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Immagine del redattoreCittà Pasolini

Pier Paolo Pasolini in dialogo con Dacia Maraini. Un'intervista del 1971




Sei nato a Bologna, vero? In che anno? Nel 1922.


Qual è il primo ricordo che hai della tua infanzia? Mi ricordo di quando avevo un anno. Ricordo la camera dove dormivo. Era la sala da pranzo e la mia culla stava in un angolo addossata al muro. Di fronte c’era una grande alcova di legno dove dormiva la mia nonna. Ricordo anche un divano che poi ci ha seguiti per tutta la vita. Il bracciolo di questo divano si rovesciava e scopriva la struttura di legno. Io su questo legno disegnavo con la matita un’automobile e la chiamavo Ru-pepé.


Hai una memoria molto buona. Ricordi altro? Ricordo i giardini Margherita; una strada di Bologna dove passeggiavo con una mia zia e davanti a lei usavo impuntarmi perché volevo tornare a casa in carrozza. Hanno cercato di convincermi, mi hanno sgridato. Ma ho vinto io. I miei capricci erano violenti e assoluti.


Sono ricordi piacevoli o spiacevoli? Né una cosa né l’altra, come i sogni. Uno soprattutto ha qualcosa di terribile: c’era una stanza con delle grandi tende bianche e sotto, nel vicolo, passavano i cavalli con le carrozze. Il tonfo di quegli zoccoli mi metteva paura, ma nello stesso tempo mi affascinava come qualcosa di magico e di misterioso.


Tuo padre che mestiere faceva ? Mio padre era ufficiale di fanteria. Nei primi anni della mia vita per me lui è stato più importante di mia madre. Era una presenza rassicurante, forte. Un vero padre affettuoso e protettivo. Poi improvvisamente, quando avevo circa tre anni, è scoppiato il conflitto. Da allora c’è sempre stata una tensione antagonistica, drammatica, tragica fra me e lui.


Com’era tuo padre fisicamente? Un bellissimo uomo. Quando sono nato io aveva ventotto anni. Era di statura non troppo alta, bruno, molto forte, gli occhi scuri e limpidi, i lineamenti marcati.


E di carattere? Era violento, possessivo, tirannico. Prima dei tre anni me lo ricordo anche allegro. Poi, dopo i tre anni, non ricordo più un sorriso (quelle poche volte che rideva, però, era addirittura gongolante).


Gli assomigli? Sì, molto.


E tua madre com’era da giovane? Come te la ricordi? Bellissima. Era piccola, fragile, aveva il collo bianco bianco e i capelli castani. Nei primi anni della mia vita ho di lei un ricordo quasi invisibile. Poi salta fuori Improvvisamente verso i tre anni e da allora tutta la mia vita è stata imperniata su di lei.


Avevi anche un fratello, vero?  Sì. È nato a Belluno quando avevo tre anni. Ricordo mia madre incinta e io che chiedevo: «Mamma, come nascono i bambini?». E lei, mitemente, dolcemente, mi ha risposto: «Nascono dalla pancia della mamma». Una cosa a cui allora però non ho voluto credere, naturalmente. La tua vita si è improvvisamente trasformata e ha preso la strada che poi hai seguito finora. È giusto? Sì, a tre anni è cambiato tutto. Quando mia madre stava per partorire ho cominciato a soffrire di bruciore agli occhi. Mio padre mi immobilizzava sul tavolo della cucina, mi apriva l’occhio con le dita e mi versava dentro il collirio. È da quel momento “simbolico” che ho cominciato a non amare più mio padre.


Ma tu allora giocavi con gli altri bambini o facevi una vita solitaria? Avevo solo tre anni! Ricordo che stavo in mezzo a dei ragazzetti che giocavano nella piazza davanti casa. Ero attratto dalle loro gambe; anzi, precisamente dall’incavo dei loro ginocchi. È la prima parte del corpo che mi ha colpito come corpo. Uno dei ragazzetti mi attraeva e non sapevo perché. Questo sentimento di affetto l’avevo chiamato Teta-veleta. Qualche anno fa Contini mi ha fatto osservare come, in greco, Tetis voglia dire sesso (sia maschile che femminile) e come Teta-veleta sia un reminder del tipo che si usa nei linguaggi arcaici. Questo stesso sentimento di Teta-veleta lo provavo per il seno di mia madre.


Ru-pepé Teta-veleta. La tua infanzia sembra fissata attorno a delle parole chiave. Non solo la mia infanzia ma la mia vita intera è cosparsa di parole chiave.


A Bologna quanto siete rimasti? Solo un anno e mezzo. Poi siamo andati a Parma, a Belluno, a Conegliano. Ogni anno cambiavamo città. Di Parma mi ricordo solo un porcospino. Ricordo un grande viale di periferia e in mezzo alla strada un porcospino. Ero molto incuriosito da quell’animale. Ma quello che mi colpiva di più era il suo nome. Mi chiedevo: ma perché porco?


A che età hai cominciato a parlare? Prestissimo. E ho imparato a scrivere a quattro anni.


Di Belluno cosa ricordi? A parte quel che ti ho detto del collirio e del Teta-veleta, ricordo che a Belluno una volta è venuto il re. La popolazione l’ha accolto molto freddamente. Mia madre che era antifascista e teneva ingenuamente per il re, ha gridato da sola nel silenzio: «Viva il re!». Questo “Viva il re” me lo ricordo bene. Io però non mi ero accorto che la popolazione era ostile. Avevo solo notato la bella voce infantile di mia madre.


A che età hai cominciato ad andare a scuola? Proprio quell’anno, a Belluno, ho cominciato a frequentare l’asilo. Le suore, per farci giocare tranquilli, ci dicevano che, scavando la terra, avremmo trovato un tesoro. Io per giorni e giorni ho continuato a scavare. Poi mi sono seccato e non ho più voluto andare all’asilo. Anche quella volta l’ho avuta vinta. Il mio rifiuto era deciso e categorico. Infatti non ci sono più andato.


Com’eri da bambino? Come adesso. Solo più buffo. Ero ingenuo, credulone. Molto capriccioso. Mi entusiasmavo facilmente. Volevo capire le cose, ero curioso e testardo.


Eri chiuso? No. Ero timido. Impacciato.


Cos’è che ti piaceva di più al mondo a quell’età? Mi piacevano le storie, i racconti, il sapere. Le nozioni sul mondo.


Tua madre ti raccontava delle storie? Sempre. Mi raccontava storie, favole, me le leggeva. Mia madre era come Socrate per me. Aveva e ha una visione del mondo certamente idealistica e idealizzata. Lei crede veramente nell’eroismo, nella carità, nella pietà, nella generosità. E io ho assorbito tutto questo in maniera quasi patologica.


Tua madre ha mai lavorato? Sì, ha fatto la maestra. L’anno dopo, a Conegliano, è cominciata una serie di sogni in cui sognavo di perdere mia madre e l’andavo a cercare in una città che era Bologna. La cosa strana è che Bologna io me la ricordo soprattutto attraverso quei sogni. L’incubo finiva con delle scale che io salivo correndo, sempre cercando mia madre disperatamente. Poi mi svegliavo nel letto dei miei genitori. In quell’epoca è cominciata una forma di nevrosi cardiaca. Avevo imparato che il cuore è il motore della vita ed ero preso dall’improvvisa paura che smettesse di battere.


Quanti anni avevi? Quattro.


E dopo ne hai più sofferto di questa paura? Sì, circa un anno dopo a Casarsa, in seguito a non so che disastro economico. Mio padre aveva fatto dei debiti ed era in mezzo ai guai. Mia madre è tornata a fare la maestra. In quell’epoca dormivo nel letto con lei.


E poi hai sofferto ancora di tale nevrosi? Sì, ancora una volta mi ha ripreso a Bologna, quando avevo diciassette anni. Una notte mi sono svegliato con la sensazione che il mio cuore non battesse più.


Ma soffrivi veramente di mal di cuore? No, fisicamente stavo benissimo. Sono sempre stato forte e sanissimo. Era soltanto una forma di angoscia.


Tu una volta hai detto che l’angoscia è lo stato naturale della tua vita. Che cos’è che ti fa soffrire? La mia sofferenza è dovuta al fatto che per me una disgrazia non è mai quella disgrazia lì, ma una disgrazia cosmica, che mette in forse tutto me stesso. Ogni scacco per me è uno scacco totale.


Ti fanno soffrire più gli amici o i nemici? Soffro delle cose oggettive, come le denunce, le calunnie, gli impedimenti al mio lavoro. Le persone che mi stanno a cuore non mi fanno soffrire.


Tornando all’infanzia, è stata un’infanzia felice o infelice? Ho dei ricordi gloriosi. Ogni mese (in prima elementare, a Conegliano) distribuivano le medaglie ai più bravi. Mi ricordo un meraviglioso fiocco verde. Tornavo a casa di corsa. Vedevo mia madre alla finestra e le indicavo col dito il fiocco sul petto.


Sei sempre stato bravo a scuola? Non in tutto. Qualche volta, pur essendo preparato, avevo delle strane lacune.


Era importante per te l’affermazione scolastica? E perché? Sì, molto. Proprio per quei valori che mi aveva insegnato mia madre: la serietà, l’applicazione, l’entusiasmo per il sapere. In quel periodo, a Conegliano, ho cominciato a dire bugie. Le prime colpe coscienti.


Che genere di bugie? Bugie un po’ gratuite. Mia madre mi diceva: non andare in strada, e io andavo in strada di nascosto, senza dirglielo. Probabilmente, se le avessi detto che volevo andare a giocare fuori, non mi avrebbe detto di no. Ma io raccontavo lo stesso quelle bugie. Mi piaceva. Quelle bugie sono legate a un colore meraviglioso tra il verde e l’azzurro che forse era il vestito di mia madre o una blusa di quel periodo, non so.


Quanti anni avevi? Cinque anni. Ma il periodo delle bugie è passato subito. Ci siamo poi trasferiti a Casarsa, dove ho frequentato la seconda elementare. La seconda elementare è uno dei punti vertici della mia vita. Ho vissuto per la prima volta in una casa mia, in mezzo a un mondo nuovo di cugini, cugine, zie, zii, nonni e nonne. Quell’anno c’è stato un amore per mia cugina Franca che era una bambina bellissima e allegra.


E poi? L’anno dopo ci siamo trasferiti di nuovo (stavolta a Sacile). Però ogni estate tornavamo lì per le vacanze.


La famiglia di tua madre era ricca o povera? Era una famiglia di piccoli possidenti. C’era mia nonna Giulia per cui ho avuto un grande amore. Mio nonno che è morto proprio quell’anno. Aveva costruito una distilleria che poi è andata in fallimento. Di soldi ce n’erano pochi. Però mia madre e mia zia avevano potuto diventare maestre. Insomma erano di quei contadini che possono mandare i figli a scuola.


E la famiglia di tuo padre? La famiglia di mio padre era ricchissima. Mio nonno Argobasto possedeva terre, palazzi, proprietà. Quando è morto, mio padre ragazzo ha ereditato tutto. Ma in capo a qualche anno ha sperperato ogni cosa. È diventato povero più di mia madre.


In che modo ha sperperato quei soldi? Non lo so. Mi hanno detto che a quattordici anni è scappato di casa con una ballerina.


Ma ne parlava mai, con te, del suo passato tuo padre? No, mai. Mio padre era un uomo passionale, sensuale, disorientato e nel momento che ha abbracciato l’ordine, l’ha fatto sul serio. È diventato nazionalista fascista.


Non ti parlava mai della sua giovinezza? No. Era orgoglioso delle sue origini nobiliari. Era orgoglioso soprattutto di un fratello che si chiamava Pier Paolo e scriveva poesie. Questo fratello è morto a venti anni, in mare, affogato mi pare.


È per quello che ti hanno chiamato Pier Paolo? Sì. E la cosa strana è che mio padre, per amore di questo suo fratello morto ragazzo, ha appoggiato la mia aspirazione poetica, quasi perfino contro se stesso. Io fino ai sedici anni volevo fare l’ufficiale di marina. Lui invece diceva che dovevo fare lettere. Poi naturalmente i suoi incoraggiamenti si sono ritorti contro di lui.


Perché ritorti? Perché lui attribuiva alla poesia un carattere ufficiale. Non pensava che potesse essere eversiva, scandalosa. Lui pensava a Carducci, a D’Annunzio.


A che età hai cominciato a scrivere poesie? A sette anni, in terza elementare, a Sacile.


Com’erano queste poesie? Erano poesie “elette”, nella tradizione petrarchesca. Da allora ho scritto sempre. Ho una intera cassapanca di scritti infantili.


Il rapporto con gli altri a quest’età com’era? Il più grande dolore era per me allora fare il balilla e dovere andare alle marce. Essendo il figlio di un ufficiale, dovevo stare fuori dal gruppo e strillare: un, due, un, due! Era un incubo.


Con tuo fratello andavi d’accordo? Litigavamo, ma eravamo molto amici. Lui mi ammirava perché a scuola avevo la media dell’otto. Perché ero più grande, più forte. Andavamo a fare a sassate con gli altri ragazzi. Una volta a Idria (quarta elementare) abbiamo avuto l’idea di farci costruire degli scudi di metallo dal fabbro del reggimento. Quello scudo è stata una delle più grandi gioie della mia vita. Quando i ragazzi della banda nemica hanno cominciato a tirare sassi, noi ci siamo lanciati in avanti, protetti dagli scudi, come un esercito di troiani all’assalto. Tutti sono rimasti travolti dall’ammirazione. Quell’anno il dispiacere più grosso è stato il maestro, il maestro Cravatta. Aveva una grande antipatia per me e io non capivo perché. Forse ero diventato un po’ troppo Pierino.


Cioè primo della classe? Sì.


Che libri leggevi allora, te lo ricordi? Libri di avventure. Mi ricordo la storia di un cowboy che si chiamava Morning Star, stella del mattino. Un giovanotto dritto, coi calzoni di pelle e il fazzoletto rosso al collo. E poi Salgari, tutto Salgari. Sono state le più belle letture della mia vita. Letture incomparabili.


Qual è stato il primo libro non per ragazzi che hai letto? Macbeth. Improvvisamente a quattordici anni, a Bologna, ho fatto il salto qualitativo. Ho scoperto i Portici della Morte dove compravo i libri di seconda mano. Ho smesso di credere in Dio. Tutto insieme.


La tua famiglia era religiosa? Mia madre aveva una religione dolce, contadina. Mio padre ci portava in chiesa, ma era una cosa ufficiale di cui non gli importava niente.


E adesso credi in Dio? No. La fede mi è passata così, a quattordici anni, dalla sera alla mattina.


Ma tu hai sempre mostrato attrazione per il cristianesimo. L’interesse per il cristianesimo è nato dopo la guerra, sotto l’incubo quotidiano della morte, a contatto con il mondo contadino di Casarsa. Attraverso l’estetismo ho riscoperto la religione.


Facendo un passo indietro, da Idria dove vi siete trasferiti? Da Idria a Sacile. Dove ho ritrovato i miei compagni cresciuti, irriconoscibili. Ho incontrato Norma, Lavinia, Margherita, i due fratelli Fatati. Ho sentito che parlavano di un certo “taculin”, cioè di un taccuino (portamonete). Di colpo mi sono sentito escluso.


Perché? Parlavano con grande naturalezza, usando un tono confidenziale che io non avrei mai saputo usare. C’era qualcosa di peccaminoso e insieme normale nei loro modi che mi colpiva.


E cosa hai fatto? Niente. Li ho ascoltati parlare del “taculin” con una certa invidia e una certa angoscia. Mi sentivo escluso per sempre.


E in famiglia come andavano le cose? Tuo padre e tua madre andavano d’accordo? Mio padre e mia madre non andavano d’accordo per niente. Tutta la mia vita è stata influenzata dalle scenate che mio padre faceva a mia madre. Quelle scenate hanno fatto nascere in me il desiderio di morire. Mio padre era innamorato pazzo di mia madre ma in un modo sbagliato, passionale, possessivo. La cosa odiosa, poi, era che lui trasferiva la sua passionalità non corrisposta in piccole osservazioni tipo il bicchiere fuori posto, l’asciugamano non lavato, il cibo troppo salato eccetera.


E tua madre come reagiva? Reagiva lamentandosi dolcemente.


Ma di che cosa la rimproverava tuo padre? La rimproverava di avere la testa nelle nuvole. Ma non era vero. Il fatto è che lui era fascista e lei no. Fra di loro non parlavano mai di politica, ma mio padre sapeva che mia madre pensava di Mussolini che era un “culatta”, cioè “chiappe grosse”, come lo chiamava gaddianamente mia nonna. Stare nelle nuvole, comunque, per lui voleva dire essere anticonformista, in contrasto con le leggi dello Stato, in dissidio con l’opinione dei potenti.


E tu intervenivi mai in favore di tua madre? Ero semplicemente terrorizzato. Sentivo che lei si lamentava e che lui l’aggrediva, sempre. È stato l’incubo della mia vita. Tutte le sere aspettavo con terrore l’ora della cena sapendo che sarebbero venute le scenate.


Ma anche in caserma coi suoi soldati si comportava così tuo padre? No. Come ufficiale era molto diverso, umano, comprensivo. Fuori di casa era buono. Gli volevano tutti bene. Quando è morto abbiamo visto arrivare un soldato dalla Sicilia con un cesto pieno di arance.


E tu come la spieghi questa differenza di comportamento tra fuori e dentro? È tipico dei paranoidei, e degli uomini che bevono.


Tuo padre beveva molto? Quando ha cominciato a bere? Sì, beveva e diventava aggressivo. Ha cominciato pochi anni dopo il matrimonio.


E tuo fratello come reagiva a queste scenate? Mio fratello era un ragazzo normale. Ne soffriva anche lui ma non ne faceva una tragedia.


E tu perché ne facevi una tragedia? In me c’era stata una iniziale rimozione della madre che mi ha procurato una nevrosi infantile. Questa nevrosi mi aveva fatto diventare inquieto, di un’inquietudine che metteva in discussione in ogni momento il mio essere al mondo.


Torniamo indietro. Alla quinta elementare. Alla quinta elementare è successo un fatto inaudito. Sono stato bocciato in italiano scritto. Hanno accusato il mio tema di essere troppo poetico.


Ci sei rimasto molto male? Malissimo. Ero abituato a riuscire bene in tutto, specialmente in italiano.


Da Sacile dove siete andati? A Cremona. Dove sono rimasto tre anni. Ma avevo cominciato a frequentare la prima media andando in treno da Sacile a Conegliano. Avevo dieci anni. Andavo su e giù in treno da solo con i libri e un panino involtato nella carta. Arrivavo al ginnasio tanto presto che era tutto deserto, e mi mettevo lì ad aspettare.


Soffrivi di questi viaggi solitari? No, anzi. Questi viaggi in treno da solo sono stati importanti per me. Imparavo a stare solo, a togliermi d’impiccio da me, a riflettere e osservare.


Cremona è stata quindi la prima città della tua infanzia? Sì, Cremona è stata un’esperienza traumatica. A Cremona è finita la mia infanzia.


A che età finisce la tua infanzia? A tredici anni. Come per tutti: tredici anni è la vecchiaia dell’infanzia, momento perciò di grande saggezza.


Eri contento di te? Era un momento felice della mia vita. Ero stato il più bravo a scuola. Cominciava l’estate del ‘34. Finiva un periodo della mia vita, concludevo un’esperienza ed ero pronto a cominciarne un’altra. Quei giorni che hanno preceduto l’estate del ‘34 sono stati tra i giorni più belli e gloriosi della mia vita.


Rimpiangi molto la tua infanzia? Fino ai trent’anni l’ho rimpianta e l’ho narcisisticamente rivissuta. Del resto ho cominciato a rimpiangere la mia infanzia dopo due, tre anni che era passata. Perché è stato un periodo felice, pieno di idealismo. È stato il periodo eroico della mia vita. L’ho rimpianta disperatamente. Ora è là. Saranno quindici anni che non ne parlo più.


Ti dispiace averne parlato?

No. La considero un periodo di pienezza, ma non la rimpiango più.


Pier Paolo Pasolini in dialogo con Dacia Maraini. Vogue, maggio 1971. pp. 130, 131, 136, 140
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