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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Il 2 novembre del 75 era domenica. Enzo Siciliano ricorda il giorno della morte di Pasolini (1993)


Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Via Eufrate, Roma (1975) ©MP/Leemage/Riproduzione riservata



Il 2 novembre del 75 era domenica. Eravamo, al Vertano. Giornate di vacanza per i ragazzi: un «lungo ponte» che sarebbe durato fino alla sera di martedì.


Pioveva. Facevamo colazione in cucina, mia madre, Flaminia e io. Francesco e Bernardo dormivano ancora.


Squilla il telefono. È Franco Cordelli. Mi dice: «Dovresti chiamare Alberto». Ho chiesto perché - certo che avrei chiamato Moravia quella mattina, come al solito. Dice ancora Franco: «Forse dovresti venire a Roma». Chiedo di nuovo perché... E lui: «Non hai sentilo il giornale radio?». Mi capita raramente di ascoltare il giornale radio... Mi dice allora'che Pier Paolo è stato assassinato. Franco mi ricorda che ho detto parole senza senso, che ho gridato.


Teletono ad Alberto: non risponde nessuno. Non trovo neanche Laura. Il numero di Pier Paolo dà occupato. Svegliamo Francesco e Bernardo: partiamo per Roma.


Devo guidare lentamente sulla strada sterrata che dal Vertano porta ad Acqualoreto. Piove forte. Le ruote dell'auto slittano sulle pietre. Francesco, ha sette anni, chiede con insistenza: «Ma Pier Paolo era venulo a casa: aveva lascialo una crostata per me e per Bernardo, no?». «Sì, una settimana fa» gli risponde mia madre. Poi, fra noi, c'è il silenzio, un silenzio violentemente decretato, e mi sembra che la luce della mattina, fra le righe della pioggia, sia fredda e insieme incendiata. Il silenzio non è spezzato neppure dal ronzio del tergicristallo in azione.


Pier Paolo e Laura erano venuli a trovarci, la settimana prima, dopo cena, e Laura aveva voluto che Pier Paolo portasse un dolce. Non l'avevamo mangiato ed era rimasto per i ragazzi. Avevamo parlato delle ultime riprese di Salò. L'argomento era la partita di pallone che la troupe di Salò aveva giocato contro la troupe di Novecento, in un campo sportivo fra Parma e Mantova.


Era stata quella l'occasione perché Pier Paolo e Bernardo Bertolucci si rivedessero dopo l'uscita di Ultimo tango a Parigi. A Pier Paolo Ultimo tango non era piaciuto, e ne aveva discusso con una durezza che aveva ferito Bernardo.


Laura racconto come aveva orchestrato, la riappacificazione - la partita le era sembrata il modo per coronare un lungo, meticoloso lavorio diplomatico - viaggi continui fra Parma e Mantova. Laura gorgogliava di gioia. Era stato affittato un campo regolamentare, era stata ordinata a un pasticciere una torta enorme, erano stati chiamati i fotografi, anche i cronisti dei giornali locali.


Pier Paolo adesso rideva. Dissi: «Capitolazione». «Che dici» rispose. Riparlò dei motivi per cui Ultimo tango non gli era piaciuto: nelle parole lasciava precipitare la forma didascalica del proprio puntiglio, e lo faceva con chiara insistenza. Si poteva pensare che, al fondo di quella chiarella, vi fosse qualcosa di opaco. Diceva che con Ultimo tango 'Bernardo aveva tradito il cinema del Conformista. Insisteva: la qualità dei dialoghi - «dialoghi irreali». Ma non si trattenne dal parlare anche del talento di Bernardo, di quanto lo amasse: ne parlò con felicità riconquistata.


Laura, con foga insistente, tornò a raccontare della partita di pallone. Pier Paolo alzò gli occhi al soffitto. Ironizzò, ma ; con un sospiro: «Laura!». E lei: «Avete fatto pace, e basta». Laura sa quale accento usare per raccogliere chiunque sotto le sue gonne. E Pier Paolo concluse: «Va bene. È finita».


Raccontò del viaggio che aveva appena fatto a Parigi, per l'edizione francese di Salò. Lo avevano portato in un cine ma a luci rosse: «La fica, spalancata, enorme, su tutto lo schermo: un orrore».


Si riapri il contenzioso con Laura su un fronte tutto diverso: ed era un collaudatissimo gioco delle parti.


Il tempo aveva accentuato in lui il desiderio di provocare gli amici su tutto quanto riguardava il sesso. Pier Paolo sembrava aver raggiunto nei confronti della propria omosessualità uno slato di leggerezza che anni prima gli era forse estraneo. Di leggerezza e di disinvollura. Negli ultimi tempi il suo orizzonte erotico aveva preso aspetti più mòssi - per lo meno da quanto trapelava dalle sue parole, anche da un intimo suono dicomicità in quelle parole.


Pier Paolo coltivava il riserbo. Poteva ricordare con un sorriso profumato di nostalgia, e un'occhiaia densa d’allusioni, quel «ragazzino di Tangeri»; poteva aggiungere che era «bellissimo» o «delizioso», e aveva un modo cosi particolare di dire «delizioso», aiutando l'eco friulana nel suo accento, da svelare per intero il carico di sensualità sollevalo dal ricordo: - ma oltre non andava.


Qualche anno prima, a Sabaudia, d'estate, preparando la sceneggiatura del Fiore delle Mille e una notte con Dacia, passò una decina di giorni in casa di Moravia. Noi abitavamo sempre sulle dune del litorale, qualche casa più in là. Cenavamo spesso da Alberto. Pier Paolo ci lasciava appena finita la cena, come d'altra parte era sempre avvenuto a Roma e altrove. Stavolta aveva appuntamenti con allievi della scuola di polizia di Nettuno. Sembrava lo confessasse per sfida. «Sono deliziosi» - e lo ripeteva fino alla nausea contro le nostre ironie, che prendevano a pretesto anche i suoi versi sulla battaglia di Valle Giulia, i Versi sugli studenti e i poliziotti. Per tutta risposta, con il rombo dell'Alfa Romeo, si lasciava inghiottire dal buio sul rettifilo del lungomare.


Tornava alla mente la voce di Gadda, profonda, esitante per timidezza e strafottenza, «Ah, l'erotismo numerico e generico di Pasolini!». Pier Paolo aveva sempre ribattuto «Il numero, certo: il numero!».


Ho trovato una cartolina spedita dall'Ingegnere a Pier Paolo, con la data del 16 ottobre 1957 da Parma: «Carissimo, ti abbiamo ricordato con affetto, in questi giorni parmensi pieni di luce. Oltre le ore del mio nobile dovere, Attilio mi ha trattenuto e ospitato: e con lui Antonio Allegri. Questa gentile carognetta sia messaggero del mio costante ricordo. Il tuo Gadda». Accanto al nome di Gadda, Bertolucci ha scritto il suo «Attilio» a caratteri più minuti.


La «gentile carognetta» di cui parla Gadda è sul retro della cartolina, un Alessandro Farnese adolescente ritratto da Antonio Mor, conservato nella Pinacoteca di Parma. È un ragazzino quindicenne, magrissimo, elegantissimo, in calzamaglia color carne, berretto piumato, giustacuore di un chiarissimo turchese, e spalle una giacca di raso blu foderata di pelliccia.


Labbra a cuore, sguardo serio, morboso in modo inequivocabile, quell'Alessandro Farnese messo su carta, «messaggero» di un «costante ricordo», voleva forse essere il comico correttivo all'erotismo «numerico» tanto discusso? Ancora di più: voleva essere, ni puro stile gaddiano, quasi un nonsense citazionistico, una provocazione all'erotismo «borgataro» pasoliniano?


Nella cristallizzazione erotica che viveva, Pier Paolo non lasciava posto alle «carognette» del tipo ritratto da Mor: niente adolescenti segnati dal morbo delle classi alte, il vizio marcato nell'estenuazione della carne, nel palloreviolaceo delle occhiaie, dei polsi e delle caviglie fragili. Riccetto di Ragazzi di vita era una «creatura», e tutti quelli come lui lo erano: polsi, massicci, il pallore di una fame robusta. La luce dei loro occhi tradiva la particolare «creaturalità» che è un «diritto alla vita» - il «diritto alla vita» che li rendeva, alla sensibilità di Pasolini, non solo «simpatici» ma - «attraenti». «Creature»: - una parola che siglava un destino pensato e discusso dalla mente di un raffinato critico letterario, un Auerbach ad esempio.


Questa illusione, questa fondata rousseauiana illusione, sarebbe crollata con l'«abiura», l'«abiura» finale, nel 75, con la scoperta della falsificazione di ogni valore, i valori del progresso, della tolleranza, del miglioramento: - la scoperta per cui, ormai, i corpi e i sessi dei ragazzi di vita erano soltanto corpi e sessi di «squallidi criminali». Ec iò era sempre stato. «Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine» (cosi nell'Abiura dalla Trilogia della vita»).


Nei corpi dei giovani poliziotti di Nettuno, Pier Paolo trovava forse i segni della medesima «criminalità» o «violenza», mascherati dagli obblighi della divisa? Quella divisa era un puro schermo, oppure fissava uno scarto di natura morale? Infine, riguardo alle «carognetle», non aveva forse ragione, una ideologica e storica ragione, l'autore del Pasticciaccio brutto di via Merulana?

Quella sera, con Laura con Flaminia e con me, Pier Paolo desiderava il divertimento e il gioco: niente altro. Gli dissi di un concerto di Pollini, dato qualche tempo avanti, all'Auditorium, con molti ragazzi tra il pubblico: gli dicevo che l'istinto cieco e balordo di cui accusava i giovani non li coinvolgeva tutti. Rispose: «Ti sbagli. Ascoltano la musica, o applaudono Pollini perché è stato detto loro dai discografici che bisogna applaudirlo?».


Se tentavo di replicare qualcosa, la sua risposta era: «Leggerai Petrolio» e legava, come faceva sempre, quanto scriveva a un'idea della vita che sembrava nutrita soltanto di astrazione. La sua volontà aveva il lampo freddo dell'acciaio. Ma, nel dire quelle parole, era stato investito dal dolcissimo bagliore d'estasi che gli si accendeva negli occhi quando poteva dirsi soddisfatto senza riserve da qualcosa di suo.


Narcisismo? Gli accadeva di abbandonarsi a se stesso in un modo cosi totale che non avresti immaginato quanto quel medesimo uomo potesse fare uso razionale della propna aggressività, come accadeva nei pamphlet corsari e luterani. Il moto della sua ragione aveva un corso imprevedibile. Se parlava di rivolta, in quella rivolta c'era anche l'«accettazione dell'inaccettabile».


Aveva scritto: «Manovro per risistemare la mìa vita. Sto dimenticando com'erano "prima" le cose». E quella sera disse «Verrò con voi all'Auditorium. Ho una gran voglia di ascoltare musica, di ascoltarla per me». Nella sua voce non c'era ironia. Era come se, sulle asperità delle cose, fosse tentato di stendere i segni della linearità e di una coerenza non più forzatamente dialettica: sembrava accettare con remissività le ondate della vita.


Su un tavolo avevamo un vaso di cristallo azzurro trasparente e una lampada di opalina bianca. Si mise a parlare di quel bianco opaco e di quell'azzurro trasparente accostati per caso, della pittura e di quel che avrebbe dipinto nel suo studio di Chia. Tutto era rimandato a dopo l'uscita di Salò: i concerti, la pittura, il libro dei saggi. Descrizioni di descrizioni, il romanzo, la raccolta dei sonetti, cui accennava con sofferenza, L'hobby del sonetto. Ma quel bianco e quell'azzurro sembrò lo invitassero a rifiutare trucchi, artifici, se mai ne aveva fatto uso, - anzi, si dice - va ormai portato al solo approfondimento di mezzi espressivi pnmari. Sorrideva: l'immagine di un se stesso del tutto rinnovato, sottoposto a un'autodialisi psichica, lo divertiva.


Disse poi che stava raccogliendo per «Nuovi Argomenti» una piccola antologia di poesie, tra i manoscritti che riceveva «Ho scelto una decina di nomi, ma devo scegliere ancora. Viscere scoperte, punti esclamativi tanti: ma circola un'aria che, seppure non mi piace, vale la pena di...». Si lamentò di un incontro avuto, tempo addietro, con Livio Garzanti, che allora stampava la rivista. Garzanti gli aveva ripetuto cose sgradevoli su «Nuovi Argomenti». «Sono di quei preconcetti!...», «Quali?». «I soliti. Roma, l'amore e l'odio, l’invidia per Moravia... E poi che non c'è più nulla, che tutto è finito. Le sue parole sono sempre le stesse, dal Sessanta. Non capisce che bisogna adattarsi a una diversa leggibilità. Il nuovo non sembra mai nuovo casomai sembra diverso».


La serata si dilungò. Parlammo fino all'una e mezza. Quando se ne accorse, scattò in piedi: «Avevo un appuntamento a mezzanotte!». Ci ribellammo: «Ma, per una sera!...». «Anche per una sera. Non sapete cosa ho perduto». In quell'attimo, ebbe una scossa d'orgoglio: pagava un obolo al se stesso che stava sparendo in lui, ma che ancora amava con trasporto folle.


Partiva da Roma il giorno dopo. Mi disse che mi avrebbe telefonato una volta tornato, il sabato, la domenica, insomma verso il due di novembre: bisognava preparare l'antologia per «Nuovi Argomenti».


Non ci vedemmo più.


Enzo Siciliano. Pasolini. Il 2 novembre era domenica... in L'Unità 1 settembre 1993


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