti sentivi nella parte o era qualcosa che non ti apparteneva?

“Mi sentivo a mio agio perché l’ho girato con tutti i miei amici della borgata. Giocavamo un po’ in casa. E poi quelle avventure, quelle storie, mi piaceva farle. Per il film ho anche dovuto leggere ‘Ragazzi di vita’. Che poi, che vuol dire ragazzo di vita non l’ho mai capito”.

Giravate a Torpignattara?

“Torpignattara, il Pigneto, Testaccio, Pietralata, il Quadraro. Andavamo in tutta la periferia di Roma. Il film è andato avanti un po’ in questo modo. Lui ci ha diretto, però noi eravamo liberi di fare quello che eravamo”.

Avevate quindi la possibilità di inserire cose proprio vostre, personali…

“Sai, i dialoghi erano già un po’ scritti e Pier Paolo li scriveva con mio fratello Sergio, però qualche battuta che in doppiaggio sembrava migliore l’abbiamo messa. ‘Accattone’, però, è rimasto così come l’abbiamo girato, e infatti è un bel film proprio perché è spontaneo, non c’era nessun attore professionista e l’abbiamo fatto di corsa. Con qualche impiccio di mezzo. ‘Sti personaggi che facevano gli attori insieme a me, io compreso, qualche mattina non venivano proprio, chi andava a sfacchinà, chi andava a fa’ altre cose, allora era un po’ complicato”.

Si trattava di problemi pratici e non finanziari.

“Finanziariamente non c’erano problemi. Credo che il film costasse piuttosto poco. Io, ad esempio, prendevo ottomila lire al giorno. Ho lavorato otto settimane, più il doppiaggio, diciamo che avrò lavorato circa un anno e ho preso all’incirca un milione e trecentomila lire di oggi”.

Quando ti rivedi in “Accattone” che impressione hai?

“Cerco di non rivedermi”.

Perché?

“Perché ormai quel film lo conosco a memoria, come gli altri, del resto. A volte fanno ‘Accattone’ in tivvù, io ho anche le cassette, ma cerco di evitare di vederlo. Ma non perché sia invecchiato, ma è perché mi piacerebbe rivederlo con le persone adatte. Con quelli che all’epoca contestarono il film, ad esempio”.

Come è cambiata la tua vita dopo “Accattone”?

“In peggio. Vedi, il rapporto con Pasolini è stato per me, in un certo senso, distruttivo, perché non è che io proprio amassi fare il cinema, ma nello stesso tempo so che dovevo farlo, forse anche solo per amicizia. E, come ti ho già detto, per certi versi mi affascinava, come quando lavoravo con gli amici miei. Poi però sono stato costretto a lavorare con altre persone che non conoscevo, e mi rompevo i coglioni perché non erano leali con me. Miravano al successo, capisci? Allora qualcuno, magari, si è permesso di dire: ‘Ma sai, quello è un borgataro’”.

Che tipo di rapporto avevi con Pasolini?

“Lui era un po’ come un padre. Aveva una grande paura di me. Gli potevo sparire da un giorno all’altro, senza finire il film. È successo mentre facevamo ‘Mamma Roma’ con la Magnani. Ho avuto una disavventura con la polizia. Ho litigato con una guardia e m’hanno arrestato per oltraggio. Mi sono fatto una ventina di giorni e poi sono uscito”.

Il film è stato interrotto per questo motivo?

“No. Hanno messo mio fratello di spalle, tipo controfigura. E dopo quell’episodio, quando abbiamo fatto ‘Edipo Re’, Pier Paolo è stato costretto a mettere nell’albergo due guardie in borghese, in modo che non uscissi. Ma, sai, io il cinema l’avevo preso nel senso del divertimento. Professionalmente non è che mi interessasse più di tanto”.

Se non sbaglio era proprio Pasolini a dirti che tu dovevi fare semplicemente te stesso e non recitare.

“Sì, tanto è vero che ha cercato di non farmi diventare né francese, né inglese, né americano. Avevo molte richieste, allora. Il mio terzo film l’ho fatto con Marcel Carné. Poi ho lavorato in America. Ho fatto due padrini con Coppola. Il primo e il terzo”.

Non ti ha mai pesato la figura di Pasolini?

“In un certo senso sì. Io ero l’immagine del suo cinema, e non è detto che potessi essere l’unica. Poteva anche trovare qualcun altro, e forse sarebbe stato meglio per me, avrei seguitato a fare il muratore, il pittore. Certo, sono contento di aver fatto cinema con lui, mi ha dato la possibilità di stare meglio anche economicamente, però se tornassi indietro non so se lo rifarei il cinema. Perché sono trentacinque anni di domande e, in fondo, il contatto con una persona è quello, niente di più, niente di meno. Ogni tanto ti puoi ricordare una cosa in più, però, ecco, Pasolini parla con le sue immagini, con la scrittura. E chissà quante volte non mi avrà detto certe cose”.

Stefano Milioni. Pasolini e le borgate: un'intervista a Franco Citti.

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