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Dicono di Lei, Pasolini. Intervista da Enzo Biagi (1973)


Pier Paolo Pasolini a casa sua nell'EUR, Roma (1970) © LEEMAGE/Riproduzione riservata

Il taxi attraversa la città. Mi abbandono ai clacson, all'aria pesante di benzina bruciata, a qualche considerazione. Stanno girando una pellicola che è un condensato: Le Mille e una notte di Bocaccio a Canterbury. Immagino che cosa c'è da aspettarsi, ma l'inventore del titolo è un genio. C'è dentro la magia dell'Oriente, con gli ombelichi delle odalische; il Dugento con i petti delle castellane e i fratoni gaudenti; l'Inghilterra medioevale, con el ragazze magre e lentigginose, che quando escono dalle tinozze rivelano insospettabili risorse, e i cavalieri erranti, e i passaggi che sembrano illustrazioni del "Classici dell'arte", e tutte le avventure si concludono inesorabilmente sui grandi letti a baldacchino.


C'è dentro, in qualche modo, il nostro "Doctor Pier Paolo Pasolini", come sta scritto sul campanello. Abita nella zona dell'EUR. La casa è tranquilla, attorno ci sono degli alberi verdi. Nel soggiorno, un caminetto, molti libri, appoggiati sui mobili, ricordi africani.


La faccia di Pasolini è scavata, gli occhi mi sembrano malinconici, o febbricitanti. È la seconda volta che lo incontro, e mi pare sempre indifeso. Chissà perché, credo deva fare dei sogni terribili.

Dico: "Questo nuovo filone, questo genere che ha iniziato, che segna il trionfo dell'erotismo, e la sagra dei sequestri giudiziari, questo salto dalle parabole di Matteo ai racconti di Shahrazad, non le sembra un po' brusco?".

"È coerente con la vita che ho scelto. I miei film si rivolgevano, come fatto estetico, a persone sensibili, ad anime belle. Nel senso migliore: mi creda, senza ironia. Era destino che accadesse. No, non c'è calcolo: ho avuto molti dispiaceri, angosce, un senso di isolamento".


"Un conto sono le vicende degli Apostoli, un po' diverse quelle dei giovanotti britannici che, nella sua ultima opera, si esibiscono in esercizi assolutamente inconsueti, per questi schermi".

"Li ho realizzati nello stesso modo, con lo stesso entusiasmo. Sono sempre storie corali. Allora il mio Vangelo dava scandalo per come rappresentavo la figura di Cristo; adesso quello che sconvolge è il sesso. E perché? Perché c'è chi ha creata una specie di gerarchia dei valori: ai primi posti la religione, la politica, poi l'ideologia, poi i rapporti sentimentali. Lui, sì, è l'ultimo. Ma questo è mostruoso. Se il sesso è combinato con l'amore, allora siamo tutti d'accordo, allora va bene. Ma ciò accade forse due tre volte in un'intera esistenza; per la maggior parte della gente è solo un attimo, un'occasione. Quando ho pensato al Decameron non supponevo potesse aprire la strada a degli imitatori, non intendevo date il via a una serie di volgarità".

"Che cosa c'è di diverso, in lei, dai seguaci, oltre, si capisce, al talento?"

"Non ricorro mai al doppio senso, all'allusione, non cado nell'ipocrisia".

"Pane al pane, ma qualche volta c'è un po' di confusione nel forno. Legge le critiche? Ho visto sull'Espresso, che Claude Mauriac dice, a proposito del Canterbury, che il troppo è nulla. Troppi uomini con donne e uomini con uomini da soli, troppe funzioni del ricambio realisticamente narrate".

"Me ne dispiace. No, non seguo le recensioni. Vedo quelle che mi capitano, non le cerco, lo so quanto costa fare un film, e fra il mio lavoro e quella colonnina c'è sempre una sproporzione".

"Lei è instancabile. Poesie, sceneggiature, saggi, dibattiti, viaggi; sembra quasi un'ossessione".

"Se non lavoro sono triste".


"Che cosa la offende di più, che cosa la ferisce?".

"La superficialità. Dire cose per sentito dire, per convenzione".


"Lei è protagonista di alcune sgradevoli cronache. Che cosa ha provato, cosa le è rimasto dentro?".

Si è sempre piuttosto infantili davanti alla polizia e alla magistratura. Piuttosto terrorizzati. Basta sedere sul banco degli imputati. Potrei scrivere un "Libro bianco" sui miei rapporti con la giustizia italiana, accuse, sentenze, arringhe, richieste del Pubblico Ministero. Sono stato processato per avere rapinato duemila lire, nascondendomi sotto un cappello nero, le mani infilate in guanti naturalmente neri, e con la pistola caricata con pallottole d'oro".


"Ha assegnato a sua madre la parte della Madonna. È un segno di venerazione. Di suo padre non parla mai. So che era un ufficiale, ma non riesco a vedere che personaggio avrebbe potuto interpretare".

"Finché era vivo lo condannavo in maniera precisa. C'era una pietà in fondo, ma il rapporto con lui era infernale. Mi faceva pena, perché aveva sbagliato tutto: nazionalità, filofascista, prima sul fronte francese, poi prigioniero in Etiopia. È tornato che era uno sconfitto. Aveva capito perché i suoi ideali dovevano cadere. Ha voluto a tutti costi che seguissi i miei studi, la mia vocazione. Quando morì, aveva il grado di colonnello. La mamma è esattamente il contrario: ha avuto una giovinezza spiritualistica; non è cattolica, non è praticante, ma ha poeticizzato la fede. Ama il coraggio, la verità, la bontà".


"In certi momenti, lei mi sembra un po' Malaparte e un po' D'Annunzio: ha il gusto della'avventura, dello scalpore".

"Sono così diverso da tutti e due. Con D'Annunzio ho un comune la vitalità, ma in forme completamente differenti".

"Mi sembra anche un uomo senza speranza".

"Non ho le speranze conformiste: nel partito, nelle chiese; sono gli alibi della coscienza. La mia, si manifesta nel fare. Per me, gran parte del futuro è passato; neppure una delle arrese, dei desideri, si è realizzata".


"È infelice?".

"Di carattere, affatto. Sono appassionato, allegro. Alcune cose mi fanno soffrire selvaggiamente, in maniera quasi patologica, ma mi riprendo abbastanza preso, mi libero".


"Senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?".

"Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l'Eros, per me il football è uno dei grandi piaceri".



"Ricorda qualche momento di gioia, dei momenti lieti?".

"Un periodo, un giorno o due bellissimi, ma li ho dimenticati. Ecco ore: una volta che ero partito in macchina per cominciare il Decameron, alla fine dell'estate. Certe notti, in Africa, da solo. Nel Kuwait, aspettavo qualcosa...ero solo".


"Perché sempre solo?".

"La solitudine è la cosa che amo di più".


"Prega mai?"

"Ho smesso di colpo, a quattordici anni".

"Perché?".

"Un trauma inspiegabile. Avevo comperato nelle bancarelle, il Macbeth, e l'Idiota di Dostoevskij. Li avevo letti. Forse lasciarono in me qualche cosa. Vivevo a Bologna, ed entravo sempre nella chiesetta di via Nosadella, ripetevo la stessa orazione migliaia di volte, raggiungendo abbandoni misitici. Durante una Messa decisi: mai più".


"Ha paura della morte?".

"Da ragazzo avevo un forte terrore: quando ero piccolo ho sofferto di una nevrosi, e un'altra mi ha fatto patire a vent'anni. Impicciavano i ragazzi con ganci. Adesso non la temo per niente".



Paolo Pasolini davanti alla Moschea di Mopti in Mali, 1970 © Archivio Dacia Maraini/Fondo Moravia/Tutti i diritti riservati

"Quali persone stima di più?".

"I giovani operai".


"Mi spieghi, se crede".

"Pongono meno schemi, meno diaframmi fra sé e la realtà. Hanno avuto la grande fortuna di non andare a scuola, di non crearsi un mondo più brutto, più pallido, più contorto, più pieno di piccole idee sbagliate, il cui modello è adesso divulgato dalla TV".


"Non le piace, suppongo, l'Italia".

"Infatti, medito di scappare. Sono colpito dalla borghesizzazione completa. La borghesia, certo, ci ha dato grande conquiste, ma anche Hitler. Sta accadendo qualcosa di analogo. I giovani capelloni operai assomigliano, che orrore, alle SS".


"Dove andrà?".

"In un Paese arabo o africano. Dieci anni fa sarebbe stata una forma di evasione, adesso mi sono riavvicinato: non mi attrae più il loro folclore, ma i loro problemi, che io sento. Sono sfiduciato".


Intanto, si prepara a girare Le Mille e una notte, le novelle che la bellissima Shahrazad narrava al sultano di Persia perché voleva, per vendicarsi della moglie che l'aveva tradito, uccidere tutte le fanciulle del serraglio.


Pasolini cerca di sfuggire, credo, dalla mediocrità e dalle minacce che incombono ma soprattutto da se stesso. Ha conservato la forza dell'innocenza. O il rimpianto. No, non è un paradosso.


Enzo Biagi. Pasolini. Dicono di Lei. 04.01.1973 © La Stampa
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