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II segreto di Pasolini scrittore della vita violenta. Un'intervista del 1962


Pier Paolo Pasolini, intervista 1962 © Riproduzione riservata

All'inizio di Pasolini è una parola dolce e lenta del dialetto friulano: «Rosada». Era l'autunno del '43, il ventunenne Pier Paolo aveva lasciato Bologna dove stava per laurearsi in lettere e si era rifugiato a Casarsa, nel Friuli, il paese materno. Un mattino pieno di sole e tuttora fresco degli umori notturni, lo studente mentre sostava sotto un pergolato, udì due ragazze conversare poco lontano: quella parola, «Rosada» (rugiada) fioriva come musica sulle loro giovani labbra. Le tre sillabe gli rimasero a lungo nell'orecchio, gli entrarono nel cervello. In breve, gli suggerirono la bellezza e la poesia delle parole. S'innamorò della filologia, s'immerse nello studio delle lingue romanze, ricercò il significato primitivo delle parole e le loro avventure nei secoli.

Come una corrente impetuosa, la filologia portò Pasolini a Croce, forma e contenuto, e poi a Gramsci, l'autenticità della letteratura dialettale e popolare, e infine a Marx. Come dirà più tardi in forma poetica, Pasolini arrivò alla convinzione che «sono infiniti i dialetti, i gerghi, - le pronunce, perché è infinita - la forma della vita: - non bisogna tacerli, bisogna possederli». Per questo, se una buona, metà del romanzo Una vita violenta è scritta in romanesco, c'è un'esigenza stilistica, c'è una intenzione poetica.

Pasolini abita a Roma un appartamento a ridosso dell'antica porta di San Pancrazio, su a Monteverde. È una casa borghese, quadri e libri dappertutto, un ordine inconsueto, quasi meticoloso: e una signora minuta, che passa come un'ombra, di stanza in stanza, sorride a me e teneramente allo scrittore, suo figlio. Porto il discorso lontano, agli anni dell'infanzia. Pasolini aveva sette anni e mezzo quando scrisse la prima poesia. La madre aveva messo insieme alcuni versi per lui, e il bambino non trovò altro modo per manifestarle la sua gratitudine se non mettendosi anche lui a rimare.

La madre è stata e resta tuttora il più grande amore di Pasolini: un amore esclusivo, forse l'origine remota della sua misoginia. Il volto della madre, i suoi gesti, le sue parole, il suo cuore s'incontrano a ogni passo nelle liriche di Pasolini. In alcuni recenti versi è cosi descritta: «È una povera donna, mite, fine, -Che non ha quasi coraggio di essere, - E se ne sta nell'ombra, come una bambina -Coi suoi radi capelli, le sue vesti dimesse... - La casa è piena delle sue magre -Membra di bambina, della sua faticai -Anche a notte, nel sonno, asciutte lacrime - Coprono ogni cosa: e una pietà così antica-Così tremenda si stringe il cuore, -Rincasando, che urlerei, mi toglierei la vita».

Pasolini è nato a Bologna nel 1922, ma non può dirsi bolognese, anche se in quella città egli è vissuto più o meno a lungo in vari periodi. Suo padre era di Ravenna, la madre del Friuli. Non restavano mai a lungo in una stessa città, a causa dei frequenti trasferimenti del padre, ufficiale dell'esercito. Perciò, Pasolini trascorse gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza a Bologna, Parma, Belluno, Conegliano, Sacile, Idria, Reggio Emilia. I continui cambiamenti di ambiente non permettevano al ragazzo di mettere radici in un sito, di stringere lunghe amicizie: e così egli cercava un rifugio, protezione e stabilità, all'ombra della madre. Quel sodalizio divenne ancor più chiuso quando i nazisti uccisero a Casarsa l'unico fratello di Pasolini.

Dall'età di sette anni e mezzo, Pasolini non ha mai smesso di scrivere poesie. Ha casse, armadi, valige, tiretti pieni di poesie. Poiché è un disegnatore dal tratto sicuro, alcuni suoi quaderni di versi giovanili sono illustrati da lui medesimo. Ancora oggi Pasolini scrive di più in versi che in prosa. E a giudizio dei critici più acuti, sono le poesie, insieme con i saggi, le cose più belle e forti di Pasolini.

Dopo la fine della guerra Pasolini tornò a Bologna e vi rimase fino al 1949. La filologia è come un mare straripante, può spingere le sue acque nelle più disparate direzioni, eccitare gli interessi più diversi. Furono anni intensi e fervidi. Pasolini pubblicò un volume di versi in dialetto friulano, aderì per un certo periodo olla poesia ermetica, scrisse molti saggi culturali, tradusse tragedie di Eschilo. E, sempre per il tramite della filologia, scopri il valore delle immagini sullo schermo. Frequentava a Bologna un club di cineamatori dove si davano film di particolare contenuto artistico, e si persuase di poter esprimere il suo mondo poetico più compiutamente col cinema che non non le parole. In altre parole, decise di diventare regista.

Fu anche per questo che nel 1949 si trasferì a Roma. E avvenne l'incontro fra il poeta filologo e le creature primitive, violente, immediate che formano il sottoproletariato romano. I principi e i poeti del Settecento ponevano i loro miti in una idillica vita pastorale. Pasolini invece ha trovato la sua arcadia nelle borgate romane. Ne ha fatto il suo mondo, la sua stessa esistenza. Da quell'incontro sono venuti fuori un romanzo breve, Ragazzi di vita, un romanzo lungo, Una vita violenta, un film, Accattone, una interminabile catena di denunce penali, processi, polemicne asprissime. E nel giro di pochi anni Pasolini è diventato uno dei personaggi più controversi della letteratura, della cinematografia e delle cronache giudiziarie italiane.

Pasolini ha ora quarantanni e sta attraversando un brutto momento. «Il peggiore forse della mia vita», mi dice. Deve rispondere dell'accusa di rapina a mano armata formulata cóntro di lui da un ragazzo addetto a una pompa di benzina dalle parti del Monte Circeo; un suo film, Mamma Roma, dove ha investito i suoi risparmi, corre il rischio di arenarsi a metà strada a seguito della condanna subita dal protagonista, Franco Cittì; alcuni giornali mostrano un particolare accanimento nel dare addosso a Pasolini. Mi dice: «È una persecuzione, una caccia, all'uomo. La borghesia italiana ce l'ha con me perché sono il testimone del sottoproletariato romano. Che devo fare? Non mi resta che cambiare cittadinanza. Quando non sarò più italiano, forse si dimenticheranno di me, mi lasceranno vivere e lavorare in pace».

È un uomo molto amareggiato, non sorride neppure una volta, ha i lineamenti tesi. E lavora, si agitai corre, preso nelle spire di un attivismo smodato. Non ha pace, fa molte cose contemporaneamente. Ha già finito di scrivere il soggetto di un nuovo film, Padre selvaggio (è la storia di un giovane negro in conflitto con la civiltà), e già sta gettando la trama di altri quattro film. La mattina, quando non è preso dal lavoro di regista, manda avanti La mortaccia: é un poema in prosa, un adattamento al nostro tempo dell’Inferno di Dante. Nel poema appariranno i personaggi più significativi della storia contemporanea: per esempio, al posto di Farinata figurerà Stalin. «E Mussolini», domando io. «Probabilmente, lo metterò nel girone dei traditori della patria». « E Hitler ?» «Non ci ho ancora pensato». Infine, una notizia che non mancherà di sorprendere: Pasolini mi assicura che non scriverà più romanzi. Gli hanno dato molto denaro e la celebrità, ma non lo attirano più. Pensa che il suo avvenire di letterato e di artista sia nella poesia, nella saggistica e nel cinema

Nicola Adeifi. Le inquietudini e la tenera vita all'ombra della madre. II segreto di Pasolini scrittore della vita violenta. © La Stampa, 23 maggio 1962, p.9.
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