Pier Paolo Pasolini e Laura Betti al Premio Strega (1961) © Agenzia Duphoto/Riproduzione riservata
Ho conosciuto Pier Paolo nel ’57. Ci siamo subito fidanzati, poi sposati. Io sostenevo che sarei poi diventata il bastone della sua vecchiaia e – data la mia tendenza ai chili in più – lui sosteneva che sarei diventata la “palla” della sua vecchiaia. Avevamo poche cose in comune: una disperata vitalità e una canzone dal titolo Amado mio che aveva cantato Rita Heyworth in Gilda. E un’altra cosa avevamo in comune: la disubbidienza.
Eravamo una coppia tipica con i regolari problemi del ruolo. Io mi ero assunta – come tutte le donne – un compito duro, pesante, quasi impossibile. Lo facevo ridere. Non sapeva ridere quando l’ho conosciuto. Teneva le labbra sottili sbarrate, chiuse. Era un uomo braccato, respinto, schedato dalle destre e dalle sinistre come “diverso”. Era un uomo assetato d’amore. Farlo ridere non era dunque facile perché non c’era nulla da ridere. Il nero fascismo del “nuovo fascismo” era tutt’intorno a noi, a la nostra pazza isola di sole, di colori, di sapori; un’isola resa superba dalla poesia sparsa ovunque, a piene mani.
Una coppia tipica. E se lo dico è per disubbidire a chi ha deciso che una coppia tipica non possa essere anche insolita. Lo dico per disubbidire a chiunque scheda gli omosessuali, le donne, gli handicappati stabilendo una normalità, “quella normalità”, non tre, mille normalità. Una. Approvata dall’alto, da chi sa in che modo si deve allevare l’individuo di comodo; l’individuo lobotomizzato a cui nascondere qualsiasi stimolo rivelatore di mondi cosiddetti proibiti quali, per esempio, un’unica sessualità con mille sublimi ramificazioni più o meno selvagge e beati coloro che si guadagnano il più che comprende tutto quanto offre la vita.
Laura Betti da “Panorama” 8 novembre 1977
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