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La solitudine dell'uomo moderno nel cinema di Antonioni. Un testo di Pier Paolo Pasolini


Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia e Michelangelo Antonioni nella Mostra di Renato Guttuso alla Galleria La Nuova Pesa di Roma, 17.10.1962 © Archivio Luce/Riproduzione riservata

Pier Paolo Pasolini su Vie Nuove, 16 marzo 1961


Caro Pasolini, seguo attentamente la sua rubrica e ne condivido l’impostazione. Vorrei chiederle, dato che tante opere letterarie e artistiche in genere sono dettate dalla cosiddetta «solitudine» dell’uomo moderno o, più precisamente, dalla antiumana condizione dell’uomo nell’odierna società, la giustificazione di queste opere, la loro validità e la loro importanza e funzione. E le ragioni culturali di questo atteggiamento. Cordiali saluti.

Giovanni Stefani – via S. Egidio 3, Firenze

"II suo biglietto, caro Stefani, è un invito a scrivere un libro. Lei infatti parla di «opere letterarie e artistiche» prodotte in questo ultimo periodo: e se io dovessi rispondere a tono, e con la rabbia analitica che mi è caratteristica, dovrei scrivere un intero capitolo di storia della cultura. Ma io voglio prendere la sua richiesta come una sollecitazione e trattare degli argomenti di attualità: le ultime «opere letterarie e artisti-che» cui lei si riferisce, sono probabilmente i film di Antonioni e La noia di Moravia.

Sia La notte che La noia, esprimono, come lei dice, la «solitudine» dell’uomo moderno, o «più precisamente l’an-tiumana condizione dell’uomo nell’odierna società». Eppure tra le due opere c’è una differenza sostanziale.

Intanto, La notte è scritta dall’autore, Antonioni, direttamente: la Moreau è «lei» e Mastroianni è «lui»: malgrado questa oggettività narrativa, l’opera è estremamente soggettiva e lirica. I due personaggi «ella» ed «egli» non sono che dei «flatus vocis», incaricati a esprimere quel vago, irrazionale e quasi inesprimibile stato di angoscia che è tipico dell’autore, e che nei personaggi diventa quasi un sentimento riflesso o riferito.

Nella Noia succede il contrario: essa è scritta dall’autore indirettamente: Bino, il protagonista, è l’«io» stesso che racconta: eppure, malgrado questa soggettività narrativa, l’opera è estremamente oggettiva, cosciente. Il personaggio «io» non è che un espediente, usato per esprimere uno stato di angoscia ben chiaro, storicizzato, razionale nell’autore, e ridonato alla sua vaghezza, che è poi concretezza poetica, nel personaggio. Tutte e due le opere esprimono l’angoscia del borghese moderno: .ma attraverso due metodologie poetiche, per così dire, ben diverse, le quali rivelano appunto, una sostanziale diversità d’impianto ideologico.

Per Antonioni, il mondo in cui accadono fatti e sentimenti come quelli del suo film è un mondo fisso, un sistema immodificabile, assoluto, con qualcosa, addirittura, di sacro. L’angoscia agisce senza conoscersi: come avviene in tutti i mondi naturali: l’ape non sa di essere ape, la rosa non sa di essere rosa, il selvaggio non sa di essere selvaggio.

Quello dell’ape, della rosa, del selvaggio, sono mondi fuori dalla storia, eterni in se stessi, senza prospettive se non nella profondità sensibile.

Così i personaggi di Antonioni non sanno di essere personaggi angosciati, non si sono posti, se non attraverso la pura sensibilità, il problema dell’angoscia: soffrono di un male che non sanno cos’è. Soffrono e basta. Lei va in giro scrostando nevroticamente muri, lui va a portare la sua faccia mortificata in giro per strade e salotti, senza né principio né fine. Del resto, Antonioni non ci fa capire, o supporre, o intuire in alcun modo di essere diverso dai suoi personaggi: come i suoi personaggi si limitano a soffrire l’angoscia senza sapere cos’è, così Antonioni si limita a descrivere l’angoscia senza sapere cos’è.

Moravia invece, lo sa benissimo: e lo sa anche il suo personaggio, Dino, il quale vive e opera a un livello culturale inferiore solo di un gradino a quello di Moravia. Per tutto il romanzo, dunque, non si fa altro che discutere, analizzare, definire l’angoscia (nel romanzo chiamata «noia»). Essa deriva da un complesso nato nel ragazzo borghese ricco: il quale complesso comporta una deprimente impossibilità di rapporti normali col mondo: la nevrosi, l’angoscia. L’unico modo per sfuggire è abbandonarsi all’eros: ma anche l’eros si rivela niente altro che meccanismo e ossessione. Questo è quello che sa il personaggio. Moravia, naturalmente, ne sa qualcosa di più. Egli sa che la psicologia non è solo psicologia: ma anche sociologia. Sa che quel «complesso» di cui si diceva se è un fatto strettamente personale, è anche un fatto sociale, derivante da un errato rapporto di classi sociali, da un errato rapporto, cioè, tra ricco e povero, tra intellettuale e operaio, tra raffinato e incolto, tra moralista e semplice. In altre parole, Moravia conosce Marx, il suo protagonista no. Ecco perché il tanto discettare che fa il protagonista sul suo male, gira un po’ a vuoto, ed ha un valore puramente mimetico e lirico. Manca alla soluzione quella parola che Moravia conosce e il suo protagonista no. La noia è un romanzo splendido, la cui ultima pagina doveva essere una tragedia, e non una sospensione. Moravia doveva avere la forza di non dare alcuna specie di speranza al suo protagonista: perché quello del protagonista è un male incurabile. Non ci sono terze forze, né ideali di sincretismo umanistico capaci di liberarlo.

Purtroppo il pubblico borghese medio, e anche molti intellettuali (pur ridendo di certe battute goffe del film) si riconoscono più nella Notte che nella Noia: a parte l’ipocrisia, per cui essi non vorrebbero mai sapersi presi dalla follia erotica da cui è preso il protagonista moraviano, essi sentono che i personaggi «pura-angoscia» della Notte rispecchiano meglio il loro sostanziale desiderio a non affrontare problemi razionali, il loro rifiuto a ogni forma di critica, e l’intimo compiacimento di vivere in un mondo angoscioso, sì, ma salvato, ai loro occhi, dalla raffinatezza dell’angoscia."


Pier Paolo Pasolini su "Vie Nuove", 16 marzo 1961


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