Pier Paolo Pasolini al Festival di Venezia per Teorema (1968) © Girella/Publifoto/Riproduzione riservata
Peroni: In alcuni film di questi ultimi anni (per esemplificare: il suo Uccellacci e uccellini e Sovversivi, La guerra è finita e La cinese) passa, a livelli e con esiti diversi, un discorso abbastanza comune. L’interesse per queste opere nasce dal fatto che, qui, la coscienza della «crisi delle ideologie» non viene elusa con schemi ottimistici ma neppure mistificata dal formalismo delle neoavanguardie. Che cosa pensa di questa ricerca in atto e, in particolare, si sente interessato a proseguirla, e in quale direzione?
Pasolini: Mi sento interessato a proseguire questo tipo di esperienza. Infatti Teorema continua questo discorso. Teorema parla ancora di un’esperienza religiosa. Si tratta dell’arrivo di un visitatore divino dentro una famiglia borghese. Tale visitazione butta all’aria tutto quello che i borghesi sapevano di se stessi; quell’ospite è venuto per distruggere. L’autenticità, per usare una vecchia parola, distrugge l’inautenticità. Però quando egli se ne va, ognuno si ritrova con la coscienza della propria inautenticità e, in più, l’incapacità di essere autentico: per l’impossibilità classista e storica di esserlo. Così ognuno dei membri di questa famiglia ha una crisi, e il film finisce più o meno con la seguente morale: che qualunque cosa un borghese faccia, sbaglia. A parte gli errori storici, infatti, come l’idea di Nazione, l’idea di Dio, l’idea di Chiesa confessionale eccetera, anche se la ricerca del borghese è sincera, intima e nobile, tuttavia è sempre sbagliata. Ma questa condanna della borghesia, mentre prima (prima, fino al 1967: è un dato autobiografico) era precisa, era ovvia, qui rimane «sospesa», perché la borghesia in realtà sta cambiando. L’indignazione e la rabbia contro la borghesia classica, come la si è sempre intesa, non ha più ragione di essere dal momento in cui la borghesia sta cambiando rivoluzionariamente se stessa, cioè sta identificando tutto l’uomo al piccolo borghese. Ormai è tutta l’umanità che sta diventando piccolo borghese: e allora nascono delle nuove domande a cui è il borghese stesso che deve rispondere, e non più l’operaio oppure chi è all’opposizione. Ora a queste domande non possiamo rispondere né noi borghesi che siamo all’opposizione, né il borghese «naturale» stesso. Ecco perché il film rimane «sospeso», e finisce con una specie di urlo, che nella sua irrazionalità pura significa questa sospensione. Quindi vi sono in esso dei motivi politici, ideologici (mettiamo il rapporto tra religione e contestazione politica, la rabbia antiborghese, eccetera, tipici anche di Uccellacci e uccellini), che saranno chiari solamente a film finito.
Peroni: Quindi, a parte la novità di offrire, almeno per quanto riguarda la sua opera cinematografica, un ambiente e dei personaggi borghesi, quali risultati si propone. In particolare lei accennò a una sua posizione «sacrale» come autore di fronte al personaggio della preistoria o mitico. Sembra ora che, proprio con Uccellacci e uccellini, questa sua posizione esistenziale, e quindi stilistica, tenda a mutarsi. Quale sarà in concreto il suo atteggiamento stilistico di fronte ai personaggi borghesi (e quindi probabilmente negativi) di Teorema?
Pasolini: Direi che questo mio passare a un ambiente borghese è puramente nominale. Perché non è che io faccia un film di costume sulla borghesia, non parlano mai, intanto, questi borghesi (il film è quasi muto), quindi non usano i loro modi di dire, non hanno atteggiamenti, eccetera. Insomma sono visti anche loro in quel modo particolare, che io chiamo «sacrale», con cui vedo tutti gli esseri umani (nella specie, finora i sottoproletari). Questi personaggi borghesi non sono mai visti in modo vivace o in modo polemico, come li vedono normalmente nei film di costume (come li descrive Arbasino, come li descrive la Cederna). Ora se io spoglio un borghese di tutto questo, egli si presenta nella sua nudità, nella sua essenzialità. Quindi si tratta di personaggi piuttosto assoluti e visti sempre nel mio modo eternamente sacrale e mitico.
Peroni: Il personaggio centrale di Teorema, questa figura misteriosa e affascinante dotata di una sconvolgente carica di vitalità, avrà l’aspetto dell’angelo o sarà piuttosto il Cristo secondo Matteo; cioè l’autenticità di questo personaggio divino assumerà corpo attraverso la condanna oppure attraverso una presenza angelica, di amore?
Pasolini: Questo personaggio ha finito col diventare ambiguo, cioè a metà strada tra l’angelico e il demoniaco. Il visitatore è bello, dolce, ma ha anche qualcosa di volgare (non per niente è un borghese anche lui). Non c’è borghese non colto (perché soltanto la cultura può purificare) che non sia volgare. E lui ha quel tanto di volgarità che ha accettato di avere per scendere tra questi borghesi; è perciò che è ambiguo. Ciò che è autentico invece, è l’amore che suscita, perché è un amore fuori dei compromessi, fuori dei patti con la vita, un amore scandaloso, un amore che distrugge, che modifica l’idea che il borghese ha di sé: ora l’autentico è l’amore, e la causa di questo amore è questo personaggio ambiguo.
Peroni: Dunque non esistono riferimenti con il Cristo di Matteo, poi suo.
Pasolini: Questo personaggio non è identificabile con Cristo; è se mai Dio, il Dio Padre (o un inviato che rappresenta il Dio Padre). È insomma il visitatore biblico dell’Antico Testamento, non il visitatore del Nuovo testamento.
Peroni: Dal momento che molto spesso ci sono state coincidenze tra le sue opere cinematografiche e quelle letterarie, si ricollega Teorema a qualche sua esperienza precedente e quanto è legato alla sua recente produzione letteraria?
Pasolini: La storia dell’idea di Teorema è molto curiosa e significativa. Circa tre anni fa ho cominciato a scrivere, per la prima volta in vita mia, delle cose di teatro; ho scritto quasi contemporaneamente sei tragedie in versi e Teorema era, come prima idea, una tragedia in versi, la settima. Avevo già cominciato a elaborarla come tragedia, come dramma in versi; poi ho sentito che l’amore tra questo visitatore divino e questi personaggi borghesi era molto più bello se silenzioso. Questa idea mi fatto pensare che allora forse era meglio farne un film, ma mi sembrava che come film fosse irrealizzabile e, in un primo momento, ho buttato giù un racconto che è rimasto molto schematico e, nella prima stesura, molto rozzo; poi l’ho elaborato come sceneggiatura e contemporaneamente ho anche modificato questo primo canovaccio di appunti che è diventato un’opera letteraria abbastanza autonoma. Quindi Teorema ha due momenti: un primo momento teatrale, che poi è caduto, e un secondo momento che si è diviso in due rami; uno cinematografico e uno letterario. Dunque si tratta di un rapporto stranissimo tra letteratura e cinema.
Peroni: Secondo quali criteri ha scelto gli attori per Teorema? Penso ci si debba ancora una volta rifare al discorso sul piano-sequenza o, meglio, al rifiuto del piano-sequenza.
Pasolini: I criteri con cui scelgo gli attori dei miei film sono sempre gli stessi: scelgo un attore per quello che è e non per quello che ha l’abilità di sembrare. Non sempre ci si riesce perché alle volte così come sono non corrispondono al personaggio; quindi ci si deve fatalmente accontentare, in questo senso, di approssimazioni, soprattutto per i film di ambiente e di carattere borghese. Per i film proletari basta andare per la strada e si trova subito uno disposto a dare se stesso veramente, totalmente, senza mediazioni, senza paure, senza pudori, senza il senso del ridicolo, generosamente insomma. Mentre l’idea di prendere un industriale milanese che facesse un industriale milanese in un film è praticamente irrealizzabile, e così la moglie di un industriale, così i figli di un industriale; quindi c’è fatalmente, nella scelta degli attori, un certo compromesso. Il collegamento con il discorso sul piano-sequenza è giusto: nei miei film non faccio mai dei piani-sequenza appunto perché i piani-sequenza permettono l’abilità dell’attore. Se io punto la macchina da presa su un uomo del popolo, su un ragazzo del popolo, su una vecchia contadina, allora il piano-sequenza andrebbe benissimo ugualmente, soprattutto se loro non se ne accorgono; ma se io la metto su un attore, allora viene fuori l’attore e si perde la sua realtà. In Teorema ho fatto dei piani-sequenza più lunghi del solito per certe situazioni particolari, però tutto sommato anche questo film l’ho girato a rapidissimi frammenti, in cui cogliere l’espressione essenziale, di volta in volta, e non permettere all’attore di sfoggiare sfumature e abilità, al di fuori della sua natura reale.
Peroni: perché non ha mai realizzato Il padre selvaggio. E, a parte le difficoltà che incontrò a suo tempo, non sente l’opportunità di ritornare oggi su un progetto che, a giudicare dalle pagine che ci sono rimaste, avrebbe potuto tradursi in un film di grande interesse?
Pasolini: Il prossimo film che farò si intitolerà Appunti per un poema sul Terzo Mondo e comprenderà quattro o cinque episodi e uno di questi si svolgerà in Africa e sarà Il padre selvaggio; però non ne sono certo. Può darsi che anziché fare Il padre selvaggio faccia un altro film che mi è venuto in mente, sempre però su questa linea, cioè una Orestiade ambientata in Africa. Ricreerei delle analogie, per quanto arbitrarie e poetiche, e in parte irrazionali, tra il mondo arcaico greco, in cui appare Atena che dà, attraverso Oreste, le prime istituzioni democratiche, e l’Africa moderna. Quindi Oreste sarebbe un giovane negro, mettiamo Classius Clay (pensavo a lui come protagonista), che ripete la tragedia di Oreste. Comunque sia che si tratti di un film su Il padre selvaggio sull’Orestiade, in ogni caso non sarà fatto come un vero e proprio film, ma come un «film da farsi». Questo «film da farsi» l’ho sperimentato in India qualche tempo fa. Anche in India sono andato con un soggetto di film, la storia di un maràgia il quale, secondo una leggenda mitica indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle (questo, idealmente, prima della liberazione dell’India); e, dopo la liberazione dell’India, sempre idealmente, cioè implicando i problemi moderni dell’India, la famiglia di questo maràgia scompare perché i suoi membri muoiono ad uno ad uno di fame durante una carestia. Questa era l’idea del film. Così sono andato in India a fare una specie di inchiesta per verificare se questa idea era attendibile o no. Per sentire dagli indiani, i più diversi, da un maràgia stesso ad alcuni santoni, dalla gente del popolo a degli scrittori, se questo film poteva essere fatto o no. Ora ne è venuto fuori un film che ha tuttavia questa trama: la trama rimane, la storia rimane, però appunto, come trama «da farsi». Questa esperienza, fatta senza volerlo in India, vorrei allargarla, e girare un episodio simile per ognuno dei luoghi che sono tipici del Terzo Mondo; e uno di questi forse sarà appunto Il padre selvaggio (a meno che non sia sostituito dall’Orestiade).
Inquadrature – rassegna di studi cinematografici n.15-16, autunno 1968, pag. 33-37
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